Quella porta va chiusa

portaaporta5apSe do le mie chiavi di casa a qualcuno lo faccio con la consapevolezza che la mia casa verrà frequentata dal qualcuno che potrà usare i miei servizi igienici, la mia biancheria, dormire nel mio letto.
La stessa cosa fa Bruno ‪‎Vespa‬ con la Rai‬: siccome da dipendente è diventato il padrone, anzi uno dei padroni, sa che può fare quello che gli pare col servizio pubblico dei contribuenti, costretti a pagare una tassa non solo per finanziare la propaganda a tutti i regimi ma anche per dare a Vespa la possibilità di invitare nel porcilaio più sontuoso della televisione di stato i figli di Casamonica e quello di Riina‬.

Enzo Biagi, che era un giornalista vero, intervistò Liggio, Cutolo e Buscetta ma fu lui ad andare da loro, non li invitò in uno studio della Rai.
Dopo il revisionismo della storia, la ripulitura del fascismo attraverso film e fiction che non raccontano tutta la verità, nella Rai del nuovo corso renziano va in onda, grazie a Bruno Vespa, alla sua egemonia conquistata nella tivù di stato per la sua abilità e predisposizione nell’essere servo di tutti i padroni che lo ripagano generosamente la riabilitazione mediatica e sociale della mafia, si fa dire al figlio del capomafia mandante di stragi, a sua volta mafioso, già condannato e impedito a tornare a vivere nella sua terra che “non è d’accordo con l’arresto di suo padre”, che un padre così gli ha insegnato i valori del rispetto.
Mattarella, che ha avuto un fratello ammazzato dalla mafia nemmeno stavolta pensa di dover dire qualcosa?
A ristabilire la par condicio fra stato e mafia basterà la puntata “riparatrice?”

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Vespa, vietato ai minori di 18 anni

 

Enzo Biagi, Daniele Luttazzi e Michele Santoro sono stati cacciati dalla Rai su richiesta di un delinquente seriale più che amico della mafia per aver fatto un “uso criminoso” del servizio pubblico della Rai: giornalisti, attori, comici sono stati interdetti dalla tivù di stato per aver fatto semplicemente il loro lavoro, chi di cronaca, chi di satira che ridicolizza il potere.
Molte trasmissioni sono state chiuse perché non gradite al potere, Raiot di Sabina Guzzanti addirittura dopo la prima puntata perché raccontava nel dettaglio l’abominevole conflitto di interessi di berlusconi e l’allora presidente di garanzia Annunziata non mosse un dito per impedirlo.
Solo poche settimane fa Presa Diretta di Riccardo Iacona ha subito la censura della seconda, quasi terza serata perché si occupava di educazione sentimentale e sessuale utile a contrastare il bullismo nelle scuole.
Bruno Vespa utilizza il servizio pubblico della Rai non solo per mera propaganda alla politica che poi lo ripaga per interposti presidenti del consiglio che vanno a presentare i suoi libri come se fosse un Dante Alighieri dei giorni nostri, ma anche per intervistare figli e parenti Casamonica che non è una famiglia di filantropi benefattori, scienziati e letterati ma un’associazione criminale che opera nel Lazio e non solo e per far promuovere un libro di esaltazione della famiglia mafiosa al diretto erede del boss.
Nel mezzo c’è l’indimenticabile ospitata al padre di un assassino, i vari plastici, le serate dedicate a casi di cronaca con processi ancora in corso, la prescrizione di Andreotti trasformata in assoluzione.
Questo non è servizio pubblico, non è informazione: Porta a porta, un programma tossico, nocivo per contenuti e argomenti va chiuso, non per censura ma per questioni di igiene ambientale e di tutela della salute intellettuale degli italiani.

Il servizio pubblico della Rai ha il compito e il dovere di promuovere la cultura e la buona informazione, dunque non può ospitare l’esaltazione di mafie e criminalità oltraggiando le vittime. Il servizio pubblico radiotelevisivo pagato coi soldi di tutti deve assolvere al suo compito con dignità e competenza, non ricercare lo share a tutti i costi.

Non si dice trattativa: aut aut sì [Come se cambiare una parola o evitare di pronunciarla possa modificare e invertire il corso della storia]

 

Come può essere una vittoria delle istituzioni un presidente della repubblica che viene sollecitato più volte, dopo varie ritrosie giustificate dal fatto che non avesse niente da dire mentre non pare affatto, a testimoniare in un processo di mafia.
La vittoria dello stato sono le istituzioni che non vengono mischiate con la mafia manco per sbaglio.
L’unico settore dello stato che dovrebbe avere a che fare con la mafia è la magistratura, nel paese dove vincono le istituzioni. Grandi esempi di rettitudine e trasparenza delle nostre istituzioni, dei politici che usano il ruolo per proteggere se stessi e non per mettersi a disposizione dei cittadini che rappresentano. Tutti bravi ad usare gli scudi previsti da quella Costituzione dove però non c’è scritto che lo stato dovesse scendere a patti col sistema mafioso, farsi ricattare dalla mafia.
Le notti della repubblica possono presentarsi anche alle dieci di mattina, tanto sono pochi quelli che si accorgono di chi ha spento la luce in questo paese.

Napolitano: ci fu un aut aut della mafia

Al di là di ogni interpretazione corretta, fatta in punta di diritto e di Costituzione, di prerogative concesse al capo dello stato circa la testimonianza di Napolitano l’unica cosa certa, incontrovertibile, è che fino ad un certo punto della storia di questo paese la mafia ha fatto esplodere bombe ovunque su e giù per l’Italia, ha compiuto stragi dove sono morte centinaia di persone innocenti, gli stessi protagonisti della lotta alla mafia: quelli che non trattavano e che lo stato non ha protetto, ad un certo punto non lo ha fatto più.
Ma la mafia non ha smesso di essere né di esistere.

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UN PRECEDENTE ASSAI SPIACEVOLE (Michele Ainis)

 “Ma che l’avvocato di Riina diventi per un giorno il portavoce del Quirinale, almeno questo è un paradosso che potevamo risparmiarci”.

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La parola “trattativa” non è mai stata pronunciata nel corso della testimonianza di Napolitano alla Corte di Palermo trasferita di sana pianta al Quirinale ma si è parlato di un aut aut da parte della mafia che si può tranquillamente tradurre almeno nell’alleggerimento del regime carcerario ai mafiosi del 41bis che Conso, allora ministro della giustizia, disse di aver deciso autonomamente.
Non c’è stata trattativa ma i due attentati alle chiese di Roma: San Giovanni [Spadolini] e san Giorgio al Velabro [Giorgio come Napolitano] presidenti del senato e della camera di allora furono dei segnali ben precisi come ha confermato in molte interviste anche la presidente dell’associazione delle vittime di via dei Georgofili.
Nessuna trattativa né patto ma appare piuttosto evidente che lo stato fu in qualche modo convinto o costretto a trovare un modo per salvare dalle vendette mafiose alcuni politici di allora.
Non c’è stato patto fra lo stato e la mafia ma subito dopo gli “attentatuni” di Capaci e Palermo dove morirono due galantuomini di questo paese e le loro scorte la cosiddetta seconda repubblica regalò all’Italia silvio berlusconi che continua ad essere ben presente nell’assetto della politica di oggi nonostante sia ormai ben conosciuta la sua più che vicinanza con l’ambiente mafioso nelle figure di dell’utri, che costruì materialmente forza Italia, il partito della discesa in campo e di quel vittorio mangano che b. fu obbligato ad assumere in qualità di stalliere ma che in realtà svolgeva tutt’altre funzioni in casa berlusconi.
Non c’è stato patto né trattativa ma sicuramente il ricatto sì, altrimenti le istituzioni e la politica non avrebbero riaccolto berlusconi a braccia aperte nonostante la sua reputazione corrotta, la condanna per frode. Uno stato serio, una politica seria mettono fuori gioco un delinquente conclamato e condannato in via definitiva per aver rubato a quello stato, non si aggrappano alla favoletta che “porta i voti”.
Le istituzioni di un paese serio lavorano e agiscono affinché i cittadini non debbano mai avere nemmeno l’ombra di un sospetto su chi si occupa della gestione dello stato, noi qui abbiamo non solo le ombre ma perfino e proprio le certezze.

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A margine di questa vicenda penso questo: una persona che non ha niente da nascondere, che ricopre un ruolo che è anche di esempio, di guida, di forte responsabilità verso il paese si mette a disposizione, non si chiude in prima istanza dietro il “non ho niente da dire”. Soprattutto ad un’età in cui non te ne dovrebbe fregare nulla di come sarà domani per te, ogni giorno è un furto alla morte.
Invece Napolitano ha dedicato tutta questa sua ultima parte di vita a fare in modo che la gente perdesse ogni giorno di più la fiducia in questo paese e nello stato che lui rappresenta anche in virtù di certe sue azioni, comportamenti, decisioni eccetera.

Chi ha memoria e onestà sufficiente ricorda, chi non sa è colpevole.
Quindi lui se ne andrà, naturalmente per questioni anagrafiche molto prima di chi invece aveva bisogno di ritrovare un po’ di fiducia perché ha qualche domani da vivere più di un novantenne a cui la vita ha dato onori e gloria anche senza nessun merito particolare: per cosa verrà ricordato Napolitano nei libri di scuola e di storia? Non c’è nulla di significativo che si possa associare alla sua figura politica.
Nulla.
Quello che è accaduto ieri è la conferma che l’Italia è un paese che rimarrà meschino, pieno di gente piccola che ha svenduto la sua dignità in funzione del peggioramento del futuro di tanta gente. Nessuno parlerebbe a proposito della testimonianza di Napolitano come di vittoria delle istituzioni né di un evento di importanza storica. E  qui mi riferisco ancora e di nuovo agli organi preposti al controllo del potere, una cosa importantissima e fondamentale per la tenuta del paese, dello stato e della democrazia che qui non si fa: non lo ha fatto chi si doveva opporre a politiche sbagliate perché manifestamente non in grado di condurre il paese nel verso giusto e non lo ha fatto la quasi totalità dell’informazione sempre prona al potente prepotente di turno,  perché se ci fosse stato un vero controllo rigoroso e puntuale invece dell’adeguamento progressivo al potere per vari interessi e opportunismi oggi la situazione sarebbe senz’altro migliore di questa.
Imputare tutto alla gente è disonestà, è non aver capito come giorno dopo giorno questo paese sia stato volutamente trascinato in questa condizione di non ritorno di una democrazia nata fragile, che non si reggeva in piedi, e invece di difenderla chi poteva e doveva le ha dato il colpo di grazia.

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Fortuna che era inutile – Marco Travaglio

La Triade dello Stato sapeva del ricatto: poi il governo sbracò.
NAPOLITANO RICORDA LE CONSULTAZIONI CON SCALFARO E SPADOLINI SULLA PISTA CORLEONESE E IL MOVENTE DI ”AUT AUT” ALLE ISTITUZIONI. MA I SERVIZI DEPISTAVANO.

Chissà che cosa scriverà, ora, chi aveva teorizzato che la testimonianza di Napolitano era inutile, superflua, un pretestuoso accanimento dei pm di Palermo a caccia di vendette per il conflitto di attribuzioni, un pretesto per “mascariare” il presidente della Repubblica agli occhi degli italiani e del mondo intero, per trascinarlo nel fango della trattativa Stato-mafia, per spettacolarizzare mediaticamente un processo già morto in partenza sul piano del diritto, naturalmente per violare le sue prerogative autoimmunitarie, e altre scemenze. Quel che è accaduto ieri nella vecchia Sala Oscura del Quirinale è la smentita più plateale e, per certi versi, sorprendente di tutti gli inutili (quelli sì) fiumi d’inchiostro versati per un anno e mezzo da corazzieri, paggi e palafrenieri di complemento che, con l’aria di difendere Giorgio Napolitano, hanno guastato forse irrimediabilmente la sua immagine pubblica, spingendolo a trincerarsi dietro segreti immotivati, privilegi inesistenti, regole riscritte ad (suam) personam e spandendo tutt’intorno a lui una spessa e buia cortina fumogena che ha indotto molti cittadini a sospettare.

