Quel che è stato, è Stato

provenzano bianiCome diceva Pasolini “i diritti civili sono i diritti degli altri”, quelli difficili da comprendere ma che però esistono e chi si definisce persona civile deve tenere in considerazione anche se non ne condivide il fine, l’obiettivo perché magari non ne ha bisogno e può vivere anche senza. Le unioni civili, ad esempio.
Nello stato di diritto non si tiene una persona resa innocua dalla vecchiaia, in stato di demenza, malata terminale, detenuta in regime di carcere duro.
Le pene severe si danno quando le persone sono sane, non quando sono ridotte a larve umane incapaci di intendere e di volere.
Nella lunga “latitanza” di Provenzano, impossibile senza la collaborazione degli apparati dello stato, nella sua fine c’è tutto il fallimento scientifico – perché mirato ad occultare e nascondere la verità – di uno stato che per bocca delle sue istituzioni si vanta di combattere la mafia, addirittura di averla sconfitta come ha detto Rosi Bindi ieri sera al talk show ma poi si accontenta degli scarti umani e della piccola manovalanza.
E’ perfettamente inutile indignarsi quando in America si mandano a morire i minorati psichici o gente tenuta per vent’anni nel braccio della morte che nel frattempo è diventata altra da quella che ha commesso i reati per i quali è stata condannata alla vendetta di stato se poi, nella nostra bella “culla del diritto” si condannano a sette mesi, nemmeno da scontare com’è già accaduto altre volte, degli assassini in divisa perfettamente lucidi e coscienti, che uccidono quindi nel nome di quel popolo italiano che dovrebbero invece tutelare anche [soprattutto] quando si pone fuori dalla legge e poi si gioisce della vendetta dello stato sul vecchio boss assicurato alla “giustizia” quando ormai non serviva più, incancrenito e finito già dal male.

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“Bernardo Provenzano lasciato morire
così per potere attaccare il 41-bis”

Il boss scomparso a 10 anni dall’arresto – Di Giampiero Calapà

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Magherini, condannati tre carabinieri – Riccardo Chiari, Il Manifesto

Non si dice trattativa: aut aut sì [Come se cambiare una parola o evitare di pronunciarla possa modificare e invertire il corso della storia]

 

Come può essere una vittoria delle istituzioni un presidente della repubblica che viene sollecitato più volte, dopo varie ritrosie giustificate dal fatto che non avesse niente da dire mentre non pare affatto, a testimoniare in un processo di mafia.
La vittoria dello stato sono le istituzioni che non vengono mischiate con la mafia manco per sbaglio.
L’unico settore dello stato che dovrebbe avere a che fare con la mafia è la magistratura, nel paese dove vincono le istituzioni. Grandi esempi di rettitudine e trasparenza delle nostre istituzioni, dei politici che usano il ruolo per proteggere se stessi e non per mettersi a disposizione dei cittadini che rappresentano. Tutti bravi ad usare gli scudi previsti da quella Costituzione dove però non c’è scritto che lo stato dovesse scendere a patti col sistema mafioso, farsi ricattare dalla mafia.
Le notti della repubblica possono presentarsi anche alle dieci di mattina, tanto sono pochi quelli che si accorgono di chi ha spento la luce in questo paese.

Napolitano: ci fu un aut aut della mafia

Al di là di ogni interpretazione corretta, fatta in punta di diritto e di Costituzione, di prerogative concesse al capo dello stato circa la testimonianza di Napolitano l’unica cosa certa, incontrovertibile, è che fino ad un certo punto della storia di questo paese la mafia ha fatto esplodere bombe ovunque su e giù per l’Italia, ha compiuto stragi dove sono morte centinaia di persone innocenti, gli stessi protagonisti della lotta alla mafia: quelli che non trattavano e che lo stato non ha protetto, ad un certo punto non lo ha fatto più.
Ma la mafia non ha smesso di essere né di esistere.

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UN PRECEDENTE ASSAI SPIACEVOLE (Michele Ainis)

 “Ma che l’avvocato di Riina diventi per un giorno il portavoce del Quirinale, almeno questo è un paradosso che potevamo risparmiarci”.

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La parola “trattativa” non è mai stata pronunciata nel corso della testimonianza di Napolitano alla Corte di Palermo trasferita di sana pianta al Quirinale ma si è parlato di un aut aut da parte della mafia che si può tranquillamente tradurre almeno nell’alleggerimento del regime carcerario ai mafiosi del 41bis che Conso, allora ministro della giustizia, disse di aver deciso autonomamente.
Non c’è stata trattativa ma i due attentati alle chiese di Roma: San Giovanni [Spadolini] e san Giorgio al Velabro [Giorgio come Napolitano] presidenti del senato e della camera di allora furono dei segnali ben precisi come ha confermato in molte interviste anche la presidente dell’associazione delle vittime di via dei Georgofili.
Nessuna trattativa né patto ma appare piuttosto evidente che lo stato fu in qualche modo convinto o costretto a trovare un modo per salvare dalle vendette mafiose alcuni politici di allora.
Non c’è stato patto fra lo stato e la mafia ma subito dopo gli “attentatuni” di Capaci e Palermo dove morirono due galantuomini di questo paese e le loro scorte la cosiddetta seconda repubblica regalò all’Italia silvio berlusconi che continua ad essere ben presente nell’assetto della politica di oggi nonostante sia ormai ben conosciuta la sua più che vicinanza con l’ambiente mafioso nelle figure di dell’utri, che costruì materialmente forza Italia, il partito della discesa in campo e di quel vittorio mangano che b. fu obbligato ad assumere in qualità di stalliere ma che in realtà svolgeva tutt’altre funzioni in casa berlusconi.
Non c’è stato patto né trattativa ma sicuramente il ricatto sì, altrimenti le istituzioni e la politica non avrebbero riaccolto berlusconi a braccia aperte nonostante la sua reputazione corrotta, la condanna per frode. Uno stato serio, una politica seria mettono fuori gioco un delinquente conclamato e condannato in via definitiva per aver rubato a quello stato, non si aggrappano alla favoletta che “porta i voti”.
Le istituzioni di un paese serio lavorano e agiscono affinché i cittadini non debbano mai avere nemmeno l’ombra di un sospetto su chi si occupa della gestione dello stato, noi qui abbiamo non solo le ombre ma perfino e proprio le certezze.

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A margine di questa vicenda penso questo: una persona che non ha niente da nascondere, che ricopre un ruolo che è anche di esempio, di guida, di forte responsabilità verso il paese si mette a disposizione, non si chiude in prima istanza dietro il “non ho niente da dire”. Soprattutto ad un’età in cui non te ne dovrebbe fregare nulla di come sarà domani per te, ogni giorno è un furto alla morte.
Invece Napolitano ha dedicato tutta questa sua ultima parte di vita a fare in modo che la gente perdesse ogni giorno di più la fiducia in questo paese e nello stato che lui rappresenta anche in virtù di certe sue azioni, comportamenti, decisioni eccetera.

Chi ha memoria e onestà sufficiente ricorda, chi non sa è colpevole.
Quindi lui se ne andrà, naturalmente per questioni anagrafiche molto prima di chi invece aveva bisogno di ritrovare un po’ di fiducia perché ha qualche domani da vivere più di un novantenne a cui la vita ha dato onori e gloria anche senza nessun merito particolare: per cosa verrà ricordato Napolitano nei libri di scuola e di storia? Non c’è nulla di significativo che si possa associare alla sua figura politica.
Nulla.
Quello che è accaduto ieri è la conferma che l’Italia è un paese che rimarrà meschino, pieno di gente piccola che ha svenduto la sua dignità in funzione del peggioramento del futuro di tanta gente. Nessuno parlerebbe a proposito della testimonianza di Napolitano come di vittoria delle istituzioni né di un evento di importanza storica. E  qui mi riferisco ancora e di nuovo agli organi preposti al controllo del potere, una cosa importantissima e fondamentale per la tenuta del paese, dello stato e della democrazia che qui non si fa: non lo ha fatto chi si doveva opporre a politiche sbagliate perché manifestamente non in grado di condurre il paese nel verso giusto e non lo ha fatto la quasi totalità dell’informazione sempre prona al potente prepotente di turno,  perché se ci fosse stato un vero controllo rigoroso e puntuale invece dell’adeguamento progressivo al potere per vari interessi e opportunismi oggi la situazione sarebbe senz’altro migliore di questa.
Imputare tutto alla gente è disonestà, è non aver capito come giorno dopo giorno questo paese sia stato volutamente trascinato in questa condizione di non ritorno di una democrazia nata fragile, che non si reggeva in piedi, e invece di difenderla chi poteva e doveva le ha dato il colpo di grazia.

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Fortuna che era inutile – Marco Travaglio

La Triade dello Stato sapeva del ricatto: poi il governo sbracò.
NAPOLITANO RICORDA LE CONSULTAZIONI CON SCALFARO E SPADOLINI SULLA PISTA CORLEONESE E IL MOVENTE DI ”AUT AUT” ALLE ISTITUZIONI. MA I SERVIZI DEPISTAVANO.

Chissà che cosa scriverà, ora, chi aveva teorizzato che la testimonianza di Napolitano era inutile, superflua, un pretestuoso accanimento dei pm di Palermo a caccia di vendette per il conflitto di attribuzioni, un pretesto per “mascariare” il presidente della Repubblica agli occhi degli italiani e del mondo intero, per trascinarlo nel fango della trattativa Stato-mafia, per spettacolarizzare mediaticamente un processo già morto in partenza sul piano del diritto, naturalmente per violare le sue prerogative autoimmunitarie, e altre scemenze. Quel che è accaduto ieri nella vecchia Sala Oscura del Quirinale è la smentita più plateale e, per certi versi, sorprendente di tutti gli inutili (quelli sì) fiumi d’inchiostro versati per un anno e mezzo da corazzieri, paggi e palafrenieri di complemento che, con l’aria di difendere Giorgio Napolitano, hanno guastato forse irrimediabilmente la sua immagine pubblica, spingendolo a trincerarsi dietro segreti immotivati, privilegi inesistenti, regole riscritte ad (suam) personam e spandendo tutt’intorno a lui una spessa e buia cortina fumogena che ha indotto molti cittadini a sospettare.

