8 marzo: e allora?

Considerare l’otto marzo un’appendice del carnevale è un po’ come anticipare il veglione di capodanno al due novembre.
Io m’arzo e l’otto tutti i giorni, da tutta la vita.
Magari bastasse solo un giorno l’anno; da metterci la firma.
E trovo sconcertante, perfino offensiva questa specie di schiavitù legata ad una data, un giorno in cui BISOGNA riflettere, BISOGNA ribadire che dignità e rispetto devono essere tali ogni giorno. BISOGNA dire ancora e ancora che l’otto marzo non è una festa, BISOGNA, nel terzo millennio, spiegare l’origine di una data perché tanta gente fra cui molte donne non lo sanno né mai è venuta loro la curiosità di andare a scoprire il perché di questa giornata. 
E non lo sanno spiegare nemmeno alle figlie di oggi, quelle che stasera andranno in una discoteca o in un ristorante per sentirsi libere.
Lo scrivo ogni anno da tanti anni: il mondo cambierà davvero quando nessuno avrà più la necessità di collegare un giorno ad una cosa qualsiasi, fatta eccezione che il proprio compleanno.

Non mi sento una donna – vittima, e per fortuna la maggior parte delle donne italiane non lo sono.  Questa faccenda di essere considerate O troppo maltrattate O una specie da mettere sotto protezione mi è sempre stata stretta. Personalmente non mi sono mai sentita inferiore a nessuno, uomini o donne che fossero.

E penso che  accentuare una condizione situazione femminile che pure esiste ma in una misura che rientra nello standard europeo e internazionale, se parliamo di democrazie civili e non certo di quei paesi dove il tempo si è fermato all’età della pietra, alla fine temo che si trasformi in qualcosa di controproducente soprattutto per noi donne. Non insegniamo alle nostre figlie ad avere paura degli uomini, e ai maschi spieghiamo quanto è bello e gratificante un rapporto alla pari dove non c’è bisogno di un giorno particolare per esigere rispetto. 

Trattativa, dieci rinvii a giudizio
Ora lo Stato processa se stesso

Tra il marzo e il maggio del 1992 l’ex ministro Maninno era stato inserito nella black list di politici stilata da Riina. A far saltare gli equilibri la decisione della Cassazione sul primo maxiprocesso: carcere a vita. S’infrange quel muro d’impunità garantito dalle cointeressenze politiche. È il 30 gennaio del 1992: una data che cambia la storia d’Italia.

 

Ma Il Fatto raccontava balle no? era contro lo stato e contro Napolitano. E Ingroia ci ha fatto sapere giorni fa  Michele Serra tramite La Repubblica, quotidiano di sinistra, sta bene in Guatemala.
Vergogne senza fine, e sono tutte italiane.

Rifondazione comunista è stato l’unico partito a costituirsi parte civile nel processo sulla trattativa stato mafia.

Quindi  significa che a tutti gli altri, e non parlo della destra per ovvi motivi di conflitto di interessi, la questione stato mafia non sembrava una cosa così grave? non interessa alla politica che si appresta a diventare prima forza di governo che pezzi dello stato abbiano trattato con l’associazione criminale denominata MAFIA? c’era altro a cui pensare o il paese non è pronto ad essere governato solo dallo stato e non anche, in certi casi soprattutto, dalla mafia?