Quando ieri, finalmente, il capo dello Stato s’è trovato di fronte ai giudici e ai giurati della Corte d’Assise, ai quattro pm e ai legali degli imputati (mafiosi, carabinieri e politici) e delle parti civili, è stato lui stesso a dissipare – per quanto possibile – tutto quel fumo. Facendo la cosa più normale: rispondere alle domande dicendo la verità, come ogni testimone che si rispetti. E, finalmente libero dai cattivi consiglieri, ha preso atto che la ricerca della verità è il solo movente che anima i giudici e i pm di questo processo: nessuno vuole incastrare o screditare nessuno, tutti vogliono sapere cos’accadde fra il 1992 e il 1993, mentre Cosa Nostra attaccava il cuore dello Stato e pezzi dello Stato la aiutavano a ricattarlo, scendendo a patti e firmando cambiali in bianco. Insomma, ha detto la verità. E così, consapevolmente o meno, ha fornito un assist insperato alla Procura di Palermo.   L’aut aut. Ripercorrendo i suoi ricordi e anche i suoi appunti di ex presidente della Camera, Napolitano ha fornito un contributo che forse nemmeno i magistrati si aspettavano così nitido e prezioso, confermando in pieno l’ipotesi accusatoria alla base del processo: che, cioè, i vertici dello Stato sapessero benissimo chi e perché metteva le bombe. Per porre le istituzioni dinanzi a quello che Napolitano ha definito un “aut aut”: o lo Stato allentava la pressione e la repressione antimafia, cominciando dall’alleggerimento del 41-bis, oppure si consegnava alla strategia destabilizzante di Cosa Nostra, che avrebbe seguitato ad alzare il tiro dello stragismo per rovesciare l’ordine costituzionale. I fatti – all’epoca sconosciuti a Napolitano, ma persino al premier Carlo Azeglio Ciampi – ci dicono che fra il giugno e il novembre del 1993 quell’allentamento ci fu: prima – all’indomani della bomba in via Fauro a Roma e della strage in via dei Georgofili a Firenze – con la rimozione al vertice delle carceri del “duro” Nicolò Amato, rimpiazzato con il “molle” Adalberto Capriotti e col suo vice operativo Francesco Di Maggio; poi – in seguito all’eccidio di via Palestro a Milano e alle bombe alle basiliche romane di San Giorgio al Velabro e San Giovanni in Laterano (Giorgio come il presidente della Camera Napolitano, Giovanni come Spadolini presidente del Senato) – con la revoca del 41-bis a centinaia di mafiosi. Il risultato, in simultanea con gli ultimi preparativi per la nascita di Forza Italia (da un’idea di Marcello Dell’Utri) e la discesa in campo di Silvio Berlusconi, fu la fine delle stragi. O meglio, la loro sospensione sine die, per dare a chi aveva chiuso la trattativa il tempo e il modo di pagare le cambiali. “Violenza o minaccia a corpo politico dello Stato”, cioè al governo, anzi ai governi italiani: questa è l’accusa formulata dalla Procura (e confermata dal Gup) agli imputati di mafia e di Stato. Un’accusa che la lunga testimonianza di Napolitano sull’“aut aut” mafioso – tutt’altro che inutile, anzi fra le più utili fin qui raccolte – ha clamorosamente rafforzato.

La lettera. Il contributo meno interessante Napolitano l’ha fornito a proposito di un passo della lettera di dimissioni che gli inviò il 18 giugno 2012 il suo consigliere giuridico Loris D’Ambrosio, nel pieno delle polemiche per le sue telefonate con Nicola Mancino: “Lei sa di ciò che ho scritto anche di recente su richiesta di Maria Falcone. E sa che, in quelle poche pagine, non ho esitato a fare cenno a episodi del periodo 1989-1993 che mi preoccupano e fanno riflettere…”. Napolitano sostiene che D’Ambrosio non gli disse nulla, anche se riconosce che poi nel libro della Falcone quegli episodi non li raccontò. Ha trovato anche la lettera dattiloscritta che il consigliere inviò alla Falcone, ma assicura ai pm che il testo è identico a quello poi pubblicato. “… (episodi) che mi hanno portato a enucleare ipotesi – solo ipotesi – di cui ho detto anche ad altri…”. Quell’“anche ad altri” fa pensare, per la seconda volta, che ne abbia parlato anche con Napolitano. Il quale però nega. “…quasi preso anche dal vivo timore di essere stato allora considerato solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi”. Il presidente riconosce che si tratta di frasi “drammatiche”. Perché allora non ne chiese conto al suo collaboratore dopo averle lette? La risposta è evasiva: quando, l’indomani, parlò con D’Ambrosio, lo fece soltanto per convincerlo a ritirare le dimissioni e non affrontò con lui il tema degli “indicibili accordi”. Ora, visto che D’Ambrosio è morto e gli “altri” destinatari delle sue confidenze sono ignoti, il giallo rimane insoluto.   Il 1992. Anche sul 1992 – quando inizia l’attacco ricattatorio di Cosa Nostra allo Stato dopo la sentenza della Cassazione sul maxiprocesso, con il delitto Lima, la strage di Capaci, l’inizio della trattativa del Ros con Vito Ciancimino (intermediario prima con Riina poi con Provenzano), la mattanza di via D’Amelio, l’accantonamento di Ciancimino e le trame di Provenzano per consegnare Riina ai carabinieri – Napolitano ha poco da dire. Se non che ricorda bene come, alla Camera da lui presieduta, il decreto Scotti-Martelli sul 41-bis, varato il 6 giugno subito dopo Capaci, si arenò e occorse l’omicidio di Borsellino perché il Parlamento lo convertisse in legge il 1° agosto. E che, stranamente, il neopresidente dell’Antimafia Luciano Violante, suo compagno di partito, rivelò anche a lui che Ciancimino voleva esser convocato e sentito in commissione (cosa che Violante promise di fare, e poi misteriosamente non fece mai). Per la verità, a raccomandare don Vito per un incontro a tu per tu con Violante, era stato proprio il colonnello Mario Mori, ma questo il compagno Luciano non lo disse al compagno Giorgio. Perché il presidente dell’Antimafia avvertì proprio il presidente della Camera di quella richiesta di Ciancimino? Napolitano non sa spiegarselo.   Il 1993. Dopo la cattura pilotata di Riina, Cosa Nostra si rifà sotto a suon di bombe per costringere lo Stato a piegarsi. Roma e Firenze a maggio. Poi Milano e di nuovo Roma nella notte fra il 27 e il 28 luglio. Il presidente ricorda che subito, fin dal 29 luglio, “la Triade” Scalfaro-Spadolini-Napolitano, cioè i massimi vertici dello Stato che condividevano tutte le conoscenze (mutuate dall’intelligence e dalle forze investigative) su quel che stava accadendo, erano certi che anche quelle stragi avevano una matrice mafiosa (“corleonese”, specifica il presidente) e un movente ricattatorio, estorsivo. Napolitano ricorda di averne parlato col presidente Scalfaro e forse, ma non lo ricorda con precisione, col premier Ciampi. Il quale, dopo il black out dei centralini di Palazzo Chigi nella notte delle bombe, dirà di aver temuto un colpo di Stato e tirerà in ballo la P2. Non solo Cosa Nostra voleva ricattare lo Stato: ma i massimi esponenti dello Stato si sentivano sotto ricatto di Cosa Nostra. Napolitano ricorda una imprecisata “pubblicistica” che già all’epoca avrebbe riferito di due correnti divergenti fra i corleonesi: l’ala guerrafondaia e un’ala più morbida (quella di Provenzano). In realtà nessuno allora scrisse mai nulla del genere: lo disse il ministro dell’Interno Mancino, nel dicembre ’92, poco prima della cattura di Riina, in un’incredibile intervista al Giornale di Sicilia. Poi si giustificò con i pm sostenendo di averlo saputo da Pino Arlacchi, consulente della Dia. Ma l’allora capo della Dia, Gianni De Gennaro, ha smentito: in quei mesi riiniani e provenzaniani risultavano una cosa sola, anzi si pensava che Provenzano fosse addirittura morto. Solo chi trattava con Ciancimino, e dunque con Provenzano, sapeva che quest’ultimo era vivo e si era smarcato dall’ala stragista. Ma su questi fatti Napolitano non ha nulla di utile da riferire.   Tutti sapevano. In una nota del Sismi appena scoperta e depositata dai pm, datata 29 luglio ’93 (il giorno dopo le stragi di Milano e Roma), si legge: “Tra il 16 ed il 20 agosto ci sarà un attentato che non sarà portato a monumenti o a teatri, ma a persone. A livello grosso. Una strage. Poi si faranno ad uno grosso (inteso in senso di personalità politica). Spadolini e Napolitano, uno vale l’altro. Gli autori sono sempre i soliti: quelli là (riferito ai corleonesi?) d’accordo coi grossi (riferito ai politici) e coi massoni”. Parole che fanno scopa con quelle pronunciate ieri da Napolitano, che fra l’altro ha ricordato il rafforzamento delle misure di sicurezza sulla sua persona proprio in quei giorni. Perché è così importante, per la pubblica accusa, la testimonianza del presidente sulla matrice corleonese e sulla finalità ricattatoria delle stragi dell’estate ’93 come consapevolezza comune e unitaria fin da subito presso i massimi vertici dello Stato? 1) Perché, della “triade”, Napolitano è l’unico superstite: Scalfaro e Spadolini sono morti, e così l’allora capo della Polizia Vincenzo Parisi, uomo-chiave di quella stagione, anche per il suo filo diretto con Scalfaro. 2) Perché nessun altro uomo delle istituzioni di allora è mai stato così chiaro ed esplicito sul livello di consapevolezza dei rappresentanti dello Stato sul significato dell’offensiva stragista di Cosa Nostra: una lunga sfilza di politici smemorati e/o reticenti.   3) Perché, se già il 29 luglio ’93 si sapeva che le bombe in via Palestro e contro le basiliche erano roba di mafia per piegare lo Stato, non si comprende quel che accadde subito dopo.   Piste e depistaggi. Il 6 agosto ’93, attorno a un tavolo del Cesis (il comitato che coordinava i servizi segreti militare e civile), si riunirono i capi dell’intelligence, ma anche il capo della Polizia Parisi, il capo della Dia De Gennaro, il vicecomandante del Ros Mori e il vicecapo e uomo forte del Dap Francesco Di Maggio. E se ne uscirono con una fumosa relazione, sulle bombe della settimana precedente, piena di piste fasulle al limite del depistaggio: oltre all’eventuale matrice mafiosa, ipotizzarono quella del terrorismo serbo, o palestinese, o del narcotraffico internazionale. Del resto, se gli apparati e i servizi avessero davvero avuto dubbi sulla pista mafiosa per strappare allo Stato un cedimento sul 41-bis, cioè sul trattamento dei boss detenuti, perché mai invitare a quel tavolo un estraneo come il vicecapo delle carceri Di Maggio? Fin da giugno, il suo superiore Capriotti aveva scritto al ministro Conso sollecitando un taglio lineare dei 41-bis per “dare un segnale di distensione nelle carceri”. E proprio per accelerarlo Cosa Nostra aveva seminato morte e terrore in quella primavera-estate. Infatti appena quattro giorno dopo il vertice al Cesis, il 10 agosto, De Gennaro firmò un rapporto della Dia, destinato a Mancino e a Violante, che metteva nero su bianco la pista mafioso-trattativista delle bombe e invitava il governo a non cedere sul 41-bis: “È chiaro che l’eventuale revoca anche solo parziale… del 41-bis potrebbe rappresentare il primo concreto cedimento dello Stato intimidito dalla stagione delle bombe”. Un modo per smarcarsi dal fumoso e depistante rapporto del Cesis, che pure lo stesso De Gennaro aveva siglato? Un mese dopo, 11 settembre, lo Sco della Polizia, guidato da Antonio Manganelli, fu ancora più esplicito, usando per la prima volta il termine “trattativa” in una nota inviata all’Antimafia di Violante: “Obiettivo della strategia delle bombe sarebbe quello di giungere a una sorta di trattativa con loStato per la soluzione dei principali problemi che affliggono l’organizzazione: il ‘carcerario’ e il ‘pentitismo’… Creare panico, intimidire, destabilizzare, indebolire lo Stato, per creare i presupposti di una ‘trattativa’, per la cui conduzione potrebbero essere utilizzati da Cosa Nostra anche canali istituzionali”. Più chiaro di così…   Lo sbraco. Anche questo allarme, come i precedenti, viene ignorato sia da Mancino sia da Violante. E il 5 novembre il ministro Conso non rinnova il 41-bis in scadenza a 334 mafiosi detenuti, contro il parere negativo della Procura di Palermo. Ma in ossequio alla sollecitazione che gli veniva dal nuovo capo del Dap fin da giugno. Per negare l’evidente cedimento al ricatto mafioso, Conso s’è trincerato dietro il rapporto del Cesis che ipotizzava matrici diverse da quella di Cosa Nostra per le stragi dell’estate. Ma, oltre ai rapporti Dia e Sco, a smentirlo ora c’è anche la parola di Napolitano: i vertici dello Stato sapevano fin da subito che era stata Cosa Nostra per ricattarlo. E lo Stato sbracò.