Quando ieri, finalmente, il capo dello Stato s’è trovato di fronte ai giudici e ai giurati della Corte d’Assise, ai quattro pm e ai legali degli imputati (mafiosi, carabinieri e politici) e delle parti civili, è stato lui stesso a dissipare – per quanto possibile – tutto quel fumo. Facendo la cosa più normale: rispondere alle domande dicendo la verità, come ogni testimone che si rispetti. E, finalmente libero dai cattivi consiglieri, ha preso atto che la ricerca della verità è il solo movente che anima i giudici e i pm di questo processo: nessuno vuole incastrare o screditare nessuno, tutti vogliono sapere cos’accadde fra il 1992 e il 1993, mentre Cosa Nostra attaccava il cuore dello Stato e pezzi dello Stato la aiutavano a ricattarlo, scendendo a patti e firmando cambiali in bianco. Insomma, ha detto la verità. E così, consapevolmente o meno, ha fornito un assist insperato alla Procura di Palermo.   L’aut aut. Ripercorrendo i suoi ricordi e anche i suoi appunti di ex presidente della Camera, Napolitano ha fornito un contributo che forse nemmeno i magistrati si aspettavano così nitido e prezioso, confermando in pieno l’ipotesi accusatoria alla base del processo: che, cioè, i vertici dello Stato sapessero benissimo chi e perché metteva le bombe. Per porre le istituzioni dinanzi a quello che Napolitano ha definito un “aut aut”: o lo Stato allentava la pressione e la repressione antimafia, cominciando dall’alleggerimento del 41-bis, oppure si consegnava alla strategia destabilizzante di Cosa Nostra, che avrebbe seguitato ad alzare il tiro dello stragismo per rovesciare l’ordine costituzionale. I fatti – all’epoca sconosciuti a Napolitano, ma persino al premier Carlo Azeglio Ciampi – ci dicono che fra il giugno e il novembre del 1993 quell’allentamento ci fu: prima – all’indomani della bomba in via Fauro a Roma e della strage in via dei Georgofili a Firenze – con la rimozione al vertice delle carceri del “duro” Nicolò Amato, rimpiazzato con il “molle” Adalberto Capriotti e col suo vice operativo Francesco Di Maggio; poi – in seguito all’eccidio di via Palestro a Milano e alle bombe alle basiliche romane di San Giorgio al Velabro e San Giovanni in Laterano (Giorgio come il presidente della Camera Napolitano, Giovanni come Spadolini presidente del Senato) – con la revoca del 41-bis a centinaia di mafiosi. Il risultato, in simultanea con gli ultimi preparativi per la nascita di Forza Italia (da un’idea di Marcello Dell’Utri) e la discesa in campo di Silvio Berlusconi, fu la fine delle stragi. O meglio, la loro sospensione sine die, per dare a chi aveva chiuso la trattativa il tempo e il modo di pagare le cambiali. “Violenza o minaccia a corpo politico dello Stato”, cioè al governo, anzi ai governi italiani: questa è l’accusa formulata dalla Procura (e confermata dal Gup) agli imputati di mafia e di Stato. Un’accusa che la lunga testimonianza di Napolitano sull’“aut aut” mafioso – tutt’altro che inutile, anzi fra le più utili fin qui raccolte – ha clamorosamente rafforzato.

La lettera. Il contributo meno interessante Napolitano l’ha fornito a proposito di un passo della lettera di dimissioni che gli inviò il 18 giugno 2012 il suo consigliere giuridico Loris D’Ambrosio, nel pieno delle polemiche per le sue telefonate con Nicola Mancino: “Lei sa di ciò che ho scritto anche di recente su richiesta di Maria Falcone. E sa che, in quelle poche pagine, non ho esitato a fare cenno a episodi del periodo 1989-1993 che mi preoccupano e fanno riflettere…”. Napolitano sostiene che D’Ambrosio non gli disse nulla, anche se riconosce che poi nel libro della Falcone quegli episodi non li raccontò. Ha trovato anche la lettera dattiloscritta che il consigliere inviò alla Falcone, ma assicura ai pm che il testo è identico a quello poi pubblicato. “… (episodi) che mi hanno portato a enucleare ipotesi – solo ipotesi – di cui ho detto anche ad altri…”. Quell’“anche ad altri” fa pensare, per la seconda volta, che ne abbia parlato anche con Napolitano. Il quale però nega. “…quasi preso anche dal vivo timore di essere stato allora considerato solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi”. Il presidente riconosce che si tratta di frasi “drammatiche”. Perché allora non ne chiese conto al suo collaboratore dopo averle lette? La risposta è evasiva: quando, l’indomani, parlò con D’Ambrosio, lo fece soltanto per convincerlo a ritirare le dimissioni e non affrontò con lui il tema degli “indicibili accordi”. Ora, visto che D’Ambrosio è morto e gli “altri” destinatari delle sue confidenze sono ignoti, il giallo rimane insoluto.   Il 1992. Anche sul 1992 – quando inizia l’attacco ricattatorio di Cosa Nostra allo Stato dopo la sentenza della Cassazione sul maxiprocesso, con il delitto Lima, la strage di Capaci, l’inizio della trattativa del Ros con Vito Ciancimino (intermediario prima con Riina poi con Provenzano), la mattanza di via D’Amelio, l’accantonamento di Ciancimino e le trame di Provenzano per consegnare Riina ai carabinieri – Napolitano ha poco da dire. Se non che ricorda bene come, alla Camera da lui presieduta, il decreto Scotti-Martelli sul 41-bis, varato il 6 giugno subito dopo Capaci, si arenò e occorse l’omicidio di Borsellino perché il Parlamento lo convertisse in legge il 1° agosto. E che, stranamente, il neopresidente dell’Antimafia Luciano Violante, suo compagno di partito, rivelò anche a lui che Ciancimino voleva esser convocato e sentito in commissione (cosa che Violante promise di fare, e poi misteriosamente non fece mai). Per la verità, a raccomandare don Vito per un incontro a tu per tu con Violante, era stato proprio il colonnello Mario Mori, ma questo il compagno Luciano non lo disse al compagno Giorgio. Perché il presidente dell’Antimafia avvertì proprio il presidente della Camera di quella richiesta di Ciancimino? Napolitano non sa spiegarselo.   Il 1993. Dopo la cattura pilotata di Riina, Cosa Nostra si rifà sotto a suon di bombe per costringere lo Stato a piegarsi. Roma e Firenze a maggio. Poi Milano e di nuovo Roma nella notte fra il 27 e il 28 luglio. Il presidente ricorda che subito, fin dal 29 luglio, “la Triade” Scalfaro-Spadolini-Napolitano, cioè i massimi vertici dello Stato che condividevano tutte le conoscenze (mutuate dall’intelligence e dalle forze investigative) su quel che stava accadendo, erano certi che anche quelle stragi avevano una matrice mafiosa (“corleonese”, specifica il presidente) e un movente ricattatorio, estorsivo. Napolitano ricorda di averne parlato col presidente Scalfaro e forse, ma non lo ricorda con precisione, col premier Ciampi. Il quale, dopo il black out dei centralini di Palazzo Chigi nella notte delle bombe, dirà di aver temuto un colpo di Stato e tirerà in ballo la P2. Non solo Cosa Nostra voleva ricattare lo Stato: ma i massimi esponenti dello Stato si sentivano sotto ricatto di Cosa Nostra. Napolitano ricorda una imprecisata “pubblicistica” che già all’epoca avrebbe riferito di due correnti divergenti fra i corleonesi: l’ala guerrafondaia e un’ala più morbida (quella di Provenzano). In realtà nessuno allora scrisse mai nulla del genere: lo disse il ministro dell’Interno Mancino, nel dicembre ’92, poco prima della cattura di Riina, in un’incredibile intervista al Giornale di Sicilia. Poi si giustificò con i pm sostenendo di averlo saputo da Pino Arlacchi, consulente della Dia. Ma l’allora capo della Dia, Gianni De Gennaro, ha smentito: in quei mesi riiniani e provenzaniani risultavano una cosa sola, anzi si pensava che Provenzano fosse addirittura morto. Solo chi trattava con Ciancimino, e dunque con Provenzano, sapeva che quest’ultimo era vivo e si era smarcato dall’ala stragista. Ma su questi fatti Napolitano non ha nulla di utile da riferire.   Tutti sapevano. In una nota del Sismi appena scoperta e depositata dai pm, datata 29 luglio ’93 (il giorno dopo le stragi di Milano e Roma), si legge: “Tra il 16 ed il 20 agosto ci sarà un attentato che non sarà portato a monumenti o a teatri, ma a persone. A livello grosso. Una strage. Poi si faranno ad uno grosso (inteso in senso di personalità politica). Spadolini e Napolitano, uno vale l’altro. Gli autori sono sempre i soliti: quelli là (riferito ai corleonesi?) d’accordo coi grossi (riferito ai politici) e coi massoni”. Parole che fanno scopa con quelle pronunciate ieri da Napolitano, che fra l’altro ha ricordato il rafforzamento delle misure di sicurezza sulla sua persona proprio in quei giorni. Perché è così importante, per la pubblica accusa, la testimonianza del presidente sulla matrice corleonese e sulla finalità ricattatoria delle stragi dell’estate ’93 come consapevolezza comune e unitaria fin da subito presso i massimi vertici dello Stato? 1) Perché, della “triade”, Napolitano è l’unico superstite: Scalfaro e Spadolini sono morti, e così l’allora capo della Polizia Vincenzo Parisi, uomo-chiave di quella stagione, anche per il suo filo diretto con Scalfaro. 2) Perché nessun altro uomo delle istituzioni di allora è mai stato così chiaro ed esplicito sul livello di consapevolezza dei rappresentanti dello Stato sul significato dell’offensiva stragista di Cosa Nostra: una lunga sfilza di politici smemorati e/o reticenti.   3) Perché, se già il 29 luglio ’93 si sapeva che le bombe in via Palestro e contro le basiliche erano roba di mafia per piegare lo Stato, non si comprende quel che accadde subito dopo.   Piste e depistaggi. Il 6 agosto ’93, attorno a un tavolo del Cesis (il comitato che coordinava i servizi segreti militare e civile), si riunirono i capi dell’intelligence, ma anche il capo della Polizia Parisi, il capo della Dia De Gennaro, il vicecomandante del Ros Mori e il vicecapo e uomo forte del Dap Francesco Di Maggio. E se ne uscirono con una fumosa relazione, sulle bombe della settimana precedente, piena di piste fasulle al limite del depistaggio: oltre all’eventuale matrice mafiosa, ipotizzarono quella del terrorismo serbo, o palestinese, o del narcotraffico internazionale. Del resto, se gli apparati e i servizi avessero davvero avuto dubbi sulla pista mafiosa per strappare allo Stato un cedimento sul 41-bis, cioè sul trattamento dei boss detenuti, perché mai invitare a quel tavolo un estraneo come il vicecapo delle carceri Di Maggio? Fin da giugno, il suo superiore Capriotti aveva scritto al ministro Conso sollecitando un taglio lineare dei 41-bis per “dare un segnale di distensione nelle carceri”. E proprio per accelerarlo Cosa Nostra aveva seminato morte e terrore in quella primavera-estate. Infatti appena quattro giorno dopo il vertice al Cesis, il 10 agosto, De Gennaro firmò un rapporto della Dia, destinato a Mancino e a Violante, che metteva nero su bianco la pista mafioso-trattativista delle bombe e invitava il governo a non cedere sul 41-bis: “È chiaro che l’eventuale revoca anche solo parziale… del 41-bis potrebbe rappresentare il primo concreto cedimento dello Stato intimidito dalla stagione delle bombe”. Un modo per smarcarsi dal fumoso e depistante rapporto del Cesis, che pure lo stesso De Gennaro aveva siglato? Un mese dopo, 11 settembre, lo Sco della Polizia, guidato da Antonio Manganelli, fu ancora più esplicito, usando per la prima volta il termine “trattativa” in una nota inviata all’Antimafia di Violante: “Obiettivo della strategia delle bombe sarebbe quello di giungere a una sorta di trattativa con loStato per la soluzione dei principali problemi che affliggono l’organizzazione: il ‘carcerario’ e il ‘pentitismo’… Creare panico, intimidire, destabilizzare, indebolire lo Stato, per creare i presupposti di una ‘trattativa’, per la cui conduzione potrebbero essere utilizzati da Cosa Nostra anche canali istituzionali”. Più chiaro di così…   Lo sbraco. Anche questo allarme, come i precedenti, viene ignorato sia da Mancino sia da Violante. E il 5 novembre il ministro Conso non rinnova il 41-bis in scadenza a 334 mafiosi detenuti, contro il parere negativo della Procura di Palermo. Ma in ossequio alla sollecitazione che gli veniva dal nuovo capo del Dap fin da giugno. Per negare l’evidente cedimento al ricatto mafioso, Conso s’è trincerato dietro il rapporto del Cesis che ipotizzava matrici diverse da quella di Cosa Nostra per le stragi dell’estate. Ma, oltre ai rapporti Dia e Sco, a smentirlo ora c’è anche la parola di Napolitano: i vertici dello Stato sapevano fin da subito che era stata Cosa Nostra per ricattarlo. E lo Stato sbracò.