 

Non è Stato lui

Ai 5stelle va riconosciuto il merito di aver chiesto la messa in stato d’accusa di Giorgio Napolitano, che sicuramente non otterrà nessun risultato concreto non essendoci le condizioni, quel tradimento manifesto dello stato da poter provare ma che ha comunque sollevato un problema che c’è: quello di un presidente della repubblica che in svariate occasioni non ha dimostrato quella parzialità da arbitro terzo ma si è comportato come uno dei giocatori in campo. Quello che se vuole si porta via il pallone quando vuole e quindi detta lui le regole del gioco.

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Ieri grande fermento in Rete dopo la visita di Tsipras a Roma. Il dibattito che ha animato i social media si è focalizzato soprattutto sul pericolo che un’altra lista, di sinistra per giunta: orrore degli orrori, possa in qualche modo vanificare l’impegno dei 5stelle e disperdere gli eventuali voti a loro riservati nelle future ed eventuali elezioni, quando l’oligarchia che ha preso possesso dello stato concederà a noi poveri cittadini – relegati al ruolo di sudditi anziché popolo sovrano – di poter ritornare ad esprimerci e scegliere i nostri rappresentanti in parlamento, per conto nostro come da Costituzione e non per conto Napolitano. Ieri sembrava di essere tornati indietro nel tempo, ai bei tempi in cui il pd chiedeva il voto “utile”,  quello esercitato con la classica molletta al naso. Quando tutti si sperticavano a spiegarci che se avessimo dato fiducia ad una sinistra che tanto sinistra non era [e non è] col tempo, piano piano, anche un non partito di una non sinistra si sarebbe impegnato a fare le cose serie, e magari anche di sinistra.

Per fortuna, sempre Napolitano, si occupa alacremente di unire gli italiani, lui si sa, detesta la “divisività” e per essere coerente col suo amore per la “univisità” a tutti i costi, quella per la stabilità, per il bene del paese ci mancherebbe, ha deciso di voler passare alla Storia, quella vera, non quella che ci raccontano Scalfari e Battista a modo suo: il peggiore, riconosciuto da elettori di destra, centro e sinistra. E non serviva nemmeno leggere nero su bianco dell’iniziativa “spintanea” contro Nino Di Matteo per farsi un’idea di quanto certa magistratura lo abbia sempre disturbato, quanto avrebbe fatto volentieri a meno di quei giudici che lavorano per portare alla luce quei segreti che lui, a moniti unificati, ammanta di una presunta ragion di stato. 

Ma quale ragion di stato può impedire che venga fatta luce su una parte degli apparati dello stato stato che, assai poco presuntamente, in molte occasioni non ha agito con tutte le sue forze contro quel crimine più crimine di tutti che è la mafia, quella modernizzata che oggi scioglie donne e bambini nell’acido? Quale ragion di stato ha impedito a Napolitano, presidente della repubblica e capo supremo di tutti i magistrati – solitamente prodigo di solidarietà e parole di condanna per tutto – di dire una sola parola di sostegno a Nino Di Matteo minacciato, condannato a morte dalla mafia che fa saltare autostrade e palazzi se vuole? E quale altra ragion di stato impedisce che dopo sei mesi venga applicata una sentenza, ridicola rispetto all’ammontare dei danni procurati all’Italia, al delinquente più delinquente di tutti? 
E in virtù di quale ragion di stato gli italiani devono ancora essere rappresentati da questo signore?

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CSM, È STATO NAPOLITANO A VOLER PROCESSARE DI MATTEO – Marco Travaglio, 9 febbraio

PROCESSO A DI MATTEO PER UN’INTERVISTA : IL MANDANTE È IL COLLE UN DOCUMENTO UFFICIALE RIVELA CHE LA SEGNALAZIONE PER UNA AZIONE DISCIPLINARE CONTRO IL PM CHE INDAGA SULLA TRATTATIVA STATO-MAFIA PARTÌ DAL QUIRINALE.

Fu Donato Marra, cioè il braccio destro del Presidente, a “denunciare” al Pg della Cassazione il pm della Trattativa per un’intervista sulle telefonate con Mancino. La notizia delle intercettazioni era già uscita su tutti i giornali, eppure da 18 mesi il magistrato più odiato da Riina è sotto azione disciplinare, senza aver violato alcun segreto.

Da un anno e mezzo, cioè da quando la Procura generale della Cassazione trascinò Nino Di Matteo, il pm più odiato da Totò Riina, sotto procedimento disciplinare dinanzi al Csm, si sospettava che l’incredibile iniziativa non fosse spontanea. Ma “spintanea”, suggerita dal Quirinale, visto che Di Matteo, dopo l’uscita di Antonio Ingroia dalla magistratura, è anche il magistrato più detestato da Giorgio Napolitano. Ora il sospetto diventa certezza grazie a un documento ufficiale: la richiesta di proscioglimento depositata a fine dicembre dal Pg Gianfranco Ciani e dal sostituto Antonio Gialanella. I due, ricostruendo la genesi del processo, che riguarda anche il procuratore capo di Palermo Francesco Messineo, rivelano che la segnalazione dei possibili illeciti disciplinari partì proprio dal Colle: “Al Procuratore generale presso la Cassazione perveniva, in data 11.7.2012, dal Segretario generale della Presidenza della Repubblica, una missiva datata al 9.7.2012”. In quella lettera, il segretario generale del Quirinale Donato Marra, braccio destro di Napolitano, trasmette un suo carteggio con l’Avvocatura dello Stato e fra questa e la Procura di Palermo a proposito di un’intervista di Nino Di Matteo a Repubblica . L’intervista si riferisce alle rivelazioni diffuse il 20 giugno 2013 dal sito di Panora ma : intercettando Nicola Mancino, i pm di Palermo sono incappati non solo in 9 sue conversazioni col consigliere Loris D’Ambrosio, ma anche in alcune con Napolitano in persona. Notizia rilanciata il 21 giugno dal Fatto e da altre testate. Il 22 giugno Repubblicaintervista Di Matteo, il quale spiega che, negli atti appena depositati ai 12 indagati per la trattativa Stato-mafia, “non c’è traccia di conversazioni del capo dello Stato e questo significa che non sono minimamente rilevanti”. L’intervistatrice domanda se le intercettazioni non depositate saranno distrutte, Di Matteo risponde – riferendosi a tutto il materiale non depositato e non solo alle telefonate Mancino-Napolitano: “Noi applicheremo la legge in vigore. Quelle che dovranno essere distrutte con l’instaurazione di un procedimento davanti al gip saranno distrutte, quelle che riguardano altri fatti da sviluppare saranno utilizzate in altri procedimenti”. È OVVIO CHE, fra quelle da distruggere, ci siano anche le intercettazioni indirette del Presidente, visto che sono “irrilevanti” (almeno sul piano penale), mentre quelle ancora da approfondire riguardano altri soggetti. Ma, anzichè ringraziare Di Matteo per aver dissipato ogni possibile sospetto su sue condotte illecite, Napolitano scatena la guerra termonucleare alla Procura di Palermo, esternando a tutto spiano e mobilitando prima l’Avvocatura dello Stato, poi il Pg della Cassazione e infine la Corte costituzionale. L’Avvocato dello Stato, Ignazio Caramazza, viene attivato subito dopo l’intervista dal segretario generale Marra, perché chieda a Messineo “una conferma o una smentita di quanto risulta dall’intervista, acciocchè la Presidenza della Repubblica possa valutare la adozione delle iniziative del caso”. Il 27 giugno Caramazza scrive a Messineo per sapere come si sia permesso Di Matteo di svelare a Repubblica che sono “state intercettate conversazioni telefoniche del Presidente della Repubblica, allo stato considerate irrilevanti, ma che la Procura si riserverebbe di utilizzare”. Il procuratore risponde con due lettere: una firmata da Di Matteo, l’altra da lui. Entrambe chiariscono ciò che è già chiarissimo dall’intervista: “La Procura, avendo già valutato come irrilevante ai fini del procedimento qualsivoglia eventuale comunicazione telefonica diretta al Capo dello Stato, non ne prevede alcuna utilizzazione investigativa o processuale, ma esclusivamente la distruzione da effettuare con l’osservanza delle formalità di legge”: cioè con richiesta al gip, previa udienza camerale con l’ascolto dei nastri – previsto espressamente dal Codice di procedura penale – da parte degli avvocati. Tutto chiaro? Sì, in condizioni normali. Ma qui c’è il Quirinale che preme, minacciando “le iniziative del caso”. Allora una normale intervista che spiega come la Procura abbia rispettato e intenda rispettare la legge diventa un caso di Stato. Il 16 luglio Napolitano solleva il conflitto di attribuzioni fra poteri dello Stato contro la Procura di Palermo, accusandola di aver attentato alle sue “prerogative”. A fine luglio Ciani apre su Messineo e Di Matteo un “procedimento paradisciplinare”, cioè un’istruttoria preliminare. È lo stesso Ciani che tre mesi prima, su richiesta scritta di Mancino e Napolitano (tramite il solito Marra), ha convocato il Pna Piero Grasso per parlare di come “avocare” da Palermo l’inchiesta sulla Trattativa o almeno di “coordinarla” con quelle sulle stragi a Firenze e Caltanissetta: ricevendo da Grasso un sonoro rifiuto. Il primo agosto un sostituto di Ciani scrive al Pg di Palermo per sapere se Messineo avesse autorizzato Di Matteo a rilasciare l’intervista e  perchè non l’avesse denunciato al Csm per averla rilasciata. Il Fatto lancia una petizione e raccoglie 150 mila firme in un mese: lo vede anche un bambino che il processo disciplinare è fondato sul nulla. IL 10 AGOSTO il Pg di Palermo risponde a Ciani: l’intervista di Di Matteo non richiedeva alcuna autorizzazione e non violava alcuna norma deontologica perché non svelava alcun segreto, visto che la notizia delle telefonate Napolitano-Mancino l’avevano già diffusa Panorama e poi decine di testate. Tutto chiaro? Sì, in condizioni normali. Ma qui c’è il Quirinale che preme. Il Pg Ciani ci dorme su sette mesi. Poi il 19 marzo 2013 promuove l’azione disciplinare contro Messineo e Di Matteo. Il secondo è accusato di aver “mancato ai doveri di diligenza e riserbo” e “leso indebitamente il diritto di riservatezza del Presidente della Repubblica”; il primo, di non averlo denunciato al Csm. Messineo e Di Matteo vengono interrogati il 18 giugno e il 7 luglio, ripetendo quel che avevano sempre scritto e detto. La Procura generale ci dorme sopra altri cinque mesi e mezzo. Poi finalmente, alla vigilia di Natale, deposita le richieste di proscioglimento, scoprendo l’acqua calda: la notizia delle telefonate Mancino-Napolitano non la svelò Di Matteo, ma Panora ma , in un articolo “presente nella rassegna stampa del Csm del 21.6.2012”. Quindi “con apprezzabile probabilità occorre assumere che la notizia… fosse oggetto di diffusione da parte dei mass media in tempo antecedente” a quello dell’intervista incriminata” del giorno 22. Ma va? Ergo “è del tutto verosimile” che Di Matteo tenne “un atteggiamento di sostanziale cautela” e “non pare potersi dire consapevole autore di condotte intenzionalmente funzionali a ledere diritti dell’Istituzione Presidenza della Repubblica”, semmai “intenzionato a rappresentare la correttezza procedurale dell’indagine”. Quindi “la condotta del dr. Di Matteo non si è verosimilmente consumata nei termini illustrati nel capo d’incolpazione, tanto che nessun rimprovero disciplinare si ritiene di poter articolare nei suoi confronti”, né in quelli di Messineo. Così scrivono Galanella e Ciani il 16 e 19 dicembre 2013 nella richiesta di proscioglimento che ora dovrà essere esaminata dal Csm. Ma così avrebbero potuto scrivere – risparmiando a Di Matteo e Messineo un anno e mezzo di calvario – già nel giugno 2012, quando tutti sapevano già tutto. Compreso il Quirinale, che sciaguratamente innescò questo processo kafkiano al nemico pubblico numero uno del Capo dei Capi. E di tanti altri capi.

Più solidarietà per tutti [tanto è gratis]

Preambolo: ma Riina che chiede di “mettere berlusconi in galera per tutta la vita”? 
Mica ha detto ci voglio fare un reato insieme, ha chiesto proprio la galera, e a vita per giunta.
Giustizialista!

Mi chiedevo inoltre se nei  76 chili del frigo di Francesco è compreso anche il peso delle corna della première dame. Bel furbacchione pure Hollande, prima si fanno i fatti loro, dichiarano guerre come Bush, le perseguono come Obama, tradiscono le mogli come Hollande e poi vanno a prostrarsi davanti alla loro santità per riguadagnare un’immagine pubblica. 
E le santità approvano, le guerre, le corna e molto altro, e aprono la porta a tutti. Intendiamoci, a me delle storielle di letto di Hollande non frega nulla. Al papa però in quanto capo di una religione che santifica il matrimonio e demonizza l’infedeltà sì, dovrebbe interessare. E questa visita a ridosso dell’ennesimo scandalo di sesso del potente in vaticano è quanto meno inopportuna. Se esiste una diplomazia dovrebbe fare il suo mestiere. Così invece è abbastanza comprensibile la ragione di questo incontro. E il problema è sempre il solito, ovvero che il potere che non viene mai condannato nemmeno moralmente può continuare, attraverso i suoi rappresentanti a fare il cazzo che vuole. Ai cittadini comuni questo non è permesso. Perché a loro, a noi il giudizio morale del prossimo può cambiare la vita. E non abbiamo nemmeno un papa che ci riabilita.

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Sottotitolo: perché  ognuno può dire quello che vuole e non dire quello che dovrebbe al momento opportuno.
E allora succede che il presidente del consiglio abbia, con tre mesi di ritardo espresso la sua solidarietà a Nino Di Matteo, che come giustamente fa notare Marco Travaglio stamattina non è stato minacciato di morte dalla mafia ma “condannato” perché la mafia solitamente quando si prefigge un obiettivo poi riesce a centrarlo [ché non è mica un governicchio di larghe intese, la mafia] e per non far sembrare troppo grave quella condanna o troppo zelante la sua solidarietà – ché non sia mai lo stato si metta al fianco di chi lavora per lo stato e non invece di chi lo deruba – ha aggiunto la solidarietà anche a Piero Grasso condannato a fare il presidente del senato.

E, siccome le disgrazie non vengono mai sole, nessun giornalista di buona volontà è andato a chiedere a Enrico Letta come mai la solidarietà a Nino Di Matteo da parte di una parte delle istituzioni sia arrivata oltre il tempo regolamentare rispetto ad altre che hanno riguardato altre persone e altre situazioni meno gravi espresse quasi in tempo reale, né i motivi per i quali Piero Grasso ha bisogno anche della mia solidarietà.

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LO SVUOTA-CARCERI LIBERA GOMORRA (Thomas Mackinson e Davide Milosa).

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Giorni fa sentivo a radio Capital che in Italia a causa della crisi sono aumentati i reati di microcriminalità come i furti negli appartamenti, gli scippi e le rapine. 
Premesso che un furto in casa non ha mai una micro dimensione perché spesso e volentieri oltre al danno di ciò che viene sottratto chi entra in una casa senza chiavi deve trovare un modo per farlo. Io ad esempio, oltre alla perdita di oggetti di valore, alcuni di un valore semplicemente simbolico altri di valore e basta ho dovuto rifare per intero la porta di casa che mi avevano sradicato dal muro e, abitando in una casa che inizia dal pianterreno mettermi dietro le sbarre da incensurata. 
Una spesa che sul bilancio familiare incide e costringe a fare a meno di altre cose per un po’. Oltre a quelle di cui si era già dovuto fare a meno per motivi contingenti. 
E nemmeno uno scippo è un reato micro, perché spesso per strappare una borsa dalle mani si usa violenza, una persona può cadere, farsi male e il gesto violento lascia inevitabilmente delle conseguenze psicologiche, come anche il furto in casa. 
E, a meno che le persone che si rimetteranno in libertà con l’indulto non abbiano di che mantenersi una volta usciti dal carcere è facile presumere che riprenderanno la loro consueta attività criminosa. 
Del dramma dei detenuti si è discusso tante volte e ogni volta la conclusione è stata la stessa, cioè che non è rimettendo per strada persone che si mantengono abitualmente grazie a furti, scippi e rapine che si risolve quel dramma. Che il problema del sovraffollamento delle carceri è dovuto ad altri fattori quali leggi sbagliate ed un uso esuberante ed eccessivo della custodia cautelare. Oltre ovviamente al discorso strutturale che in questo paese nessuno vuole affrontare per rendere le carceri quel luogo di redenzione sociale umanamente vivibile e sostenibile come prevede il nostro diritto. 
E lo stato, nel momento peggiore del suo rapporto coi cittadini, nel momento in cui la fame costringe gente a rubare, invece di prendere provvedimenti che abbiano un effetto positivo per questo obiettivo di nuovo si mette contro i cittadini trovando nell’indulto, e cioè rimettendo per strada persone che hanno un cattivo rapporto con la società cosiddetta civile, l’unico modus operandi per sbloccare una situazione umanamente insostenibile. 
I cittadini vittime sempre e comunque delle scelte scellerate di una politica incapace di applicare con serietà le leggi che essa stessa produce. 
Alcuni, molti, vittime due volte. Ho sempre detto e scritto, perché lo penso, che la criminalità è un fatto umano che non si estinguerà se non con la fine dell’umanità. Ma imparare a convivere coi fenomeni sociali, anche quelli inevitabili non vuol dire doverli accettare, subire passivamente, e nemmeno significa subire passivamente le scelte e le decisioni di governi che agiscono in proprio e non secondo la volontà del popolo. Uno stato ha il dovere di tutelare i cittadini, di farsi sentire sempre al loro fianco, non costringerli a doversi confrontare continuamente con le paure e l’incertezza. Perché la paura mette pensieri sbagliati in testa, chi pensa male vive male e si comporta male a sua volta, votando anche male, lo abbiamo visto con la lega, con alemanno, gente che promette e ha promesso quel che non potrà mantenere e non ha mantenuto e sulle paure dei cittadini ci campa di rendita. 

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Non sanno quello che fanno
Marco Travaglio, 25 gennaio

La verità è che noi i politici li sopravvalutiamo. Tutti. Pensiamo che dietro ogni loro parola, sguardo, scelta, proposta ci sia dietro chissà chi e che cosa. Invece, il più delle volte, c’è il sottovuotospinto, del resto facilmente riscontrabile nei loro sguardi persi nel nulla. È il principale difetto delle tesi complottiste: sono sempre molto affascinanti perché ogni complotto inizia regolarmente alcuni secoli fa, mette d’accordo centinaia di persone che manco si conoscevano, infila nella sceneggiatura potentissime banche d’affari, logge massoniche, potentati occulti e criminali, servizi deviatissimi e alla fine tutto torna.

Poi uno guarda in faccia Enrico Letta, Fassina, Angelino Jolie o l’ultimo acquisto Toti, ma pure i tecnici tipo Fornero, Saccomanni o Cancellieri, e deve arrendersi a un’evidenza più prosaica: questi non li manda nessuno, nemmeno Picone; si mandano da soli e, quando non rubano, non sanno quello che fanno. Intendiamoci: non è un’attenuante, è un’aggravante, visto che hanno in mano le nostre vite e i nostri soldi. E più sono incapaci più diventano burattini delle lobby. La supertecnica Fornero allungò l’età pensionabile, poi si stupì molto perché aumentavano i giovani disoccupati e gli esodati, cioè i lavoratori espulsi in anticipo e rimasti senza più uno stipendio e senza ancora una pensione. Chi l’avrebbe mai detto, eh? Pure Saccomanni pareva questo granché, poi l’abbiamo visto all’opera con l’Imu. La Cancellieri ha passato la vita a fare il prefetto: se la macchina dello Stato non la conosce lei, siamo freschi. Invece conosce solo Ligresti. Ha fatto una legge svuotacarceri che non svuota una mazza, come le precedenti di Alfano e Severino (altri due geni). L’altro giorno, con l’aria di chi passa di lì per caso, ha spiegato (a noi) che abbiamo 9 milioni di processi pendenti, dunque ci vogliono l’amnistia e l’indulto. Come se uno avesse la casa allagata perché ha lasciato aperto il rubinetto della vasca da bagno e, anziché chiuderlo, svuotasse l’acqua col cucchiaino.