 

Mafia: un affare di stato [il monito oscuro]

 

C’è poco da inquietarsi per le cazzate di Grillo: se lo stato ha pensato che fosse opportuno entrare in trattativa con la mafia evidentemente ha riconosciuto alla mafia non solo una morale ma perfino il diritto di residenza.

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Succede solo in Italia.

Solo in Italia il presidente della repubblica può testimoniare in un processo per mafia da diretto interessato, può chiedere e ottenere che una parte significativa della sua vita politica possa essere nascosta ai cittadini che rappresenta.
Così come andò per le intercettazioni delle telefonate con Mancino distrutte dopo qualche ora dalla sua seconda elezione, anche questa la prima della storia di questa repubblica perché il contenuto fu giudicato irrilevante ma noi non sapremo mai se è vero, anche oggi Napolitano ha potuto imporre i suoi diktat, ovvero pretendere la testimonianza occulta che gli è stata concessa nonostante e malgrado la Costituzione non preveda che un cittadino possa scegliere di mettersi in una posizione superiore a quella degli altri.
Questo paese è una farsa, quello che succede qui non potrebbe accadere in nessun altrove dove la democrazia, la legge uguale per tutti, vengono messe in pratica anche coi potenti. Anzi, soprattutto con loro.
Mi chiedo, alla luce di questa vicenda di cui molti purtroppo non percepiscono la gravità, che senso abbia parlare ancora di politica.
Un presidente della repubblica che deve testimoniare in un processo di mafia si dovrebbe dimettere quattro minuti dopo ché cinque già sono troppi.
Solo perché non lo ha fatto prima.

 

“Si conosce solo l’orario d’inizio. Le dieci di stamattina, nella sala del Bronzino nota anche come “sala oscura”, perché non ha finestre sul mondo esterno. Poi tutto quello che accadrà al piano nobile del Quirinale sarà ignoto, in una sorta di blackout di stampo nordcoreano. Persino la disposizione di persone, una quarantina, tavoli e poltrone non è ammesso sapere. Giorgio Napolitano testimonierà al “buio” sulla trattativa tra Stato e mafia. Fino all’ultimo si sono moltiplicati gli appelli per dare trasparenza all’esame davanti alla Corte d’Appello di Palermo, in trasferta eccezionale a Roma. Il più autorevole ieri sul Corriere della Sera , a firma del quirinalista di via Solferino, Marzio Breda. Sembrava così che in giornata si fosse aperto uno spiraglio, ma alle sei di sera dagli uffici del consigliere per la stampa e per la comunicazione la risposta è stata laconica: “Non sono ammessi giornalisti”. Stop. [Il Fatto Quotidiano]

«Non ho da riferire alcuna conoscenza utile al processo, come sarei ben lieto di potere fare se davvero ne avessi da riferire» [Napolitano scrive alla Corte d’Assise di Palermo, 25 Novembre 2013]

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In questo paese, spiace per i detrattori tout court, il problema non è Grillo che lancia la sua ennesima boutade sulla mafia ma è uno stato che con la mafia ci ha trattato per ragioni sue e che non sono – evidentemente – quelle di chi per combattere la mafia è morto né le nostre di cittadini che abbiamo il diritto di sapere quanto è stato ed è coinvolto e in che misura il presidente della repubblica di questo paese nella trattativa con la mafia tutt’altro che presunta.
Un chiarimento che non avverrà perché intorno al presidente della repubblica è stato steso un cordone protettivo, una censura intollerabile per una democrazia, qualcosa che in qualsiasi altro paese democratico nessuno avrebbe mai potuto pensare di poter fare ma in Italia sì.
Ecco perché vi prendono e ci prendono per il culo quando fanno credere che il problema sia quello che dice Grillo e non quello che ha fatto e fa lo stato.
E chi guarda con commozione e rispetto alle vittime della mafia di questo paese, quelli che Grillo è sempre brutto e cattivo dovrebbero ricordarsi che oggi, a distanza di anni, dal periodo in cui la mafia faceva saltare i palazzi e le autostrade, scioglieva i bambini nell’acido c’è un presidente del consiglio che insieme ad un amico stretto della mafia, quella montagna di merda lì, può invece rovesciare le fondamenta di questa nostra già fragilissima democrazia. E lo farà.

 

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Per chi è abituato a parlare quando nessuno glielo chiede e vieppiù quando nemmeno dovrebbe, rispetto a situazioni e contesti in cui non è richiesto il suo autorevole parere [anzi], non dovrebbe essere difficile rispondere a una ventina di domande su qualcosa che invece lo riguarda eccome e che conosce bene.
Mai vista, ma soprattutto sentita già dalla voce tanta servile deferenza da parte dei giornalisti costretti a dire, per dare il minimo sindacale delle notizie, che oggi Napolitano dovrà rispondere ai magistrati di Palermo quale teste nel processo sulla trattativa stato mafia; magistrati dei quali è il capo supremo e quindi da lui sarebbe stato naturale aspettarsi un atteggiamento non ostile ma rispettoso di quello che la magistratura rappresenta, Napolitano dovrebbe essere l’esempio per tutti e la risposta a chi per decenni ha insultato la magistratura colpevole di fare quello che fanno i giudici in tutti i paesi civili: processare imputati accusati di reati e assolverli o condannarli sulla base dell’evidenza delle prove.
In questo paese c’è un sacco di gente nei settori che contano, soprattutto quello dell’informazione, ben disposta ma soprattutto predisposta naturalmente ad inchinarsi al potente e a fare in modo che non abbia di che preoccuparsi di nulla, gente che anticipa gesti di servilismo non richiesto, gente che rispetto a quello che accadrà oggi ne ha dette di ogni, inventandosele anche, per convincere gli italiani che non è normale che s’interroghi il presidente della repubblica in un processo di mafia, mentre l’anormalità è esattamente il contrario, ovvero non è normale che possa diventare presidente della repubblica un personaggio che ha dei trascorsi di coinvolgimento tale da rendere necessaria la sua testimonianza in un processo di mafia. Un evento mai successo prima nella storia di questo paese.

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Oggi è ancora più chiaro che gli investitori stranieri rinunciano all’Italia quale partner economico perché c’è l’articolo 18 e perché scioperano gli assistenti di volo per fare un dispetto al cretinetti amico del bugiardo seriale.
Non lo fanno mica perché questo era, è e resterà a dispetto di chiunque andrà al potere il paese zimbello del mondo. Credevate che fosse finita con berlusconi eh? Io però l’avevo detto, perché berlusconi continua a non essere la causa ma la conseguenza della mancanza di una netta presa di posizione dello stato contro le organizzazioni mafiose. Chi in questo paese  ha provato a combattere la mafia sul serio è morto ammazzato dalla mafia dopo essere stato abbandonato, lasciato solo da quello stato che avrebbe dovuto garantire e tutelare i veri servitori dello stato, non trattare con l’antistato. La solitudine è uno dei temi ricorrenti di tante affermazioni di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, Nino Di Matteo e Roberto Scarpinato per fortuna nostra e loro ancora vivi sono stati abbandonati dallo stato nonostante le ripetute minacce da parte della mafia e, nel caso di Scarpinato anche da pezzi dello stato corrotti. I Magistrati antimafia di questo paese accerchiati e impediti non solo dalle organizzazioni criminali che contrastano ma anche dallo stato che dovrebbe agevolarli nel lavoro ma non lo fa perché evidentemente non può. Il perché non può è scritto a chiare lettere anche nelle attività pubbliche che hanno a che fare con lo stato. Domenica sera Milena Gabanelli in un’altra puntata di Report da far studiare ai ragazzini a scuola ci ha raccontato che sono mafia, corruzione e criminalità tutte quelle cose che vengono ammantate con la definizione di grandi opere, mentre altro non sono che il furto reiterato e perpetuato dallo stato ai danni dei cittadini che non hanno bisogno di opere grandi ma delle necessità quotidiane che vengono negate, perché le risorse che uno stato serio dovrebbe investire a favore delle esigenze e dei bisogni del paese vengono invece canalizzate in quell’altrove che poi si traduce nei rapporti fra le istituzioni che rappresentano il paese con la malavita ordinaria, quella che ha, evidentemente, mezzi e strumenti per tenere sotto ricatto quei rappresentanti dello stato che peraltro non oppongono mai resistenza: s’offrono. Ed ecco che la mafia non fa più saltare autostrade e palazzi perché non è più necessario, perché c’è chi garantisce anche alla mafia la possibilità di continuare ad essere in una tranquilla convivenza, quella che auspicava Lunardi l’ex ministro di un governo di berlusconi: l’amico di dell’utri e di mangano, persone non vicine alla mafia ma proprio dentro la mafia.

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Nota a margine: Se ci fosse un giornalismo degno in questo paese si eviterebbero anche un mucchio di polemiche inutili, perché le persone si fiderebbero di quello che leggono sui giornali e di ciò che viene riportato dai telegiornali.
Io non sono pagata per scrivere quello che vedo e le relative opinioni su quello che accade, chi si esprime da una radio, dalle televisioni e sui giornali sì: viene pagato non per raccontare cose, perlopiù balle, menzogne e falsità basandosi sulle sue simpatie ma su quello che realmente le persone dicono e fanno.
Per fare chiarezza e perché la gente capisca e possa poi costruirsi un’opinione il più possibile vicina alla realtà, non per armare casini e polemiche di cui si parlerà giorni e giorni ovunque: per radio, in televisione, sui giornali e che trasformano i social nella consueta arena da derby.
Questo piccolo preambolo solo per dire che servi non si nasce, lo si diventa, ma volendo si può anche decidere di smettere: come con l’alcool, il fumo e tutte le dipendenze che rischiano di avere poi delle ricadute sulla collettività, come la propaganda oscena che molti fanno dai canali che hanno a disposizione.
La propaganda è un male sociale, un danno collettivo e sarebbe l’ora e anche il caso che un certo giornalismo abituato a servire i vari padroni pensi ad un modo onesto per guadagnarsi lo stipendio facendo quello che fa normalmente il giornalismo nei paesi semplicemente normali; mettersi al servizio dei cittadini, non del padroncino di turno.

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Al cittadino non far sapere – Marco Travaglio, 28 ottobre

L’altro giorno anche i giornali italiani hanno celebrato Ben Bradlee, il leggendario direttore del Washington Post scomparso a 93 anni che era entrato nella storia del giornalismo e della politica pubblicando i Pentagon Papers sulla sporca guerra in Vietnam e poi l’inchiesta di Bernstein & Woodward che scoperchiò lo scandalo Watergate e abbatté il presidente Nixon, sempre in barba alla ragion di Stato e in nome della ragion di cronaca. Sono gli stessi giornali che da due anni tacciono su uno scandalo che fa impallidire il Watergate e riguarda non la Casa Bianca, ma il Quirinale a proposito della trattativa fra lo Stato e la mafia. Hanno nascosto il ruolo di Giorgio Napolitano nelle manovre del consigliere D’Ambrosio per sottrarre l’inchiesta alla Procura di Palermo. Hanno ribaltato la verità, trasformando i pm da vittime in aggressori del Colle.