Pure il presidente della Cassazione Giorgio Santacroce invoca l’indulto per mettere fuori “chi non merita di stare in carcere”. Ma poi non spiega chi, di grazia, sarebbe in galera senza meritarlo, e perché ci sia finito, visto che il carcere è previsto dalle leggi dello Stato ed è il risultato di sentenze emesse dalla Cassazione che lui presiede. Dopodiché, in lieve contraddizione con se stesso, chiede di riformare la prescrizione che garantisce l’impunità a 200 mila imputati l’anno: ma lo sa o non lo sa che, se i prescritti venissero condannati, i detenuti raddoppierebbero? Che si fa: si aboliscono direttamente le carceri? L’altroieri Enrico Letta, con tre mesi di ritardo, ha trovato il coraggio di pronunciare il nome di Nino Di Matteo e di inviargli la solidarietà per le ripetute condanne a morte emesse da Totò Riina (lui le chiama eufemisticamente “minacce”). Poi però s’è spaventato di averne detta una giusta e ci ha aggiunto una fregnaccia: la solidarietà a Piero Grasso. Ohibò, si son detti tutti quanti, Grasso compreso: Riina ha condannato a morte anche Grasso e non ne sappiamo nulla? Niente paura: semplicemente il pentito La Barbera ha raccontato al processo Trattativa un fatto noto da 15 anni, e cioè che nel ’92, dopo Salvo Lima, Cosa Nostra progettava di uccidere Mannino, Martelli, i figli di Andreotti e Grasso. Poi cambiò idea. Ma Letta non sa nulla, infatti fa il premier. Oppure non gli pare vero di associare all’impronunciabile Di Matteo un personaggio che piace alla gente che piace: Grasso. E ha posto sullo stesso piano l’ordine emesso tre mesi fa da Riina di uccidere Di Matteo con l’attentato a Grasso annullato 22 anni fa: “Profonda solidarietà al pm Di Matteo e al presidente Grasso oggetto di minacce terribili”. Ieri anche Vendola, altro esperto, ha tributato “affettuosa solidarietà a Grasso e Di Matteo”. Niente solidarietà, al momento, per Mannino, Martelli e i figli di Andreotti. Letta e Vendola provvederanno fra 22 anni.

“Renziano lo dice a sua sorella”. E piddino anche a suo nonno

Questo paese è una vergogna, non c’è un angolo in cui rifugiarsi per poter trovare un po’ di pace, un punto da guardare per ritrovare non dico un ottimismo ma almeno il minimo di quella spinta che sappia dare un senso a quello che si fa, alle giornate, una motivazione nobile per alzarsi ogni giorno dal letto. Un paese dove si brucia un bambino di tre anni e il presidente della repubblica non dice una parola e non la dicono i presidenti di senato e camera solitamente loquaci rispetto ad altre situazioni anche meno importanti e gravi non se lo merita un futuro. In Italia l’adozione ai gay no ma l’affido al nonno ‘ndranghetista sì. Nessuno ha pensato che fosse una persona inadatta e inadeguata ad occuparsi di un bambino. Miserabili, che siano stramaledetti in questa e nelle loro prossime vite  tutti quelli che hanno ridotto l’Italia in macerie.

Il ministro che non c’è – Massimo Gramellini, La Stampa

Ma l’Italia ce l’ha un ministro dell’Interno? si chiede Antonio Barone nel suo blog sull’Huffington Post. A scandalizzarlo, a scandalizzarci, è il silenzio di Alfano intorno al rogo di Cocò, il bambino di tre anni ucciso e bruciato dalla ’ndrangheta. Quel gesto disumano, che ha cancellato definitivamente l’epica dei cosiddetti «uomini d’onore», scosso le coscienze e ispirato parole infuocate a Claudio Magris, è planato sulle spalle larghe del ministro senza lasciare traccia. In cinque giorni neppure una dichiarazione o un gesto che dessero la sensazione di uno Stato presente e, se non responsabile, almeno consapevole. Evidentemente Alfano considera ordinaria amministrazione che sul territorio italiano si consumino non solo i rapimenti dei familiari di un oppositore kazako, ma anche le mattanze infantili.  La storia di Cocò è ancora più complessa e avvilente per le strutture dello Stato: c’è di mezzo una mamma in galera con cui il piccolo ha convissuto dietro le sbarre, prima di essere affidato da una decisione demenziale al nonno pregiudicato. Ma neanche su questo Alfano ha trovato il tempo di dire qualcosa. Comprendiamo che i tormenti della legge elettorale ingombrino una parte imponente della sua pur vasta intelligenza. E siamo certi che abbia presieduto vertici su vertici per mettere nel sacco gli assassini di Cocò. Ma la politica è comunicazione. Un ministro che parla di listini bloccati e non di un fatto di sangue che ha sconvolto il mondo intero farebbe meglio a presentare le dimissioni. Pubblicamente, però. Altrimenti non se ne accorgerebbe nessuno.  

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“Renziano lo dice a sua sorella” è da Oscar. Questi lorsignori permalosi devono smetterla. I giornalisti fanno i giornalisti, non i piccoli e grandi fans dei politici.

Il rapporto fra quel giornalismo che informa e la politica non è alla pari: perché il giornalismo ha il dovere di raccontare i fatti, anche quando sono spiacevoli per la politica, e il politico non deve e nemmeno per sogno rispondere con altrettante critiche, giudizi o rilasciando  patenti  di appartenenza ma con i fatti e le azioni che possono confutare e smentire ciò che dice il giornalismo. Qui invece i politici sono disabituati a trovarsi di fronte i giornalisti,  soprattutto sono disabituati alle critiche, non le vogliono, gli danno noia, scoprono altarini,  permettono di ricordare episodi che non sono affatto parte del passato, demagogia e retorica qualunquista ma le fondamenta di questo presente. E siccome il passato non lo possiamo cambiare, conoscerlo dovrebbe servire a non ripetere gli stessi errori. Dovrebbe: appunto.

 

“Mediaset è stata una delle società con il maggior rialzo in Borsa nel 2013, + 122%, e in un giorno solo il 19 dicembre +16,4%”.

Se malgrado le vicissitudini giudiziarie di un imprenditore in odor di mafia, quello entrato in politica appositamente per il salvataggio di se stesso dalla galera e delle sue imprese dal fallimento, quello che non pare ma è stato condannato alla galera per frode fiscale [capisco che l’argomento può annoiare ma anche a me irrita oltremodo che un delinquente processato e condannato in via definitiva possa ancora agire e muoversi da cittadino libero e onesto]: il reato che gli ha permesso di accrescere in maniera esponenziale il suo patrimonio le sue aziende continuano a guadagnare e crescere, nonostante e malgrado una crisi che sta uccidendo tutte le altre, significa che lo stato è un complice, altroché quel socio occulto che pretende la marchetta senza farti nemmeno godere che si portano dietro i cittadini italiani, quelli che se violano la legge lo stato non li manda per premio a fare le leggi ma che in galera ci vanno e ci restano.

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LA BANDA DEI DISONESTI – Marco Travaglio, 24 gennaio 2014

Ricapitolando: siccome ogni detenuto sigillato al 41-bis ha diritto di trascorrere le ore di “socialità” con un suo simile per scambiare quattro parole, il Dap e la Dna designano per far compagnia a Totò Riina il capomafia pugliese Alberto Lorusso. La scelta, a posteriori, si rivela infelice perché Lorusso è uno specialista in linguaggi cifrati, con cui riesce a trasmettere fuori dal carcere i suoi messaggi criminali, seguitando a gestire le estorsioni nella sua zona fra Taranto e Brindisi. In ogni caso la Procura di Palermo non viene consultata e decide autonomamente di intercettare Riina, che s’è appena confidato con un agente sulla trattativa con lo Stato: insomma sembra in vena di parlare. Infatti le intercettazioni si rivelano proficue: il boss non parla nella saletta ricreativa del carcere di Opera, temendola imbottita di cimici; invece esterna a ruota libera nel cortiletto esterno, non sospettando di essere ascoltato anche lì, e svela retroscena interessanti e in parte inediti delle stragi e delle trattative con la politica, naturalmente tutti da verificare. Già che c’è, si scaglia con rabbia inestinguibile contro il pm Nino Di Matteo, ordinando di ammazzarlo in una strage modello 1992-’93.

È bene o è male che i magistrati vengano a sapere ciò che dice, auspica e progetta un boss irriducibile che ha sempre rifiutato di collaborare? Ovviamente è bene: le intercettazioni si fanno apposta. Se Riina progetta attentati, lo Stato può far di tutto per sventarli proteggendo le vittime designate. Se dice cose vere e verificabili, aiuta involontariamente la ricerca della verità. Se mente per depistare, i giudici possono scoprire perché lo fa e comportarsi di conseguenza. Chi può mai aver paura delle parole del boss? Nessuno, a parte chi ha la coscienza sporca e i suoi manutengoli.

Infatti Giuliano Ferrara, sul Foglio di casa B., parte subito lancia in resta, anche se non si capisce bene con chi ce l’ha e che diavolo vuole. Non l’ha capito neanche lui, infatti – nell’attesa di capirlo – invoca una commissione parlamentare d’inchiesta: che è comunque il sistema migliore per fare casino e buttare tutto in politica, cioè in caciara. Ieri sul Foglio un tal Merlo domandava pensoso “quale magistrato ha autorizzato le intercettazioni dei colloqui di Riina?”. La risposta – il pm Di Matteo e i suoi colleghi che indagano sulla trattativa – la sanno tutti quelli che seguono anche distrattamente la vicenda, dunque non Merlo. Altra domandona: “Qualcuno ha imbeccato Lorusso per pilotare le risposte di Riina?”. Basta leggere quei dialoghi per accorgersi che Lorusso si limita a chiedere e Riina risponde quel che gli pare. Terza domanda a cazzo: “Possibile che nessuno si attivi per difendere la presidenza della Repubblica mostrificata nelle parole del capomafia?”. Di grazia, chi dovrebbe difendere il Quirinale? E come? E da chi? Boh. “Il ministero della Giustizia tace”. E che potere ha il ministero di impicciarsi in un’indagine in corso? Le risposte sono affidate a un tal Buemi del Pd, quello che si opponeva alla decadenza di B. e che ora delira di un imprecisato “clima di linciaggio nei confronti delle istituzioni”.

In realtà Riina non lincia affatto Napolitano, anzi lo elogia, lo esorta a non testimoniare sulla trattativa e invita i suoi corazzieri ad assestare altre “mazzate nelle corna a questo pm di Palermo”. Dunque di che linciaggio parla questo tizio? Da parte di chi? In che senso? Boh. Sempre sul Foglio interviene Massimo Bordin convinto che, se Riina dice a Lorusso che bisogna ammazzare Di Matteo, allora Di Matteo è “beneficiario dell’operato” di Lorusso e Riina “supporta” il pm che vuole far saltare in aria. Bordin naturalmente raccomanda una scrupolosa verifica delle fonti e delle date. Infatti chiama Lorusso “Lo Verso”. Come Totò che, ne La banda degli onesti, chiama l’amico Giuseppe Lo Turco (Peppino De Filippo) Lo Turzo, Lo Curto, Turchesi, Turchetti, Lo Tripoli, Gianturco, Lo Struzzo, Lo Sturzo, Lo Crucco e Lo Truzzo. E questi sono gli esperti. Poi ci sono anche gli ignoranti.

Tana libera [quasi] tutti

Ultim’ora: Telefonate Napolitano-Mancino: “Pg chiede proscioglimento per pm Di Matteo”

 

L’incompetenza in ogni dove e poi si pretende la precisione scientifica col risvolto culturale da chi va a manifestare; ovvio che non si può condividere niente con chi per denunciare un disagio inneggia alla mafia e si mette sottobraccio ai fascisti, ma questo fatto che dal cittadino si pretende il comportamento esatto sempre  pena tuttoquanto e alla politica si concede sempre la licenza di fare cazzate a ripetizione non è più sopportabile.
Il dramma delle carceri esiste da almeno vent’anni, e tutto quello che sa fare la politica è il provvedimento ‘eccezionale’ ogni tot di anni, col risultato di non risolvere nessun problema ma al contrario di accentuarne altri così come è successo con  quell’indulto di cui hanno usufruito anche le bestie assassine di Federico Aldrovandi e i massacratori del G8. Senza l’indulto quelle sentenze avrebbero avuto tutt’altri esiti. Per non parlare delle licenze premio destinate e concesse ai serial killer. Un assassino seriale, totalmente infermo di mente in questo paese può ricevere il trattamento di favore perché il direttore del carcere dove è detenuto non era nemmeno a conoscenza dei suoi precedenti: la competenza prima di tutto.
Una società civile lo è anche quando la separazione fra onesti e delinquenti è netta, e non lascia spazio a nessuna interpretazione: chi ruba, ammazza, stupra, froda lo stato per i suoi interessi non è uguale a chi non lo fa.