Hanno chiesto a gran voce la distruzione delle telefonate Napolitano-Mancino, onde evitare il rischio di inciampare in una notizia e di doverla pubblicare. Hanno sorvolato sulla vergogna di uno Stato che, tramite i suoi massimi rappresentanti, non ha mai solidarizzato con i pm condannati a morte da Riina, depistati e minacciati con pizzini e strane visite in case e uffici da uomini di servizi e apparati (deviati, si fa per dire). Si sono arrampicati sugli specchi per sostenere l’insostenibile esclusione degli imputati dall’udienza al Quirinale per la testimonianza di Napolitano dinanzi alla Corte d’Assise, ai pm e ai legali degli imputati. E ora non dicono una parola sull’ultima vergogna: il divieto di accesso e di ascolto in quell’udienza imposto dal Quirinale alla stampa (cioè ai cittadini).   Solo il Corriere e solo ieri è intervenuto per chiedere che i giornalisti possano assistere alla scena, mai accaduta prima, di un capo dello Stato italiano sentito come teste in un processo di mafia. Una richiesta di trasparenza condivisibile, ma supportata da motivazioni assurde: “conviene alla massima istituzione del Paese” per evitare “interpretazioni strumentali, illazioni fuorvianti, inquinamenti della realtà, suggeriti da una campagna culminata nella morte per infarto di D’Ambrosio e in una sfida tra poteri… in grado di ledere il prestigio e l’autorevolezza del supremo organo costituzionale”. Cioè: la stampa dev’essere presente non per informare i cittadini di ciò che dirà o non dirà il Presidente sulla pagina più nera della storia recente, ma per salvargli la faccia dalla “spettacolarizzazione del processo” (che peraltro, per legge, sarebbe pubblico), da “letture manipolate e virali” dei “professionisti della controinformazione a caccia di scandali, a costo di inventarli”. Come se ci fosse bisogno di inventarli, gli scandali. Come se la stampa più serva del mondo (in fondo alle classifiche della libertà d’informazione) si divertisse a mettere in cattiva luce il Presidente (ma quando mai). Come se il compito dei giornali fosse di surrogare l’ufficio stampa del Colle.   Naturalmente il Corriere ce l’ha col Fatto, che ha il brutto vizio di scrivere quello che gli altri occultano e financo “accostare la testimonianza del presidente perfino al caso Clinton-Lewinsky”. Già: il paragone è azzardato. Infatti Clinton doveva rispondere dei suoi rapporti orali con una stagista, non degli “indicibili accordi” fra Stato e mafia (orali e scritti in un papello) che il suo consigliere afferma di aver confidato a Napolitano. Il video dell’interrogatorio di Clinton dinanzi al procuratore Starr fece il giro del mondo, su tutte le tv e i siti Internet, e qualche miliardo di persone poté farsi un’idea della sincerità del presidente Usa da ogni smorfia e piega del suo volto. Invece la deposizione di Napolitano non la vedrà nessuno, perché non sarà neppure filmata. Far notare questo sconcio, per il Corriere, è roba da “quarto potere che gioca sul vittimismo” e “deraglia dalle regole base della deontologia”. Chissà come avrebbe reagito il vecchio Ben Bradlee se i nostri maestrini di deontologia gli avessero spiegato il giornalismo come manutenzione al monumento equestre di un presidente.

 

 

 

 

Riformiamolo, con viva e vibrante soddisfazione

Ogni volta che un tribunale si avvicina a un politico per condannarlo, assolverlo o chiamarlo a testimoniare a Napolitano gli scappa sempre la riforma della giustizia.
E’ un’incontinenza ciclica la sua ormai. Non la può trattenere. Nella nuova richiesta urgente di riforma della giustizia  non più rimandabile: secondo Napolitano è solo da questa che può ripartire l’economia e dopo averla sollecitata anche in due precise occasioni, quando condannarono b e quando sempre b fu assolto dal processo per sfruttamento della prostituzione minorile  c’entrerà qualcosa la richiesta, ennesima, del tribunale di Palermo che chiede a Napolitano di comportarsi come un qualsiasi cittadino rispettoso delle regole che quando lo stato chiama, risponde?

Lo scopriremo solo vivendo.

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Re Giorgio è stanco (e può andare via) – Fabrizio d’Esposito, Il Fatto Quotidiano

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IL TESTIMONE NAPOLITANO – Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, Il Fatto Quotidiano

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Monumentale Sabina Guzzanti che introduce l’argomento del suo film in prossima uscita sulla trattativa stato mafia.

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Nel paese col tasso più alto di corruzione e malaffare all’interno della classe politica e dirigente la riforma della giustizia, fortemente voluta dal presidente della repubblica che l’ha sollecitata in varie e precise occasioni anche prima di oggi, sarà frutto dell’accordo, del patto segreto di cui nessuno deve sapere fra un presidente del consiglio abusivo e un condannato per aver rubato allo stato.
Se non è un colpo di stato questo è sicuramente un colpo allo stato del quale sono complici tutti quelli che hanno agevolato le oscure e antidemocratiche manovre di palazzo che consentono ad un parlamento illegittimo, mantenuto in vita non da democratiche elezioni ma da una sentenza della Consulta che aveva intimato al parlamento di garantire la tenuta dello stato il tempo ragionevole per produrre una legge elettorale che permettesse ai cittadini di tornare a scegliersi i propri rappresentanti.
Renzi è in parlamento da oltre sei mesi, a Letta non fu concesso neanche un giorno di più perché non aveva portato nemmeno un risultato.
Nemmeno Renzi lo ha portato, a parte la quantità sesquipedale di chiacchiere non una cosa è stata fatta per garantire la tenuta dello stato e del diritto, anzi si lavora per sfoltire proprio nei diritti ma nessuno gli mette fretta: il progetto di demolizione dei diritti e di rendere vita facile alla casta deve andare avanti perché così ha detto e chiesto il re.

In un paese dove solo gli introiti provenienti da attività illegali e criminali fanno lievitare il Pil chissà di quale riforma della giustizia ci sarà bisogno. Vogliamo legalizzare l’illegale mentre vengono tolte tutte le tutele ai lavoratori onesti che si fanno il mazzo?
Mentre i giovani sono senza più nemmeno la possibilità di pensare un futuro e i disoccupati a quarant’anni troppo vecchi per rientrare nel circuito del lavoro?
Presidente, si dimetta, ché s’è fatta quell’ora.
Mai vista un’istituzione così palesemente contro il popolo che rappresenta e che continua a sostenere il sistema che ha distrutto lo stato sociale.

E dire che proprio lui il 25 aprile di due anni fa auspicava il riavvicinamento dei cittadini alla politica, chiedeva alla politica e alle istituzioni di cambiare registro per scongiurare il pericolo dei populismi.

 

Semel in anno licet insanire [una volta l’anno è lecito impazzire]

Le belle parole senza le azioni a seguirle, significano solo ipocrisia.

Non c’è pace senza giustizia,  e in un paese dove lo stato tratta, patteggia, riduce le pene ai criminali, li fa sedere perfino al tavolo della politica, non li condanna ma se li tiene da conto, non potrà mai esserci né pace né giustizia. E nemmeno libertà.

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Capaci di memoria | 23 maggio 1992 – 23 maggio 2014

“Giovanni Falcone è “attuale” al cospetto di un capo dello Stato, Giorgio Napolitano, che mise nel tritacarne mediatico e istituzionale, senza tradire il benché minimo rossore, un pugno di magistrati palermitani che avevano deciso – prima coordinati da Antonio Ingroia, poi da Nino Di Matteo – di raccogliere il meglio dell’eredità falconiana indagando sulla “trattativa” Stato-Mafia. Giovanni Falcone resta “attuale” in un Paese in cui, un capo dello Stato, Giorgio Napolitano, ha preteso e ottenuto che le sue telefonate con l’indagato Mancino Nicola fossero mandate al macero”.

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Chi piagnucola davanti ai ragazzi della nave della legalità è lo stesso presidente che si dimenticò di dare un sostegno anche e solo di parole a Nino Di Matteo, giudice antimafia minacciato di morte dalla mafia? 
Lo stesso che nel ventennale della strage di Capaci disse che “lo stato vent’anni fa non si lasciò intimidire” mentre nel governo c’era l’amico dei mandanti delle stragi di mafia? Lo stesso che si rifiuta di collaborare al processo sulla trattativa tutt’altro che presunta fra la mafia e lo stato? E alfano, incredibilmente e ancora ministro dell’interno che parla di legalità è lo stesso che ha sostenuto, e lo fa ancora, non fatevi ingannare dalle apparenze, l’amico dei mafiosi, di dell’utri, dell’eroe mangano? E Renzi, attuale presidente del consiglio, quello che dice ad altri “giù le mani da Berlinguer”, come se lui invece ce le potesse mettere, è lo stesso che ha fatto accordi in profonda sintonia con l’amico della mafia? È questo lo stato forte che non si lascia intimidire e combatte la mafia, l’illegalità? 

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“Giovanni, amore mio sei la cosa più bella della mia vita. Sarai sempre dentro di me, come io spero di rimanere viva nel tuo cuore. Francesca” [Biglietto di Francesca Morvillo a Giovanni Falcone, ritrovato nella cancelleria del Tribunale di Palermo]

Povero Giovanni, tradito e insultato da vivo e da morto. Da morto per lo stato, per questo stato.

Punito per non aver commesso il fatto

Napolitano, un paio di giorni fa: “non si tratta coi facinorosi violenti”.
Coi delinquenti socialmente pericolosi però sì.
Se po’ ffà’.

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Quello che ha punito Gennaro De Tommaso detto Genny [le carogne vere sono altre, come ci ricorda stamattina Marco Travaglio]  è un provvedimento discriminatorio e fascista fondato sul nulla, deciso da un ministro dell’interno che è andato per due volte, commettendo il reato di eversione, davanti e dentro i tribunali a chiedere libertà per berlusconi. In Italia circola ancora a piede libero un diffamatore seriale che ha messo a rischio l’incolumità fisica e la reputazione umana e professionale di un giudice oltraggiandolo con la menzogna per sei anni dalle pagine di un giornale che è stato graziato da Napolitano, lo stesso che due giorni fa invocava la legalità allo stadio. Alfano dovrebbe spiegare in base a quale reato ha interdetto gli stadi per cinque anni a De Tommaso. Quale sarebbe il reato e l’istigazione  nella frase “Speziale libero”.  In quale paese libero, democratico e con una Costituzione che chiede, ordina la libertà di espressione si può limitare la libertà di un cittadino solo per aver espresso un’opinione discutibile, odiosa quanto si vuole ma che non istiga a nessuna violenza, non richiama ad atti violenti con cui chiede la libertà di un detenuto condannato fra l’altro dopo un processo e una sentenza con molti punti oscuri tant’è che la Cassazione ha stabilito che il processo che ha condannato Speziale per l’omicidio Raciti è da rifare da capo.

De Tommaso, che ha mantenuto l’ordine dentro uno stadio evitando il peggio, ovvero si è sostituito allo stato che non lo sa fare,  ha pagato la figura di merda di uno stato che coi criminali di ogni ordine e grado ci ha sempre trattato salvo poi blaterare di lotte alle varie criminalità, organizzate e non.

Gennaro De Tommaso, alias Genny, è stato inibito per cinque anni dagli stadi mentre un criminale socialmente pericoloso se ne va ancora in giro a piede quasi libero, fatta eccezione che per poche ore di notte e può imperversare nelle televisioni a dire quello che gli pare. 
Francantonio Genovese non viene ancora estromesso dal parlamento perché non si riesce a trovare un attimo di tempo per decidere il destino di uno che dovrebbe stare in galera, altroché Daspo per cinque anni.
Io credo che finché non si metterà fine a questo corto circuito di inciviltà, di disuguaglianza nel metodo non ci saranno proprio gli estremi, gli ingredienti per qualsiasi discussione che abbia un senso.
Cinque anni di limitazione di libertà a De Tommaso, condannato per il reato di checazzoneso e berlusconi condannato alla galera vera invitato nei palazzi a fare le leggi e le riforme della Costituzione. Questo non è un paese, è un’arena in cui tanta gente vuole vedere il sangue degli ultimi.  A me non frega niente se De Tommaso va allo stadio o no ma m’interessa e molto che un criminale possa ancora decidere della vita di mio figlio.

In Italia e da sempre abbiamo la classe politica e dirigente peggiore al mondo ma anche una buona parte di cittadini peggiori del mondo se, per soddisfare l’esigenza di giustizia gli basta la punizione al tifoso violento, che poi mi piacerebbe sapere quale violenza avrebbe esercitato Gennaro De Tommaso detto Genny nei fatti di sabato sera all’Olimpico.
La maglietta con la scritta? E’ un’opinione, per molti discutibile, inaccettabile ma nessuno dovrebbe vietare a nessun altro di poter esprimere con una provocazione un proprio pensiero. In Italia, paese antifascista per Costituzione e dove il fascismo è stato messo al bando, fuori legge, si dà ancora la possibilità a gruppi di nazifascisti di riunirsi – occupando pezzi d’Italia, il paese antifascista – in simpatiche manifestazioni; ci sono esercizi commerciali, banchetti al mercato che possono esporre e vendere vessilli fascisti, bottiglie di vino e altre chincaglierie con frasi e immagini inneggianti al duce, a Predappio ogni anno va in scena l’orrido teatrino della commemorazione del capoccione ma nessuno ha mai pensato di fare una legge che lo vieti, di sanzionare l’amministrazione politica di Predappio né di far chiudere per cinque anni il negoziante che vende quegli oggetti.
Eppure, si potrebbe e si dovrebbe.

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Lo Stato Carogna
Marco Travaglio, 7 maggio

Chi pensava che i peggiori pericoli per i magistrati antimafia venissero dalla mafia, soprattutto dopo le condanne a morte pronunciate da Riina, si sbagliava. Le minacce più insidiose arrivano sempre dal Palazzo. Il Csm – l’organo di autogoverno della magistratura che dovrebbe garantirne l’autonomia e l’indipendenza – ha inviato una circolare a tutte le Dda, cioè ai pool antimafia delle varie procure per raccomandare che ai pm che si sono occupati per 10 anni di mafia, camorra e ‘ndrangheta non vengano assegnate nuove inchieste in materia. Il diktat calza a pennello sulla Dda di Palermo, dove i principali pm titolari delle nuove indagini sulla trattativa Stato-mafia (rivolte al ruolo dei servizi segreti e della Falange Armata) hanno potuto finora occuparsene perché “applicati” dal procuratore Messineo. Nino Di Matteo è “scaduto” dopo i 10 anni canonici nel 2010, trasferito dalla Dda al pool “abusi edilizi” e da allora “applicato” per proseguire il lavoro sulla trattativa; Roberto Tartaglia l’ha seguito qualche tempo dopo; fra un mese scadrà anche Francesco Del Bene. La norma demenziale è contenuta nell’ordinamento giudiziario Castelli-Mastella del 2007, che appiccica ai pool specializzati delle procure (mafia, reati fiscali e finanziari, ambientali, contro la Pubblica amministrazione, contro le donne e i minori, ecc.) un bollino di scadenza come agli yogurt: appena raggiungono 10 anni di esperienza, cioè diventano davvero capaci ed esperti su una materia, devono smettere e occuparsi d’altro. Una mossa geniale: come se un’azienda, dopo aver impiegato tempo e risorse per formare un dirigente, lo spedisse a fare altre cose perché è diventato troppo bravo. Vale sempre il detto di Amurri e Verde: “La criminalità è organizzata e noi no”. Se la legge fosse stata già in vigore nel 1992, Cosa Nostra avrebbe potuto risparmiare sul tritolo evitando le stragi di Capaci e via D’Amelio, visto che quando furono uccisi Falcone e Borsellino indagavano sulla mafia da ben più di due lustri. Negli anni scorsi il bollino di scadenza ha falcidiato i pool antimafia di Palermo, Bari e Napoli, quello torinese creato da Raffaele Guariniello sulla sicurezza, la salute e l’ambiente (processi Thyssen, Eternit, doping…), quello milanese coordinato da Francesco Greco sui crimini economici (Parmalat, scalate bancarie, Enel, Eni, San Raffaele, grandi evasori). P
er non disperdere enormi bagagli di esperienza e memoria storica, i procuratori capi tentavano di limitare i danni “applicando” i pm scaduti a singole indagini. Ora, con la circolare del Csm, cala la mannaia anche su quella possibilità. Col risultato che una materia delicata e intricata come la trattativa, che richiede conoscenze ed esperienze approfondite, sarà affidata a pm che mai se ne sono occupati, privi dunque di qualunque nozione sul tema e magari ammaestrati da tutti gli attacchi (mafiosi e istituzionali) subìti dai colleghi che hanno osato scoperchiarla. Il fatto che Di Matteo sia il nemico pubblico numero uno tanto di Riina quanto del Quirinale non lascerà insensibile chi dovrà raccoglierne l’eredità. Magari toccherà a qualcuno dei neomagistrati che Napolitano ha arringato l’altroieri col solito fervorino alla “pacatezza”, al “rispetto”, addirittura all’“equidistanza” (testuale), contro il “protagonismo” e gli “arroccamenti”, per “chiudere i due decenni di scontro permanente” e “tensione” (fra guardie e ladri, fra onesti e mafiosi).
Non contento, il presidente più incensato e leccato del mondo (dopo Mugabe) ha poi evocato fantomatiche “aggressioni faziose” ai suoi danni, che il Corriere – sempre ispirato – attribuisce proprio a Di Matteo&C. per “intercettazioni illegali nell’inchiesta sulla trattativa”. Naturalmente le intercettazioni erano perfettamente legali, disposte da un giudice sui telefoni dell’indagato Mancino che parlava con il Quirinale. Ma anche questa ignobile calunnia sortirà prima o poi l’effetto sperato. Nessuno s’azzarderà mai più a intercettare un indagato per la trattativa: potrebbe parlare con il capo dello Stato.

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Il legale degli ultrà: “Legittime le magliette” 

«Da sempre tifoso della Roma e frequentatore della curva dell’Olimpico», Lorenzo Contucci ha cominciato a occuparsi di Daspo per caso, sollecitato da conoscenti. Dopo centinaia di casi seguiti in tutta Italia, è diventato l’avvocato italiano più esperto in materia, tanto che una nota casa editrice gli ha chiesto di scrivere un compendio giurisprudenziale con i ricorsi che ha trattato. 

 

Quale fu il primo caso?  

«Un tifoso aveva ricevuto un avviso di procedimento per un Daspo alquanto vago, senza alcuna indicazione su quando, come, perché… Andammo al Tar, che lo annullò, stabilendo un primo principio di garanzia». 

 

Il caso più strano?  

«Quello dei tifosi della Roma a cui arrivò un Daspo per non aver pagato il biglietto del treno. Naturalmente il Tar annullò». 

 

Che cosa pensa dell’evocazione del modello inglese, che ha sconfitto gli hooligans?  

«Magari! In Inghilterra il Daspo viene deciso da un giudice, non dalla polizia. È un modello molto più garantistico». 

 

Quali sono i punti più critici in Italia?  

«Si sono succedute molte modifiche legislative pessime. La peggiore quella del governo Prodi nel 2007: prima il Daspo richiedeva una condanna o almeno una denuncia, ora si può fare anche senza». 

 

Qual è la conseguenza?  

«A me non è mai capitato un Daspo successivo a condanna. In genere arriva dopo una denuncia. Nel 50 per cento dei casi, il tifoso viene poi assolto nel processo, ma nel frattempo ha già scontato il Daspo: un’ingiustizia. Ma se non c’è nemmeno una denuncia alla base del Daspo, il tifoso non può sperare di ottenere un’assoluzione da un giudice penale. Il Daspo gli resta addosso senza possibilità di difendersi: un’ingiustizia al quadrato». 

 

E la durata?  

«All’inizio il limite massimo era un anno, poi fu portato a tre, ora sono cinque anni. Nei processi a rapinatori e spacciatori non mi è mai capitato un obbligo di firma così lungo. Ma evidentemente la pericolosità dei tifosi è ritenuta dal Parlamento superiore».  

 

Che ne pensa dell’idea di Alfano del Daspo a vita? 

«Incostituzionale. Le misure di prevenzione si basano su un giudizio di pericolosità attuale. Non è ammissibile una presunzione di pericolosità a vita, tanto è vero che non esiste la sorveglianza speciale a vita nemmeno per i mafiosi».

E della proposta di Daspo collettivo? 

«Non capisco che cosa voglia dire, ma forse è il caso di riparlarne dopo le elezioni. I politici italiani, anche con responsabilità di governo, parlano spesso di cose che non conoscono. Compresa la Costituzione».

Che cosa pensa del Daspo per chi indossa la maglietta pro Speziale? 

«Appunto che non si conosce la Costituzione. La libertà di manifestazione del pensiero, quando non diventa apologia di reato, è protetta dall’ombrello dell’articolo 21. Quella maglietta non inneggia all’uccisione di Raciti, ma sostiene l’innocenza di Speziale. Cosa che è legittimo fare anche se c’è una sentenza contraria. Ci sono già diverse pronunce di Tar e giudici ordinari che affermano questo principio, annullando Daspo a tifosi per striscioni di solidarietà a Speziale, ma si finge di ignorarle».

Perché, secondo lei? 
«Perché io difendo il quisque de populo. Ma se si stabilisse il principio che chi contesta una sentenza merita un Daspo, come farebbe Berlusconi ad andare ancora allo stadio?».

 

 

Non è Stato lui

Ai 5stelle va riconosciuto il merito di aver chiesto la messa in stato d’accusa di Giorgio Napolitano, che sicuramente non otterrà nessun risultato concreto non essendoci le condizioni, quel tradimento manifesto dello stato da poter provare ma che ha comunque sollevato un problema che c’è: quello di un presidente della repubblica che in svariate occasioni non ha dimostrato quella parzialità da arbitro terzo ma si è comportato come uno dei giocatori in campo. Quello che se vuole si porta via il pallone quando vuole e quindi detta lui le regole del gioco.

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Ieri grande fermento in Rete dopo la visita di Tsipras a Roma. Il dibattito che ha animato i social media si è focalizzato soprattutto sul pericolo che un’altra lista, di sinistra per giunta: orrore degli orrori, possa in qualche modo vanificare l’impegno dei 5stelle e disperdere gli eventuali voti a loro riservati nelle future ed eventuali elezioni, quando l’oligarchia che ha preso possesso dello stato concederà a noi poveri cittadini – relegati al ruolo di sudditi anziché popolo sovrano – di poter ritornare ad esprimerci e scegliere i nostri rappresentanti in parlamento, per conto nostro come da Costituzione e non per conto Napolitano. Ieri sembrava di essere tornati indietro nel tempo, ai bei tempi in cui il pd chiedeva il voto “utile”,  quello esercitato con la classica molletta al naso. Quando tutti si sperticavano a spiegarci che se avessimo dato fiducia ad una sinistra che tanto sinistra non era [e non è] col tempo, piano piano, anche un non partito di una non sinistra si sarebbe impegnato a fare le cose serie, e magari anche di sinistra.