E uno stato civile, sebbene garantendo diritti e tutela anche a chi viola la legge questo non lo può dimenticare. Anzi, lo dovrebbe proprio esaltare. E la politica tutto può fare fuorché indignarsi dei suoi stessi fallimenti.
La bonino che sgrana gli occhi davanti agli orrori di Lampedusa è la stessa che non ha fatto un plissé quando il governo di cui fa parte ha riconfermato angelino alfano dopo la deportazione di madre e figlia kazake. Mentre in un paese normale avrebbe dovuto fare le valigie pure lei.
Questi non conoscono il benché minimo significato della parola RESPONSABILITA’. Soprattutto delle loro.
L’amnistia concessa in emergenza, così come l’indulto, questo svuotacarceri di cui all’estero, nei paesi normali, non esiste traduzione, i decreti catalogati come “eccezionali” perché servono a tappare buchi ma non ad aggiustare la frana sono un fallimento dello stato i cui rappresentanti dovrebbero tenere gli occhi bassi e tacere, almeno.

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Visto che 7000 detenuti stanno per ricevere un bel regalo di natale che consiste nell’anticipazione della loro libertà, sarebbe carino se anche a Nino Di Matteo venisse restituita un po’ della sua. 

Cancellare il provvedimento disciplinare che lo riguarda sarebbe un bel gesto che il presidente della repubblica in qualità di capo del CSM potrebbe fare, se volesse. 
E, visto che ad oggi ancora non si è degnato di dire una parola nel merito delle minacce di morte al giudice Di Matteo, sarebbe anche un bel modo per farci dimenticare almeno in parte il precedente di un capo dello stato che si preoccupa e si è preoccupato – molto – della sorte dei delinquenti veri [soprattutto uno: il più delinquente di tutti] ignorando e fregandosene apertamente di quella di chi i delinquenti li combatte da una vita.

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Forche & Forconi – Marco Travaglio, 19 dicembre

Grande esultanza e complimenti vivissimi sta suscitando il decreto svuotacarceri Cancellieri-2, il terzo in tre anni dopo l’Alfano e il Cancellieri-1, varato dalla ministra dei Ligresti per liberare 7 mila criminali nei prossimi 12 mesi. La leggenda metropolitana inventata per giustificarlo è che così l’Italia non verrà più condannata dalla Corte europea che ci ha dato tempo fino al maggio 2014 per metter fine alle condizioni disumane dei 67 mila detenuti stipati in 47 mila posti-cella (solo teorici: quelli effettivi sono meno di 40 mila). In realtà l’Italia verrà condannata lo stesso: per scendere a 47 mila detenuti bisognerebbe liberarne 20 mila, uno su tre, e non farne entrare più nemmeno uno. Cioè pregare i criminali di astenersi dal delinquere fino al termine della legislatura o, in alternativa, ai giudici di andarsene in ferie o, se proprio vogliono lavorare, di assolvere tutti i colpevoli. Anche chi considera questa classe politica un pericoloso branco di cialtroni stenta a credere che il decreto Cancellieri possa davvero diventare legge dello Stato. E chi non stenta a crederlo è solo perché non lo conosce. Fra le geniali invenzioni partorite dalla ministra, oltre al regalino dei braccialetti elettronici obbligatori a Telecom (di cui è direttore finanziario il pargolo Piergiorgio Peluso), spiccano due norme ai confini della realtà. La prima è l’innalzamento da 3 a 4 anni delle pene (totali o residue) che i condannati potranno scontare comodamente in libertà, con la simpatica formula “affidamento in prova ai servizi sociali”. Oggi, in base alla legge Gozzini, chi deve scontare 3 anni o meno, resta fuori o, se è dentro, esce. I classici ladri di polli? No, la stragrande maggioranza dei condannati, visto che in media le pene irrogate dai tribunali, anche per reati gravi (soprattutto quelli finanziari e tipici dei politici e dei colletti bianchi), sono inferiori ai 3 anni. Siccome poi i reati commessi fino a maggio 2006 sono coperti dall’indulto di 3 anni, non fanno un giorno di carcere i condannati fino a 6. E, per meritare pene superiori ai 6 anni, bisogna proprio sparare o trafficare quintali di droga. Ora, non bastando questo formidabile bonus impunitario, la ministra ha previsto che resti o torni libero chi di anni ne deve scontare 4. Compresi i condannati a 7 anni per reati pre-2006. Per quelli che non riuscissero a farla franca con quel sistema, ecco la seconda ideona: l’innalzamento della “liberazione anticipata” da 45 a 75 giorni a semestre. Oggi il detenuto che si comporta bene (cioè non si comporta male: non scanna né stupra il compagno di cella) si vede detrarre 3 mesi di pena ogni 12. Ora, siccome non basta ancora, lo sconto sale a 5 mesi su 12. Immaginiamo la scena di un processo qualunque: dopo una decina d’anni passati fra indagini, interrogatori, perizie, rogatorie, arresti, perquisizioni, sequestri e intercettazioni, e poi udienza preliminare, e poi i dibattimenti di primo, secondo e terzo grado, spendendo un occhio e impegnando decine fra agenti, magistrati, cancellieri, segretarie, avvocati e così via, i giudici riescono finalmente a emettere la sentenza definitiva. Che, in caso di condanna, ammonta mediamente a 2-3 anni di pena. Mentre il presidente legge solennemente il dispositivo in nome del popolo italiano, l’avvocato dà di gomito al condannato: “Tranquillo, Jack, il giudice ha detto 3 anni, ma è tutto finto: 36 mesi vuol dire 21 e 21 vuol dire che non fai un giorno di galera. Però mi raccomando, non scordarti il braccialetto”. E Jack, asciugando il sudore dalla fronte con un sospiro di sollievo: “Ah meno male, avvoca’, chissà che mi credevo. Ho sempre pensato che il crimine paga. Ma, a furia di sentire ‘ sti politici parlare di ‘ certezza della pena’, quasi quasi ci cascavo anch’io”. Intanto la vittima se ne va schiumante di rabbia: “Se si rischia così poco, la prossima volta non lo denuncio: gli spacco direttamente la faccia”. 
Sono i risultati dal garantismo all’italiana: predica bontà e sotto sotto lavora per la forca.

La libertà non si dice: si fa. Come la verità

Ci sarebbe da chiedersi chi ha interesse che vengano diffusi i messaggi di un mafioso assassino che dovrebbe vivere in una condizione di isolamento totale ma che invece può dare direttive su chi deve vivere o morire secondo i suoi desiderata. 
Per quale motivo possono [devono?] uscire dal carcere le minacce di morte di Riina, condannato al 41 bis espresse durante l’ora d’aria mentre conversava amabilmente col collega della sacra corona unita, a Nino Di Matteo.
In queste situazioni la mente vacilla: non riesco più ad essere così convinta che il diritto, quello vero e puro debba essere applicato anche a gente come Riina.

Nuove minacce di Riina a Di Matteo

Mafia, Totò Riina minaccia di nuovo pm Nino Di Matteo

“Questo Di Matteo non ce lo possiamo dimenticare. Corleone non dimentica”. Così il 14 novembre il boss si è rivolto così a un uomo d’onore della Sacra Corona Unita con cui condivide l’ora d’aria. [Il Fatto Quotidiano]

Morto Mandela, l’eroe del Sudafrica
‘Ha vissuto per un ideale e l’ha reso reale’ 

PRIGIONIA, LIBERAZIONE E RINASCITA DEL PAESE – STORIA DI MADIBA (di Andrea Pira)

Nelson Mandela, una vita passata ad insegnare l’amore

Se tutti quelli che hanno detto e che diranno [purtroppo] di aver preso esempio da lui lo avessero fatto davvero, questo sarebbe il migliore dei mondi possibili. Il fatto che invece non lo sia nonostante un uomo come lui, che avrebbe dovuto essere un esempio nei fatti e non nelle tante belle e vuote parole significa che la libertà alla fine non è quel bene assoluto per il quale ognuno di noi si dovrebbe impegnare ogni giorno. 
Vuol dire che anche la libertà si può negoziare, sacrificare a beneficio e vantaggio di qualcos’altro. 
Lui non lo ha fatto, e per un’idea di libertà vera ha preferito sacrificare se stesso e ventisette anni della sua vita che nessuno gli ha mai più restituito. 

E’ tutto infinitamente più piccolo e più misero oggi. Come ogni volta che se ne va qualcuno che non verrà sostituito da nessuno. Perché il dramma non è la morte, è che la società attuale non ha prodotto gli eredi di un Gigante dell’umanità qual è stato Nelson Mandela.

Unico, magnifico Nelson Mandela: nessuno come lui.

 

Pinochet si scrive tutto attaccato: come guerra e mafia

Sottotitolo: “mentre sellini e piddini di ogni latitudine e longitudine si divertono a deridere un’ignorantona del M5S che ha confuso «Pinochet» con «Pino Chet», voglio far presente che il Pd – futuro alleato dei silenti sellini – ha votato quest’oggi [ieri: nota di R_L]  per la prosecuzione della guerra in Afghanistan.[Pasquale Videtta]

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«A DI MATTEO GLI FACCIO FARE LA STESSA FINE DI FALCONE» 

L’ULTIMO RICATTO DEL BOSS STANCO 

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Totò Riina fa sapere che il giudice Nino Di Matteo gli dà fastidio, lo fa diventare matto e per questo deve morire. Lui e tutti quelli che si stanno occupando della trattativa fra lo stato italiano e la mafia. Nessun sostegno da parte delle istituzioni. E dire che alla presidenza del senato c’è un signore che faceva il procuratore antimafia. Per non parlare di Napolitano che in qualità di capo del CSM dovrebbe proteggere e tutelare i giudici, non bacchettarli di continuo perché hanno osato disturbare la carriera di un delinquente seriale.

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Qualche illuminato amatore della bella politica tradizionale pensa che continuare a parlare nei talk show degli sprechi e dei privilegi nella politica sia inutile, che ormai sappiamo tutto e continuare a mestare nel torbido alimenti solo quello che i soloni definiscono populismo.

Io no, non lo penso invece, perché non è cambiato nulla da quando i coraggiosi Rizzo e Stella hanno dato alle stampe le oscenità che hanno contribuito in larga parte allo sfascio del paese, non solo quello economico ma soprattutto evidenziando una politica priva del benché minimo senso etico e di quella umanità che aiuterebbe ad avvicinarsi alle realtà drammatiche che molti cittadini devono vivere quotidianamente mentre la vita, la bella vita dei politici si è mantenuta sullo stesso tenore. Nulla è cambiato per loro, per i bravi rappresentanti dello stato e della politica.

A loro non è stato tolto niente semplicemente perché come spiegava ieri sera Gomez da Paragone su la7 un regime che si fonda sull’oligarchia se cade si porta dietro tutti, quindi è impensabile che questa politica farà quelle leggi che indebolirebbero un regime che in tempi di crisi, di disperazione, di suicidi ha fatto in modo che in questo paese nel 2012 127.000 persone sono potute entrare nella categoria dei milionari.

Ed è facile immaginare che questo sia stato possibile solo speculando sulla povertà che avanza. E i nuovi poveri non possono nemmeno contare sull’aiuto dello stato che su di loro infierisce, pretende comportamenti esatti ma i cittadini no, non li possono né li devono pretendere dalla politica pena l’accusa di populismo e qualunquismo.