Per fortuna, sempre Napolitano, si occupa alacremente di unire gli italiani, lui si sa, detesta la “divisività” e per essere coerente col suo amore per la “univisità” a tutti i costi, quella per la stabilità, per il bene del paese ci mancherebbe, ha deciso di voler passare alla Storia, quella vera, non quella che ci raccontano Scalfari e Battista a modo suo: il peggiore, riconosciuto da elettori di destra, centro e sinistra. E non serviva nemmeno leggere nero su bianco dell’iniziativa “spintanea” contro Nino Di Matteo per farsi un’idea di quanto certa magistratura lo abbia sempre disturbato, quanto avrebbe fatto volentieri a meno di quei giudici che lavorano per portare alla luce quei segreti che lui, a moniti unificati, ammanta di una presunta ragion di stato. 

Ma quale ragion di stato può impedire che venga fatta luce su una parte degli apparati dello stato stato che, assai poco presuntamente, in molte occasioni non ha agito con tutte le sue forze contro quel crimine più crimine di tutti che è la mafia, quella modernizzata che oggi scioglie donne e bambini nell’acido? Quale ragion di stato ha impedito a Napolitano, presidente della repubblica e capo supremo di tutti i magistrati – solitamente prodigo di solidarietà e parole di condanna per tutto – di dire una sola parola di sostegno a Nino Di Matteo minacciato, condannato a morte dalla mafia che fa saltare autostrade e palazzi se vuole? E quale altra ragion di stato impedisce che dopo sei mesi venga applicata una sentenza, ridicola rispetto all’ammontare dei danni procurati all’Italia, al delinquente più delinquente di tutti? 
E in virtù di quale ragion di stato gli italiani devono ancora essere rappresentati da questo signore?

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CSM, È STATO NAPOLITANO A VOLER PROCESSARE DI MATTEO – Marco Travaglio, 9 febbraio

PROCESSO A DI MATTEO PER UN’INTERVISTA : IL MANDANTE È IL COLLE UN DOCUMENTO UFFICIALE RIVELA CHE LA SEGNALAZIONE PER UNA AZIONE DISCIPLINARE CONTRO IL PM CHE INDAGA SULLA TRATTATIVA STATO-MAFIA PARTÌ DAL QUIRINALE.

Fu Donato Marra, cioè il braccio destro del Presidente, a “denunciare” al Pg della Cassazione il pm della Trattativa per un’intervista sulle telefonate con Mancino. La notizia delle intercettazioni era già uscita su tutti i giornali, eppure da 18 mesi il magistrato più odiato da Riina è sotto azione disciplinare, senza aver violato alcun segreto.

Da un anno e mezzo, cioè da quando la Procura generale della Cassazione trascinò Nino Di Matteo, il pm più odiato da Totò Riina, sotto procedimento disciplinare dinanzi al Csm, si sospettava che l’incredibile iniziativa non fosse spontanea. Ma “spintanea”, suggerita dal Quirinale, visto che Di Matteo, dopo l’uscita di Antonio Ingroia dalla magistratura, è anche il magistrato più detestato da Giorgio Napolitano. Ora il sospetto diventa certezza grazie a un documento ufficiale: la richiesta di proscioglimento depositata a fine dicembre dal Pg Gianfranco Ciani e dal sostituto Antonio Gialanella. I due, ricostruendo la genesi del processo, che riguarda anche il procuratore capo di Palermo Francesco Messineo, rivelano che la segnalazione dei possibili illeciti disciplinari partì proprio dal Colle: “Al Procuratore generale presso la Cassazione perveniva, in data 11.7.2012, dal Segretario generale della Presidenza della Repubblica, una missiva datata al 9.7.2012”. In quella lettera, il segretario generale del Quirinale Donato Marra, braccio destro di Napolitano, trasmette un suo carteggio con l’Avvocatura dello Stato e fra questa e la Procura di Palermo a proposito di un’intervista di Nino Di Matteo a Repubblica . L’intervista si riferisce alle rivelazioni diffuse il 20 giugno 2013 dal sito di Panora ma : intercettando Nicola Mancino, i pm di Palermo sono incappati non solo in 9 sue conversazioni col consigliere Loris D’Ambrosio, ma anche in alcune con Napolitano in persona. Notizia rilanciata il 21 giugno dal Fatto e da altre testate. Il 22 giugno Repubblicaintervista Di Matteo, il quale spiega che, negli atti appena depositati ai 12 indagati per la trattativa Stato-mafia, “non c’è traccia di conversazioni del capo dello Stato e questo significa che non sono minimamente rilevanti”. L’intervistatrice domanda se le intercettazioni non depositate saranno distrutte, Di Matteo risponde – riferendosi a tutto il materiale non depositato e non solo alle telefonate Mancino-Napolitano: “Noi applicheremo la legge in vigore. Quelle che dovranno essere distrutte con l’instaurazione di un procedimento davanti al gip saranno distrutte, quelle che riguardano altri fatti da sviluppare saranno utilizzate in altri procedimenti”. È OVVIO CHE, fra quelle da distruggere, ci siano anche le intercettazioni indirette del Presidente, visto che sono “irrilevanti” (almeno sul piano penale), mentre quelle ancora da approfondire riguardano altri soggetti. Ma, anzichè ringraziare Di Matteo per aver dissipato ogni possibile sospetto su sue condotte illecite, Napolitano scatena la guerra termonucleare alla Procura di Palermo, esternando a tutto spiano e mobilitando prima l’Avvocatura dello Stato, poi il Pg della Cassazione e infine la Corte costituzionale. L’Avvocato dello Stato, Ignazio Caramazza, viene attivato subito dopo l’intervista dal segretario generale Marra, perché chieda a Messineo “una conferma o una smentita di quanto risulta dall’intervista, acciocchè la Presidenza della Repubblica possa valutare la adozione delle iniziative del caso”. Il 27 giugno Caramazza scrive a Messineo per sapere come si sia permesso Di Matteo di svelare a Repubblica che sono “state intercettate conversazioni telefoniche del Presidente della Repubblica, allo stato considerate irrilevanti, ma che la Procura si riserverebbe di utilizzare”. Il procuratore risponde con due lettere: una firmata da Di Matteo, l’altra da lui. Entrambe chiariscono ciò che è già chiarissimo dall’intervista: “La Procura, avendo già valutato come irrilevante ai fini del procedimento qualsivoglia eventuale comunicazione telefonica diretta al Capo dello Stato, non ne prevede alcuna utilizzazione investigativa o processuale, ma esclusivamente la distruzione da effettuare con l’osservanza delle formalità di legge”: cioè con richiesta al gip, previa udienza camerale con l’ascolto dei nastri – previsto espressamente dal Codice di procedura penale – da parte degli avvocati. Tutto chiaro? Sì, in condizioni normali. Ma qui c’è il Quirinale che preme, minacciando “le iniziative del caso”. Allora una normale intervista che spiega come la Procura abbia rispettato e intenda rispettare la legge diventa un caso di Stato. Il 16 luglio Napolitano solleva il conflitto di attribuzioni fra poteri dello Stato contro la Procura di Palermo, accusandola di aver attentato alle sue “prerogative”. A fine luglio Ciani apre su Messineo e Di Matteo un “procedimento paradisciplinare”, cioè un’istruttoria preliminare. È lo stesso Ciani che tre mesi prima, su richiesta scritta di Mancino e Napolitano (tramite il solito Marra), ha convocato il Pna Piero Grasso per parlare di come “avocare” da Palermo l’inchiesta sulla Trattativa o almeno di “coordinarla” con quelle sulle stragi a Firenze e Caltanissetta: ricevendo da Grasso un sonoro rifiuto. Il primo agosto un sostituto di Ciani scrive al Pg di Palermo per sapere se Messineo avesse autorizzato Di Matteo a rilasciare l’intervista e  perchè non l’avesse denunciato al Csm per averla rilasciata. Il Fatto lancia una petizione e raccoglie 150 mila firme in un mese: lo vede anche un bambino che il processo disciplinare è fondato sul nulla. IL 10 AGOSTO il Pg di Palermo risponde a Ciani: l’intervista di Di Matteo non richiedeva alcuna autorizzazione e non violava alcuna norma deontologica perché non svelava alcun segreto, visto che la notizia delle telefonate Napolitano-Mancino l’avevano già diffusa Panorama e poi decine di testate. Tutto chiaro? Sì, in condizioni normali. Ma qui c’è il Quirinale che preme. Il Pg Ciani ci dorme su sette mesi. Poi il 19 marzo 2013 promuove l’azione disciplinare contro Messineo e Di Matteo. Il secondo è accusato di aver “mancato ai doveri di diligenza e riserbo” e “leso indebitamente il diritto di riservatezza del Presidente della Repubblica”; il primo, di non averlo denunciato al Csm. Messineo e Di Matteo vengono interrogati il 18 giugno e il 7 luglio, ripetendo quel che avevano sempre scritto e detto. La Procura generale ci dorme sopra altri cinque mesi e mezzo. Poi finalmente, alla vigilia di Natale, deposita le richieste di proscioglimento, scoprendo l’acqua calda: la notizia delle telefonate Mancino-Napolitano non la svelò Di Matteo, ma Panora ma , in un articolo “presente nella rassegna stampa del Csm del 21.6.2012”. Quindi “con apprezzabile probabilità occorre assumere che la notizia… fosse oggetto di diffusione da parte dei mass media in tempo antecedente” a quello dell’intervista incriminata” del giorno 22. Ma va? Ergo “è del tutto verosimile” che Di Matteo tenne “un atteggiamento di sostanziale cautela” e “non pare potersi dire consapevole autore di condotte intenzionalmente funzionali a ledere diritti dell’Istituzione Presidenza della Repubblica”, semmai “intenzionato a rappresentare la correttezza procedurale dell’indagine”. Quindi “la condotta del dr. Di Matteo non si è verosimilmente consumata nei termini illustrati nel capo d’incolpazione, tanto che nessun rimprovero disciplinare si ritiene di poter articolare nei suoi confronti”, né in quelli di Messineo. Così scrivono Galanella e Ciani il 16 e 19 dicembre 2013 nella richiesta di proscioglimento che ora dovrà essere esaminata dal Csm. Ma così avrebbero potuto scrivere – risparmiando a Di Matteo e Messineo un anno e mezzo di calvario – già nel giugno 2012, quando tutti sapevano già tutto. Compreso il Quirinale, che sciaguratamente innescò questo processo kafkiano al nemico pubblico numero uno del Capo dei Capi. E di tanti altri capi.

Più solidarietà per tutti [tanto è gratis]

Preambolo: ma Riina che chiede di “mettere berlusconi in galera per tutta la vita”? 
Mica ha detto ci voglio fare un reato insieme, ha chiesto proprio la galera, e a vita per giunta.
Giustizialista!

Mi chiedevo inoltre se nei  76 chili del frigo di Francesco è compreso anche il peso delle corna della première dame. Bel furbacchione pure Hollande, prima si fanno i fatti loro, dichiarano guerre come Bush, le perseguono come Obama, tradiscono le mogli come Hollande e poi vanno a prostrarsi davanti alla loro santità per riguadagnare un’immagine pubblica. 
E le santità approvano, le guerre, le corna e molto altro, e aprono la porta a tutti. Intendiamoci, a me delle storielle di letto di Hollande non frega nulla. Al papa però in quanto capo di una religione che santifica il matrimonio e demonizza l’infedeltà sì, dovrebbe interessare. E questa visita a ridosso dell’ennesimo scandalo di sesso del potente in vaticano è quanto meno inopportuna. Se esiste una diplomazia dovrebbe fare il suo mestiere. Così invece è abbastanza comprensibile la ragione di questo incontro. E il problema è sempre il solito, ovvero che il potere che non viene mai condannato nemmeno moralmente può continuare, attraverso i suoi rappresentanti a fare il cazzo che vuole. Ai cittadini comuni questo non è permesso. Perché a loro, a noi il giudizio morale del prossimo può cambiare la vita. E non abbiamo nemmeno un papa che ci riabilita.