I cittadini non devono né possono nemmeno pretendere che quella legge uguale per tutti venga applicata anche sul potente prepotente quando è anche delinquente. Da 105 giorni c’è un pregiudicato condannato che latita alla luce del sole col consenso dello stato, delle istituzioni e della politica solo perché anche lui fa parte di quell’oligarchia e di questo regime che al potente tutto sconta e perdona ma al cittadino no.

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DECADENZA IL 27 NOVEMBRE? NO, SI VA VERSO L’ENNESIMO RINVIO 

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Nausea con monito – Marco Travaglio – 14 novembre

Anziché seguitare a trafficare intorno al giudice Antonio Esposito, cercando ogni pretesto per punirlo, il Csm potrebbe dire chiaramente ciò che abbiamo capito tutti. Esposito si è reso “divisivo” perché ha osato fare ciò che nessuno aveva mai fatto: condannare definitivamente Silvio Berlusconi. Diversamente da plotoni di toghe che, al primo cenno del Quirinale, si mettono sull’attenti e sospendono processi, interrompono requisitorie, si bevono impedimenti-farsa, congelano udienze, rinviano camere di consiglio, Esposito ha obbedito soltanto alla legge. Come presidente della sezione feriale della Cassazione, ha emesso la sentenza del processo Mediaset il 2 agosto, prima che scattasse la solita prescrizione. E così ha disturbato la “pacificazione” ordinata da Napolitano e Letta jr. per tener buono il Caimano. Dunque bisogna trovare il modo di punirlo, anche se non ha fatto altro che il suo dovere, anzi proprio per questo. Il pretesto è noto: l’intervista apparsa sul Mattino il 6 agosto, intitolata “Berlusconi condannato perché sapeva”. Peccato che, nel testo concordato col giornalista, Esposito non parlasse mai di B.. Peccato che la domanda su B. fosse stata aggiunta dopo, senza il suo consenso, appiccicata a una risposta sull’infondatezza del “non poteva non sapere” nei processi. Peccato che le motivazioni depositate il 29 agosto siano totalmente diverse dai princìpi enunciati nell’intervista. Ma non è bastata la prova provata che Esposito non ha mai anticipato le motivazioni della sentenza Mediaset. Il Csm ha aperto un procedimento per trasferirlo d’ufficio (e dove, di grazia, visto che la Cassazione è competente su tutt’Italia?). E il Pg ha avviato un’istruttoria disciplinare. Due iniziative che hanno alimentato il linciaggio sugli house organ della Banda B. Ma due iniziative illegali. La prima perché il trasferimento d’ufficio dipende da situazioni incolpevoli di incompatibilità ambientale, che prescindono dalle condotte volontarie (come le le interviste). La seconda perché la legge che regola i procedimenti disciplinari, la 269/2006, ritiene illecite solo le “dichiarazioni o interviste che riguardino soggetti coinvolti negli affari in corso di trattazione ovvero trattati e non definiti”. E il processo Mediaset era già definito con sentenza definitiva. Ed Esposito non aveva neppure nominato il “soggetto coinvolto” (ma, se l’avesse nominato, non avrebbe commesso illeciti ugualmente).

Nei giorni scorsi Esposito ha appreso dai giornali, che riprendevano un lancio di agenzia, che la sua pratica di trasferimento stava per essere archiviata, e con quale motivazione. Bel paradosso: il Csm anticipa a mezzo stampa la sentenza su un giudice accusato di aver anticipato a mezzo stampa una sentenza. Il relatore ha smentito di averla spifferata lui. Ma ieri s’è scoperto che il verdetto corrisponde alle indiscrezioni. Dunque qualcuno dal Csm l’ha fatto uscire prima. Peccato che l’interessato non ne sapesse nulla: del resto non l’hanno neppure ascoltato per consentirgli di difendersi. Alla fine, con 17 Sì, 2 No e 5 astenuti, il Plenum ha deciso di non trasferirlo. Ma ha trovato comunque il modo di sputtanarlo: “Il comportamento può integrare profili disciplinari, deontologici e professionali, da affrontarsi eventualmente nelle sedi competenti”. Anche se la legge non lo prevede. Perché fosse tutto ancor più chiaro, i signori del Csm hanno infilato nella delibera l’ultimo monito di Napolitano alle toghe: “misura e riservatezza“, niente “fuorvianti esposizioni mediatiche” né “atteggiamenti protagonistici e personalistici”. Come se i moniti valessero più delle leggi. Immediata l’esultanza del laico del Pdl Niccolò Zanon, che è pure uno dei 35 saggi ricostituenti di Letta & Napolitano: “Il lato positivo è che la delibera parla di aspetto disciplinare. Speriamo che la Procura generale faccia quello che deve fare”. Se si danno da fare, magari riescono a punire il giudice innocente prima che decada il pregiudicato colpevole.

8 marzo: e allora?

Considerare l’otto marzo un’appendice del carnevale è un po’ come anticipare il veglione di capodanno al due novembre.
Io m’arzo e l’otto tutti i giorni, da tutta la vita.
Magari bastasse solo un giorno l’anno; da metterci la firma.
E trovo sconcertante, perfino offensiva questa specie di schiavitù legata ad una data, un giorno in cui BISOGNA riflettere, BISOGNA ribadire che dignità e rispetto devono essere tali ogni giorno. BISOGNA dire ancora e ancora che l’otto marzo non è una festa, BISOGNA, nel terzo millennio, spiegare l’origine di una data perché tanta gente fra cui molte donne non lo sanno né mai è venuta loro la curiosità di andare a scoprire il perché di questa giornata. 
E non lo sanno spiegare nemmeno alle figlie di oggi, quelle che stasera andranno in una discoteca o in un ristorante per sentirsi libere.
Lo scrivo ogni anno da tanti anni: il mondo cambierà davvero quando nessuno avrà più la necessità di collegare un giorno ad una cosa qualsiasi, fatta eccezione che il proprio compleanno.

Non mi sento una donna – vittima, e per fortuna la maggior parte delle donne italiane non lo sono.  Questa faccenda di essere considerate O troppo maltrattate O una specie da mettere sotto protezione mi è sempre stata stretta. Personalmente non mi sono mai sentita inferiore a nessuno, uomini o donne che fossero.

E penso che  accentuare una condizione situazione femminile che pure esiste ma in una misura che rientra nello standard europeo e internazionale, se parliamo di democrazie civili e non certo di quei paesi dove il tempo si è fermato all’età della pietra, alla fine temo che si trasformi in qualcosa di controproducente soprattutto per noi donne. Non insegniamo alle nostre figlie ad avere paura degli uomini, e ai maschi spieghiamo quanto è bello e gratificante un rapporto alla pari dove non c’è bisogno di un giorno particolare per esigere rispetto. 

Trattativa, dieci rinvii a giudizio
Ora lo Stato processa se stesso

Tra il marzo e il maggio del 1992 l’ex ministro Maninno era stato inserito nella black list di politici stilata da Riina. A far saltare gli equilibri la decisione della Cassazione sul primo maxiprocesso: carcere a vita. S’infrange quel muro d’impunità garantito dalle cointeressenze politiche. È il 30 gennaio del 1992: una data che cambia la storia d’Italia.

 

Ma Il Fatto raccontava balle no? era contro lo stato e contro Napolitano. E Ingroia ci ha fatto sapere giorni fa  Michele Serra tramite La Repubblica, quotidiano di sinistra, sta bene in Guatemala.
Vergogne senza fine, e sono tutte italiane.

Rifondazione comunista è stato l’unico partito a costituirsi parte civile nel processo sulla trattativa stato mafia.

Quindi  significa che a tutti gli altri, e non parlo della destra per ovvi motivi di conflitto di interessi, la questione stato mafia non sembrava una cosa così grave? non interessa alla politica che si appresta a diventare prima forza di governo che pezzi dello stato abbiano trattato con l’associazione criminale denominata MAFIA? c’era altro a cui pensare o il paese non è pronto ad essere governato solo dallo stato e non anche, in certi casi soprattutto, dalla mafia?

La Norimberga italiana
Marco Travaglio, 8 marzo

Ieri è stato un gran giorno per la Giustizia in Italia: il gup di Palermo Piergiorgio Morosini ha deciso che il processo sulla trattativa Stato-mafia si farà. E a carico di tutti gli imputati per i quali la Procura aveva chiesto il rinvio a giudizio: sei per lo Stato (Mannino non c’è perché ha scelto il rito abbreviato) e cinque per la mafia (il sesto, Provenzano, sarà giudicato se e quando le sue condizioni di salute lo permetteranno). E a giudicarli non sarà un semplice Tribunale, ma la Corte d’Assise: il reato più grave, infatti, è quello contestato a Provenzano, che deve ancora rispondere del delitto Lima, al quale sono appesi per connessione i reati di tutti gli altri imputati: la “minaccia a corpo dello Stato” contestata a tutti tranne uno, l’ex ministro Mancino, che risponde di falsa testimonianza. Dunque, per la prima volta nella storia, uomini di Stato e di mafia compariranno nella stessa aula, dinanzi a due giudici togati e a sei giudici popolari estratti a sorte fra i cittadini italiani. Così la sentenza sarà fino in fondo “in nome del popolo italiano”. Per la Procura di Palermo, in particolare per i pm Ingroia, Di Matteo, Sava, Delbene e Tartaglia che hanno condotto le indagini, è un successo pieno, il massimo riconoscimento della bontà del loro lavoro. Un lavoro ostacolato da depistaggi e interferenze istituzionali, ricatti, omertà, amnesie, bugie, attacchi politici trasversali, campagne giornalistiche di ogni colore, ostilità e veleni perfino dai vertici della Cassazione, del Csm e dell’Anm. Un coro belante, anzi ringhiante che ha affratellato tutti i poteri contro la ricerca della verità, con pochissime eccezioni di cui il Fatto si onora di far parte, al fianco dei parenti delle vittime che da 21 anni chiedono Giustizia. Ci sarà tempo per discutere gli aspetti giuridici di quello che s’annuncia come il processo del secolo, la Norimberga della Prima e della Seconda Repubblica, perché riguarda le trame del biennio orribile 1992-’94 che orientarono il passaggio di regime col solito sistema del Gattopardo. Trame che impedirono all’Italia di rinnovarsi, come tanti avevano sperato avvenisse dopo Mani Pulite e la Primavera di Palermo seguita alle stragi. Trame che riconsegnarono lo Stato e i suoi governi sotto il ricatto di Cosa Nostra, dopo il venir meno del patto di convivenza-connivenza che aveva retto dal dopoguerra alla sentenza del maxiprocesso in Cassazione il 30 gennaio ’92. In attesa di sapere se esistono le prove per condannare gli imputati per i reati a loro ascritti (il Gup le ha giudicate sufficienti per giustificare un processo, il che non è poco), abbiamo le prove che la trattativa Stato-mafia ci fu, e servì a salvare la pelle a tanti politici terrorizzati dal delitto Lima al costo di sacrificare la vita di Borsellino, della scorta, dei cittadini caduti a Milano e Firenze. I fatti sono certi (anche se nessuno li racconta): il processo dovrà stabilire se sono anche reati. Mancano, come sempre, i mandanti più alti, anche se la tresca Mancino-Quirinale di un anno fa la dice lunga sul livello di consapevolezza di quel che avvenne e dev’essere coperto. Il gup Morosini cita le fonti di prova, tra cui la sentenza definitiva di Firenze sulle stragi del ’93, che spazza via tutte le tartuferie sulla “presunta trattativa” e mette nero su bianco che sulla trattativa (senz’aggettivi dubitativi) “non possono esservi dubbi di sorta”. È qui l’estrema attualità dei fatti di 20 anni fa che inquinano tuttoggi la politica, e seguiteranno ad avvelenarla finché l’ultimo traditore che trattò o coprì resterà nelle istituzioni. Quello che si apre a Palermo è anche il processo a una vecchia politica che non vogliamo vedere mai più: la politica del doppio gioco, del dire una cosa e fare il contrario, del combattere Cosa Nostra non per sconfiggerla, ma per contenerla e all’occorrenza usarla. Ora che quel doppio Stato, anzi quello Stato doppio è alla sbarra con i suoi degni compari mafiosi, deve farsi avanti l’altro Stato: quello dei magistrati e dei cittadini onesti.