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Sottotitolo: perché  ognuno può dire quello che vuole e non dire quello che dovrebbe al momento opportuno.
E allora succede che il presidente del consiglio abbia, con tre mesi di ritardo espresso la sua solidarietà a Nino Di Matteo, che come giustamente fa notare Marco Travaglio stamattina non è stato minacciato di morte dalla mafia ma “condannato” perché la mafia solitamente quando si prefigge un obiettivo poi riesce a centrarlo [ché non è mica un governicchio di larghe intese, la mafia] e per non far sembrare troppo grave quella condanna o troppo zelante la sua solidarietà – ché non sia mai lo stato si metta al fianco di chi lavora per lo stato e non invece di chi lo deruba – ha aggiunto la solidarietà anche a Piero Grasso condannato a fare il presidente del senato.

E, siccome le disgrazie non vengono mai sole, nessun giornalista di buona volontà è andato a chiedere a Enrico Letta come mai la solidarietà a Nino Di Matteo da parte di una parte delle istituzioni sia arrivata oltre il tempo regolamentare rispetto ad altre che hanno riguardato altre persone e altre situazioni meno gravi espresse quasi in tempo reale, né i motivi per i quali Piero Grasso ha bisogno anche della mia solidarietà.

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LO SVUOTA-CARCERI LIBERA GOMORRA (Thomas Mackinson e Davide Milosa).

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Giorni fa sentivo a radio Capital che in Italia a causa della crisi sono aumentati i reati di microcriminalità come i furti negli appartamenti, gli scippi e le rapine. 
Premesso che un furto in casa non ha mai una micro dimensione perché spesso e volentieri oltre al danno di ciò che viene sottratto chi entra in una casa senza chiavi deve trovare un modo per farlo. Io ad esempio, oltre alla perdita di oggetti di valore, alcuni di un valore semplicemente simbolico altri di valore e basta ho dovuto rifare per intero la porta di casa che mi avevano sradicato dal muro e, abitando in una casa che inizia dal pianterreno mettermi dietro le sbarre da incensurata. 
Una spesa che sul bilancio familiare incide e costringe a fare a meno di altre cose per un po’. Oltre a quelle di cui si era già dovuto fare a meno per motivi contingenti. 
E nemmeno uno scippo è un reato micro, perché spesso per strappare una borsa dalle mani si usa violenza, una persona può cadere, farsi male e il gesto violento lascia inevitabilmente delle conseguenze psicologiche, come anche il furto in casa. 
E, a meno che le persone che si rimetteranno in libertà con l’indulto non abbiano di che mantenersi una volta usciti dal carcere è facile presumere che riprenderanno la loro consueta attività criminosa. 
Del dramma dei detenuti si è discusso tante volte e ogni volta la conclusione è stata la stessa, cioè che non è rimettendo per strada persone che si mantengono abitualmente grazie a furti, scippi e rapine che si risolve quel dramma. Che il problema del sovraffollamento delle carceri è dovuto ad altri fattori quali leggi sbagliate ed un uso esuberante ed eccessivo della custodia cautelare. Oltre ovviamente al discorso strutturale che in questo paese nessuno vuole affrontare per rendere le carceri quel luogo di redenzione sociale umanamente vivibile e sostenibile come prevede il nostro diritto. 
E lo stato, nel momento peggiore del suo rapporto coi cittadini, nel momento in cui la fame costringe gente a rubare, invece di prendere provvedimenti che abbiano un effetto positivo per questo obiettivo di nuovo si mette contro i cittadini trovando nell’indulto, e cioè rimettendo per strada persone che hanno un cattivo rapporto con la società cosiddetta civile, l’unico modus operandi per sbloccare una situazione umanamente insostenibile. 
I cittadini vittime sempre e comunque delle scelte scellerate di una politica incapace di applicare con serietà le leggi che essa stessa produce. 
Alcuni, molti, vittime due volte. Ho sempre detto e scritto, perché lo penso, che la criminalità è un fatto umano che non si estinguerà se non con la fine dell’umanità. Ma imparare a convivere coi fenomeni sociali, anche quelli inevitabili non vuol dire doverli accettare, subire passivamente, e nemmeno significa subire passivamente le scelte e le decisioni di governi che agiscono in proprio e non secondo la volontà del popolo. Uno stato ha il dovere di tutelare i cittadini, di farsi sentire sempre al loro fianco, non costringerli a doversi confrontare continuamente con le paure e l’incertezza. Perché la paura mette pensieri sbagliati in testa, chi pensa male vive male e si comporta male a sua volta, votando anche male, lo abbiamo visto con la lega, con alemanno, gente che promette e ha promesso quel che non potrà mantenere e non ha mantenuto e sulle paure dei cittadini ci campa di rendita. 

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Non sanno quello che fanno
Marco Travaglio, 25 gennaio

La verità è che noi i politici li sopravvalutiamo. Tutti. Pensiamo che dietro ogni loro parola, sguardo, scelta, proposta ci sia dietro chissà chi e che cosa. Invece, il più delle volte, c’è il sottovuotospinto, del resto facilmente riscontrabile nei loro sguardi persi nel nulla. È il principale difetto delle tesi complottiste: sono sempre molto affascinanti perché ogni complotto inizia regolarmente alcuni secoli fa, mette d’accordo centinaia di persone che manco si conoscevano, infila nella sceneggiatura potentissime banche d’affari, logge massoniche, potentati occulti e criminali, servizi deviatissimi e alla fine tutto torna.

Poi uno guarda in faccia Enrico Letta, Fassina, Angelino Jolie o l’ultimo acquisto Toti, ma pure i tecnici tipo Fornero, Saccomanni o Cancellieri, e deve arrendersi a un’evidenza più prosaica: questi non li manda nessuno, nemmeno Picone; si mandano da soli e, quando non rubano, non sanno quello che fanno. Intendiamoci: non è un’attenuante, è un’aggravante, visto che hanno in mano le nostre vite e i nostri soldi. E più sono incapaci più diventano burattini delle lobby. La supertecnica Fornero allungò l’età pensionabile, poi si stupì molto perché aumentavano i giovani disoccupati e gli esodati, cioè i lavoratori espulsi in anticipo e rimasti senza più uno stipendio e senza ancora una pensione. Chi l’avrebbe mai detto, eh? Pure Saccomanni pareva questo granché, poi l’abbiamo visto all’opera con l’Imu. La Cancellieri ha passato la vita a fare il prefetto: se la macchina dello Stato non la conosce lei, siamo freschi. Invece conosce solo Ligresti. Ha fatto una legge svuotacarceri che non svuota una mazza, come le precedenti di Alfano e Severino (altri due geni). L’altro giorno, con l’aria di chi passa di lì per caso, ha spiegato (a noi) che abbiamo 9 milioni di processi pendenti, dunque ci vogliono l’amnistia e l’indulto. Come se uno avesse la casa allagata perché ha lasciato aperto il rubinetto della vasca da bagno e, anziché chiuderlo, svuotasse l’acqua col cucchiaino.

Pure il presidente della Cassazione Giorgio Santacroce invoca l’indulto per mettere fuori “chi non merita di stare in carcere”. Ma poi non spiega chi, di grazia, sarebbe in galera senza meritarlo, e perché ci sia finito, visto che il carcere è previsto dalle leggi dello Stato ed è il risultato di sentenze emesse dalla Cassazione che lui presiede. Dopodiché, in lieve contraddizione con se stesso, chiede di riformare la prescrizione che garantisce l’impunità a 200 mila imputati l’anno: ma lo sa o non lo sa che, se i prescritti venissero condannati, i detenuti raddoppierebbero? Che si fa: si aboliscono direttamente le carceri? L’altroieri Enrico Letta, con tre mesi di ritardo, ha trovato il coraggio di pronunciare il nome di Nino Di Matteo e di inviargli la solidarietà per le ripetute condanne a morte emesse da Totò Riina (lui le chiama eufemisticamente “minacce”). Poi però s’è spaventato di averne detta una giusta e ci ha aggiunto una fregnaccia: la solidarietà a Piero Grasso. Ohibò, si son detti tutti quanti, Grasso compreso: Riina ha condannato a morte anche Grasso e non ne sappiamo nulla? Niente paura: semplicemente il pentito La Barbera ha raccontato al processo Trattativa un fatto noto da 15 anni, e cioè che nel ’92, dopo Salvo Lima, Cosa Nostra progettava di uccidere Mannino, Martelli, i figli di Andreotti e Grasso. Poi cambiò idea. Ma Letta non sa nulla, infatti fa il premier. Oppure non gli pare vero di associare all’impronunciabile Di Matteo un personaggio che piace alla gente che piace: Grasso. E ha posto sullo stesso piano l’ordine emesso tre mesi fa da Riina di uccidere Di Matteo con l’attentato a Grasso annullato 22 anni fa: “Profonda solidarietà al pm Di Matteo e al presidente Grasso oggetto di minacce terribili”. Ieri anche Vendola, altro esperto, ha tributato “affettuosa solidarietà a Grasso e Di Matteo”. Niente solidarietà, al momento, per Mannino, Martelli e i figli di Andreotti. Letta e Vendola provvederanno fra 22 anni.

Tana libera [quasi] tutti

Ultim’ora: Telefonate Napolitano-Mancino: “Pg chiede proscioglimento per pm Di Matteo”

 

L’incompetenza in ogni dove e poi si pretende la precisione scientifica col risvolto culturale da chi va a manifestare; ovvio che non si può condividere niente con chi per denunciare un disagio inneggia alla mafia e si mette sottobraccio ai fascisti, ma questo fatto che dal cittadino si pretende il comportamento esatto sempre  pena tuttoquanto e alla politica si concede sempre la licenza di fare cazzate a ripetizione non è più sopportabile.
Il dramma delle carceri esiste da almeno vent’anni, e tutto quello che sa fare la politica è il provvedimento ‘eccezionale’ ogni tot di anni, col risultato di non risolvere nessun problema ma al contrario di accentuarne altri così come è successo con  quell’indulto di cui hanno usufruito anche le bestie assassine di Federico Aldrovandi e i massacratori del G8. Senza l’indulto quelle sentenze avrebbero avuto tutt’altri esiti. Per non parlare delle licenze premio destinate e concesse ai serial killer. Un assassino seriale, totalmente infermo di mente in questo paese può ricevere il trattamento di favore perché il direttore del carcere dove è detenuto non era nemmeno a conoscenza dei suoi precedenti: la competenza prima di tutto.
Una società civile lo è anche quando la separazione fra onesti e delinquenti è netta, e non lascia spazio a nessuna interpretazione: chi ruba, ammazza, stupra, froda lo stato per i suoi interessi non è uguale a chi non lo fa.

E uno stato civile, sebbene garantendo diritti e tutela anche a chi viola la legge questo non lo può dimenticare. Anzi, lo dovrebbe proprio esaltare. E la politica tutto può fare fuorché indignarsi dei suoi stessi fallimenti.
La bonino che sgrana gli occhi davanti agli orrori di Lampedusa è la stessa che non ha fatto un plissé quando il governo di cui fa parte ha riconfermato angelino alfano dopo la deportazione di madre e figlia kazake. Mentre in un paese normale avrebbe dovuto fare le valigie pure lei.
Questi non conoscono il benché minimo significato della parola RESPONSABILITA’. Soprattutto delle loro.
L’amnistia concessa in emergenza, così come l’indulto, questo svuotacarceri di cui all’estero, nei paesi normali, non esiste traduzione, i decreti catalogati come “eccezionali” perché servono a tappare buchi ma non ad aggiustare la frana sono un fallimento dello stato i cui rappresentanti dovrebbero tenere gli occhi bassi e tacere, almeno.