Oh my God, mon Dieu, mioddio…

 

  …è urgentissima una nuova legge salvadelinquenti e non so cosa mettermi! (a parte indossare le solite incommensurabili facce come il culo).


Firmato: uno qualsiasi di deputati, onorevoli e senatori che stanno accelerando su quella che pare essere davvero l’urgenza primaria di un paese allo sfascio e sulla quale chi di dovere,  naturalmente,  non esiterà ad apporre il  suo sigillo,  pietra tombale  sull’ultimo residuo di speranza per ripulire le istituzioni da tutto il luridume presente nelle stesse.

L’urgenza con cui anche i ministri del governo cosiddetto tecnico si stanno occupando delle intercettazioni è l’ulteriore conferma che chi diceva che l’interesse primario della politica è salvaguardare se stessa aveva ragione. Che difendere strenuamente le istituzioni anche quando non andrebbero e non vanno difese significa soltanto dare legittimità a tutte le caste e sottocaste, cricche e associazioni a delinquere che hanno dissanguato e impoverito l’Italia, che le hanno tolto dignità, diritti, che hanno lavorato alla distruzione di giustizia e legalità – dunque della democrazia stessa. Stare dalla parte opposta, rifiutare questo scempio a getto continuo è un dovere civile, oltre che morale.

 

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Intercettazioni, pressing del Pdl per il Bavaglio. E il Csm “si adegua” al Colle

Se il primo sostenitore di una legge liberticida come questa è nientemeno che – con viva & vibrante soddisfazione – il presidente della repubblica, quindi si presume di uno stato democratico, siamo messi bene in Italia. In ottime mani.

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Roma, ex banda Magliana consulente del Comune. Il Pd: “Sconvolgente”

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Sottotitolo: in un paese con un parlamento composto in larga parte (e sarebbe troppo anche se ce ne fosse uno solo con certi requisiti) da inquisiti, indagati, pregiudicati, condannati, mafiosi, amici dei mafiosi, corrotti, corruttori, ex terroristi rossi & neri quindi complici diretti e indiretti di tutte le stragi avvenute in Italia – quelle che non è mai colpa di nessuno – tutta gente che contribuisce alla stesura e alla realizzazione di leggi che dovranno rispettare anche i cittadini onesti, senza precedenti penali, la cosiddetta opposizione si sconvolge (dopo quattro anni!) perché alemanno ha assunto un ex fiancheggiatore dei nar nonché di un’associazione criminale sanguinaria: la banda della magliana – che collaborava attivamente con l’eversione nera nei “favolosi” anni di piombo – al suo servizio. Come se i romani, quando hanno votato alemanno per dispetto (perché dall’altra parte c’era rutelli) non sapessero chi era alemanno: anche lui un ex picchiatore fascista, uno che andava a tirare bombe molotov alle ambasciate e che fu condannato ad otto mesi di galera per questo.  Se i tempi di sconvolgimento del pd sono questi stiamo a posto, che faceva l’opposizione in giunta comunale fino a ieri l’altro, di che si occupava?

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Trattativa, parla il pentito Mutolo: “Stato e mafia da sempre a braccetto”

E’ stato l’autista di Riina: “Dopo l’arresto sono andati a casa sua, c’erano cose che inguaiavano i politici, hanno fatto finta di nulla. Senza di noi non ci sarebbe stata la Dc e nemmeno Berlusconi. Ingroia lo mandano in Guatemala, lui sa che è meglio così.”

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In un paese normale cicchitto (tessera p2 2232, data di iniziazione 12 dicembre 1980) non potrebbe fare la morale a nessuno. Figuriamoci a Magistrati e giornalisti che indagano sulla mafia e quella parte di stato, quello sì, eversore, che fiancheggia(va) l’associazione a delinquere, sovversiva, quella che allo stato si voleva sostituire, del venerabile criminale di cui faceva parte – non da solo ma con illustri compagni di grembiulino e cappuccio come silvio berlusconi (tessera 1816) – il moralizzatore de’ noantri.
In un paese normale fatto di gente normale non si critica un Magistrato come Ingroia disonorando nemmeno troppo indirettamente la memoria di Falcone e Borsellino che avevano lo stesso progetto di Ingroia, cioè ripulire il paese e le istituzioni da mafiosi e delinquenti mascherati da uomini dello stato, solo perché  i giornalisti e i giornali che si occupano di queste faccende sono antipatici.
In un paese normale fatto di gente normale nessuno, nemmeno il presidente della repubblica si può permettere di usare la morte naturale di un uomo come alibi alla negazione della trasparenza e della verità e nessun ministro la prenderebbe a pretesto per lo stesso motivo parlando di “sofferenze” di “pesi insopportabili”: le sofferenze e i pesi insopportabili sono altri, sono stati altri, ad esempio quelli di chi ha perso figli, fratelli, sorelle, madri, padri, amici in una qualsiasi delle stragi italiane, mafiose e non, di cui, forse per ragion di stato? non si trovano mai i colpevoli.
In un paese normale, fatto di gente normale ci si vergognerebbe di portare avanti le stesse teorie di cicchitto, gasparri, sallusti, belpietro, la santanché, solo per fare un dispetto a chi non pensa, dice e scrive le stesse abominevoli cose che pensa e – purtroppo – dice e scrive gente di quello spessore morale/culturale/intellettuale.
In un paese normale certi ex magistrati prestati alla politica dovrebbero guardare con più rispetto i loro ex colleghi e chi al loro fianco lavora, dunque anche i giornalisti, soprattutto quelli che non hanno pensato fosse più utile per il paese andare a scaldare i cuscini di uno scranno parlamentare anziché restare in prima linea.

Come ha fatto Ingroia.

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Bavaglio rosso
Marco Travaglio, 29 luglio

Capita di tutto, nel manicomio chiamato “politica”. Anche di ricevere lezioni di giornalismo da Luciano Violante. Il quale, sul bollettino del Pd chiamato Unità, rimbecca Sergio Rizzo del Corriere per aver detto, a proposito del caso D’Ambrosio, che “i giornalisti si limitano a riportare i fatti che accadono”. “Non sono d’accordo – ribatte Violante -. Il giornalista non è un cane da riporto” e “la notizia ha un significato diverso a seconda del modo in cui è data”. Però, che genio. Meno male che c’è lui, perchè non ci aveva mai pensato nessuno. Ma le scoperte non sono finite: “Nella società dei mezzi di comunicazione è possibile che il comunicatore non abbia alcuna responsabilità professionale? Egli forma l’opinione pubblica, a nascere giudizi e schieramenti. Può distruggere la reputazione di un uomo o creare un mito”. Infatti, negli anni 70, un modesto magistrato torinese divenne un mito per la sinistra grazie ai mezzi di comunicazione (“cani da riporto”?) che enfatizzarono una sua inchiesta su un golpe inesistente, dopodichè entrò in politica e non ne uscì più. Si chiamava Violante. Ora, siccome qualcuno critica lui e i suoi amici, intima ai giornalisti di “porsi con urgenza il problema di come dare le notizie rispettando la dignità dei cittadini”. E propone, tanto per “cominciare”, la “messa al bando del ‘giornalismo di trascrizione’, che consiste (caso unico nel panorama della stampa dei Paesi democratici) nel trascrivere ore e ore di telefonate”, il tutto per “formare un’opinione pubblica che si nutra di notizie e di commenti, non di veleni”.Ora, a parte il fatto che le intercettazioni, anche quando riguardano la vita privata, si pubblicano in tutto il mondo, tranne la Russia di Putin e l’Ucraina di Lukashenko, non è ben chiaro in che senso le intercettazioni giudiziarie come quelle sulla trattativa Stato-mafia siano “veleni” e non “notizie”. I veleni sono insinuazioni gratuite, illazioni infondate, sospetti sul nulla:quanto di più lontano esista dal pubblicare testualmente ciò che un personaggio pubblico dice. L’idea che trascrivere le parole testuali di una persona significhi automaticamente “distruggerne la reputazione”, è frutto della mente malata di chi dà per scontato che tutti dicano o facciano sempre e comunque cose sbagliate, sconvenienti, scandalose. “Omnia munda mundis e omnia sozza sozzis”, direbbe Massimo Fini. Se uno parla bene e agisce bene, non ha alcun timore di veder pubblicate le sue parole e azioni,com’è doveroso che avvenga se è un personaggio pubblico. Contro chi “distrugge reputazioni” e sparge “veleni” esiste già il reato di diffamazione a mezzo stampa. E contro le violazioni della riservatezza c’è una stringentissima legge sulla privacy. Questi, e solo questi, sono e devono essere i limiti del giornalista a tutela della “dignità dei cittadini”. Per il resto, tutto ciò che è di interesse pubblico va pubblicato senza censure né violanterie. Ma è evidente che l’ammucchiata ABC, anzi BBC, che si propone di ammorbarci anche nella prossima legislatura e non a caso tiene sotto tiro i pochi non allineati (vedi il linciaggio contro Di Pietro e Grillo, più a sinistra che a destra), ci sta apparecchiando un bel bavaglio rosso, identico a quello berlusconiano ma molto più ipocrita in quanto sfrutta la morte per infarto di D’Ambrosio. Un membro del Csm affiliato a Md, Nello Nappi, invoca la secretazione delle intercettazioni penalmente irrilevanti che oggi perdono la segretezza appena messe a disposizione delle parti processuali. Non solo di quelle del capo dello Stato, ma di tutte. E’ l’antipasto dell’inciucione prossimo venturo. Naturalmente noi del Fatto, piaccia o no ai Violante e ai Nappi, continueremo a pubblicare tutto ciò che interessa ai cittadini, anche a costo di farlo da soli. O di finire sotto processo in virtù di nuove leggi liberticide: la Corte europea spazzerà via bavagli e bavaglini italioti, azzurri o rossi che siano.

 

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Diaz, la verità di Canterini: “Fu una rappresaglia, vidi facce assetate di sangue”

Fabrizio Corona, ricattatore/estortore di professione esce di galera e scrive un libro, capitan Schettino fa affondare una nave causando la morte di decine di persone NON va in galera e scrive un libro, Vincenzo Canterini, uno dei responsabili del massacro del G8 non solo NON va in galera ma la sua condanna virtuale viene anche ridotta e scrive un libro pure lui. Ma come è facile in Italia trovare editori che accettino di pubblicare “opere prime” (e speriamo anche ultime) di cotanti autori che sicuramente qualche imbecille compra e legge (siamo italiani mica per niente). In questo paese tutto quello che non si vede in tv non c’è e non esiste, ora si è inaugurato un nuovo trend: quello delle ‘verità’ rivelate attraverso la carta stampata di un libro. Tutti possono scrivere un libro e tutti trovano puntualmente l’editore che anziché cacciar via questi disertori del salotto di vespa a calci in culo gli offrono collaborazione a sprezzo del ridicolo unicamente per operazioni commerciali. La rivoluzione culturale italiana passa anche per i libri di Corona e di Schettino: sono soddisfazioni.