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Visto che 7000 detenuti stanno per ricevere un bel regalo di natale che consiste nell’anticipazione della loro libertà, sarebbe carino se anche a Nino Di Matteo venisse restituita un po’ della sua. 

Cancellare il provvedimento disciplinare che lo riguarda sarebbe un bel gesto che il presidente della repubblica in qualità di capo del CSM potrebbe fare, se volesse. 
E, visto che ad oggi ancora non si è degnato di dire una parola nel merito delle minacce di morte al giudice Di Matteo, sarebbe anche un bel modo per farci dimenticare almeno in parte il precedente di un capo dello stato che si preoccupa e si è preoccupato – molto – della sorte dei delinquenti veri [soprattutto uno: il più delinquente di tutti] ignorando e fregandosene apertamente di quella di chi i delinquenti li combatte da una vita.

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Forche & Forconi – Marco Travaglio, 19 dicembre

Grande esultanza e complimenti vivissimi sta suscitando il decreto svuotacarceri Cancellieri-2, il terzo in tre anni dopo l’Alfano e il Cancellieri-1, varato dalla ministra dei Ligresti per liberare 7 mila criminali nei prossimi 12 mesi. La leggenda metropolitana inventata per giustificarlo è che così l’Italia non verrà più condannata dalla Corte europea che ci ha dato tempo fino al maggio 2014 per metter fine alle condizioni disumane dei 67 mila detenuti stipati in 47 mila posti-cella (solo teorici: quelli effettivi sono meno di 40 mila). In realtà l’Italia verrà condannata lo stesso: per scendere a 47 mila detenuti bisognerebbe liberarne 20 mila, uno su tre, e non farne entrare più nemmeno uno. Cioè pregare i criminali di astenersi dal delinquere fino al termine della legislatura o, in alternativa, ai giudici di andarsene in ferie o, se proprio vogliono lavorare, di assolvere tutti i colpevoli. Anche chi considera questa classe politica un pericoloso branco di cialtroni stenta a credere che il decreto Cancellieri possa davvero diventare legge dello Stato. E chi non stenta a crederlo è solo perché non lo conosce. Fra le geniali invenzioni partorite dalla ministra, oltre al regalino dei braccialetti elettronici obbligatori a Telecom (di cui è direttore finanziario il pargolo Piergiorgio Peluso), spiccano due norme ai confini della realtà. La prima è l’innalzamento da 3 a 4 anni delle pene (totali o residue) che i condannati potranno scontare comodamente in libertà, con la simpatica formula “affidamento in prova ai servizi sociali”. Oggi, in base alla legge Gozzini, chi deve scontare 3 anni o meno, resta fuori o, se è dentro, esce. I classici ladri di polli? No, la stragrande maggioranza dei condannati, visto che in media le pene irrogate dai tribunali, anche per reati gravi (soprattutto quelli finanziari e tipici dei politici e dei colletti bianchi), sono inferiori ai 3 anni. Siccome poi i reati commessi fino a maggio 2006 sono coperti dall’indulto di 3 anni, non fanno un giorno di carcere i condannati fino a 6. E, per meritare pene superiori ai 6 anni, bisogna proprio sparare o trafficare quintali di droga. Ora, non bastando questo formidabile bonus impunitario, la ministra ha previsto che resti o torni libero chi di anni ne deve scontare 4. Compresi i condannati a 7 anni per reati pre-2006. Per quelli che non riuscissero a farla franca con quel sistema, ecco la seconda ideona: l’innalzamento della “liberazione anticipata” da 45 a 75 giorni a semestre. Oggi il detenuto che si comporta bene (cioè non si comporta male: non scanna né stupra il compagno di cella) si vede detrarre 3 mesi di pena ogni 12. Ora, siccome non basta ancora, lo sconto sale a 5 mesi su 12. Immaginiamo la scena di un processo qualunque: dopo una decina d’anni passati fra indagini, interrogatori, perizie, rogatorie, arresti, perquisizioni, sequestri e intercettazioni, e poi udienza preliminare, e poi i dibattimenti di primo, secondo e terzo grado, spendendo un occhio e impegnando decine fra agenti, magistrati, cancellieri, segretarie, avvocati e così via, i giudici riescono finalmente a emettere la sentenza definitiva. Che, in caso di condanna, ammonta mediamente a 2-3 anni di pena. Mentre il presidente legge solennemente il dispositivo in nome del popolo italiano, l’avvocato dà di gomito al condannato: “Tranquillo, Jack, il giudice ha detto 3 anni, ma è tutto finto: 36 mesi vuol dire 21 e 21 vuol dire che non fai un giorno di galera. Però mi raccomando, non scordarti il braccialetto”. E Jack, asciugando il sudore dalla fronte con un sospiro di sollievo: “Ah meno male, avvoca’, chissà che mi credevo. Ho sempre pensato che il crimine paga. Ma, a furia di sentire ‘ sti politici parlare di ‘ certezza della pena’, quasi quasi ci cascavo anch’io”. Intanto la vittima se ne va schiumante di rabbia: “Se si rischia così poco, la prossima volta non lo denuncio: gli spacco direttamente la faccia”. 
Sono i risultati dal garantismo all’italiana: predica bontà e sotto sotto lavora per la forca.

L’Italia civile è con Nino Di Matteo e i Magistrati antimafia

 C’è un magistrato, si chiama Nino Di Matteo, che sostiene l’accusa nel processo stato-mafia. Totò Riina dal carcere dove è detenuto in regime di 41bis gli ha fatto sapere che gli dà fastidio, che è “tutto pronto” come negli attentati in cui furono disintegrati Giovanni Falcone, sua moglie e la scorta, Paolo Borsellino e la scorta.
Nino Di Matteo  non può presenziare al processo, viaggia su un blindato e mentre qualcuno si chiede e si indigna anche, perché durante la protesta di questi giorni c’era chi inneggiava alla mafia, Di Matteo viene ignorato da tutti, a partire dallo stato che si costerna, s’indigna, s’impegna, poi more solito, getta la spugna. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino parlavano sempre della loro solitudine, e sono stati ammazzati quando lo stato li ha abbandonati. Lo scorso anno Napolitano alla commemorazione di Falcone disse che “vent’anni fa lo stato non si lasciò intimidire”: oggi lo stato, anche per bocca di Napolitano tace e non dice una parola a sostegno di un giudice minacciato di morte dalla mafia.
 Questo blog sostiene Nino Di Matteo, l’antimafia, i giudici, i magistrati che si impegnano e lottano contro la mafia e tutte le criminalità che strozzano il paese, i cittadini onesti, e la Società Civile sempre al loro fianco.

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Tra Stato e mafia: chi ha paura di Nino Di Matteo? Giuseppe Pipitone, Il Fatto Quotidiano

Un uomo non può fare il suo lavoro, perché rischia di essere ammazzato. Non siamo nel Medioevo, non siamo in guerra, non siamo in un Paese barbaro. E l’uomo in questione non fa il rapinatore di banche, il sicario professionista, il contractors addestrato ad uccidere, e quindi ad essere a sua volta assassinato. Siamo in Italia, un Paese civile, senza guerre e in democrazia. E l’uomo in questione fa ilmagistrato, è onesto, è un servitore dello Stato. Antonino Di Matteo è in magistratura dal 1993, l’epoca delle stragi, quando gli venne sputato in faccia il destino del mestiere che aveva scelto: la prima volta che indossò la toga non era formalmente un pm, ma solo un giovane uditore, catapultato a fare da picchetto alle bare delle vittime del botto di Capaci. Altri tempi, direbbe qualcuno. Altro Paese. Altra mafia.

E invece no. E non perché i tempi non siano cambiati: anzi, sono cambiati eccome. L’ala militare di Cosa Nostra non c’è più, i boss stragisti sono al carcere duro, in Sicilia c’è un governatore in aperto contrasto con Cosa Nostra e come seconda carica dello Stato è stato eletto un magistrato impegnato per quarant’anni in indagini antimafia. I tempi sono cambiati. Dicono.

Eppure a leggere la cronaca degli ultimi giorni si potrebbe dire che non solo non sono cambiati, ma forse sono perfino peggiorati. E d’altra parte quando si dice che sono cambiati, nessuno specifica mai se in peggio o in meglio.

Delle minacce di morte a Di Matteo è stato scritto tanto: una lettera anonima ha svelato nei mesi scorsi il progetto di assassinarlo, avallato direttamente da Totò Riina; le microspie nascoste nel carcere milanese di Opera hanno poi certificato che in effetti il capo dei capi desidera ardentemente la sua morte, arrivando addirittura a dire che è tutto pronto e che l’attentato sarà compiuto in maniera eclatante. Inquietante, senza dubbio.

Diversi inquirenti, commentatori, giornalisti (compreso chi scrive) si sono sforzati di trovare unalogica, un senso, una struttura, alle parole di Riina e non è qui opportuno entrare nel merito delle ricostruzioni. Quel che è certo è che le minacce sono fondate: così le considerano gli investigatori, così le ha bollate perfino il ministro degli Interni, non certo uno storico supporter della procura di Palermo. Il responsabile del Viminale è andato oltre: ha lanciato l’allarme stragi, assicurando al contempo che ogni mezzo sarà messo a disposizione per tutelare Di Matteo. Bene, bravo, bis.

Solo che Di Matteo non può fare il suo lavoro. Non può farlo più, perché il rischio di attentato è talmente alto da obbligarlo a muoversi con un Lince, una specie di carro armato, per recarsi alle udienze del processo sulla Trattativa Stato – mafia, fascicolo complesso di cui è il più profondo conoscitore. Ora è vero che le minacce di Riina potrebbero cessare modificando il trattamento carcerario del boss, è vero che con un carro armato si limitano i rischi per Di Matteo, ma è vero anche che  – come si scriveva poco più sopra – i tempi sono cambiati. I boss stragisti dovrebbero essere tutti rinchiusi, e non ci dovrebbe essere alcun pezzo sostanzioso di associazione criminale in grado di farsi beffe della protezione dello Stato: così almeno ci è stato fatto credere. E allora dove sono i nostri servizi di sicurezza? Perché Di Matteo rischia ancora la morte? Nessuno si è occupato di capire cosa stia succedendo nel ventre molle di questo Paese?

Paolo Borsellino venne assassinato perché nessuno, dopo l’eliminazione di Giovanni Falcone, si occupava di capire cosa stesse succedendo dentro Cosa Nostra. E se qualcuno se ne occupava o ha fatto male il suo lavoro, avendo sulla coscienza la strage di via d’Amelio, oppure lo ha fatto fin troppo bene, agevolando e accelerando l’assassino di Borsellino a causa di giochetti, colloqui e negoziati bollati come sicurezza di Stato. Delle due, l’una.

Dicevamo, però, che i tempi sono cambiati. Oggi è lecito sperare che alcun pezzo o apparato di Stato collabori con la criminalità organizzata, o addirittura si sostituisca ad essa. A raccontare di casi simili sono proprio le inchieste che Nino Di Matteo non può oggi portare avanti: uomini di Stato assassinati da pezzi dello stesso Stato. Oggi, che come dicevamo i tempi sono cambiati, è lecito chiedersi quale fosse lo Stato più autentico. E da quale parte stia quello Stato. I silenzi delle più alte autorità, Quirinale in testa, sul caso Di Matteo sono in questo momento più rumorosi di un boato. Da cosa dobbiamo proteggere Di Matteo? E, soprattutto, da chi?