La Norimberga italiana
Marco Travaglio, 8 marzo

Ieri è stato un gran giorno per la Giustizia in Italia: il gup di Palermo Piergiorgio Morosini ha deciso che il processo sulla trattativa Stato-mafia si farà. E a carico di tutti gli imputati per i quali la Procura aveva chiesto il rinvio a giudizio: sei per lo Stato (Mannino non c’è perché ha scelto il rito abbreviato) e cinque per la mafia (il sesto, Provenzano, sarà giudicato se e quando le sue condizioni di salute lo permetteranno). E a giudicarli non sarà un semplice Tribunale, ma la Corte d’Assise: il reato più grave, infatti, è quello contestato a Provenzano, che deve ancora rispondere del delitto Lima, al quale sono appesi per connessione i reati di tutti gli altri imputati: la “minaccia a corpo dello Stato” contestata a tutti tranne uno, l’ex ministro Mancino, che risponde di falsa testimonianza. Dunque, per la prima volta nella storia, uomini di Stato e di mafia compariranno nella stessa aula, dinanzi a due giudici togati e a sei giudici popolari estratti a sorte fra i cittadini italiani. Così la sentenza sarà fino in fondo “in nome del popolo italiano”. Per la Procura di Palermo, in particolare per i pm Ingroia, Di Matteo, Sava, Delbene e Tartaglia che hanno condotto le indagini, è un successo pieno, il massimo riconoscimento della bontà del loro lavoro. Un lavoro ostacolato da depistaggi e interferenze istituzionali, ricatti, omertà, amnesie, bugie, attacchi politici trasversali, campagne giornalistiche di ogni colore, ostilità e veleni perfino dai vertici della Cassazione, del Csm e dell’Anm. Un coro belante, anzi ringhiante che ha affratellato tutti i poteri contro la ricerca della verità, con pochissime eccezioni di cui il Fatto si onora di far parte, al fianco dei parenti delle vittime che da 21 anni chiedono Giustizia. Ci sarà tempo per discutere gli aspetti giuridici di quello che s’annuncia come il processo del secolo, la Norimberga della Prima e della Seconda Repubblica, perché riguarda le trame del biennio orribile 1992-’94 che orientarono il passaggio di regime col solito sistema del Gattopardo. Trame che impedirono all’Italia di rinnovarsi, come tanti avevano sperato avvenisse dopo Mani Pulite e la Primavera di Palermo seguita alle stragi. Trame che riconsegnarono lo Stato e i suoi governi sotto il ricatto di Cosa Nostra, dopo il venir meno del patto di convivenza-connivenza che aveva retto dal dopoguerra alla sentenza del maxiprocesso in Cassazione il 30 gennaio ’92. In attesa di sapere se esistono le prove per condannare gli imputati per i reati a loro ascritti (il Gup le ha giudicate sufficienti per giustificare un processo, il che non è poco), abbiamo le prove che la trattativa Stato-mafia ci fu, e servì a salvare la pelle a tanti politici terrorizzati dal delitto Lima al costo di sacrificare la vita di Borsellino, della scorta, dei cittadini caduti a Milano e Firenze. I fatti sono certi (anche se nessuno li racconta): il processo dovrà stabilire se sono anche reati. Mancano, come sempre, i mandanti più alti, anche se la tresca Mancino-Quirinale di un anno fa la dice lunga sul livello di consapevolezza di quel che avvenne e dev’essere coperto. Il gup Morosini cita le fonti di prova, tra cui la sentenza definitiva di Firenze sulle stragi del ’93, che spazza via tutte le tartuferie sulla “presunta trattativa” e mette nero su bianco che sulla trattativa (senz’aggettivi dubitativi) “non possono esservi dubbi di sorta”. È qui l’estrema attualità dei fatti di 20 anni fa che inquinano tuttoggi la politica, e seguiteranno ad avvelenarla finché l’ultimo traditore che trattò o coprì resterà nelle istituzioni. Quello che si apre a Palermo è anche il processo a una vecchia politica che non vogliamo vedere mai più: la politica del doppio gioco, del dire una cosa e fare il contrario, del combattere Cosa Nostra non per sconfiggerla, ma per contenerla e all’occorrenza usarla. Ora che quel doppio Stato, anzi quello Stato doppio è alla sbarra con i suoi degni compari mafiosi, deve farsi avanti l’altro Stato: quello dei magistrati e dei cittadini onesti.

Infarto di stato [avvoltoi, sciacalli and so on]

 

Sottotitolo: è più facile che si suicidi chi non ha più niente perché gli è stato tolto anche quel poco che aveva o morire d’infarto per colpa di Ingroia e del Fatto Quotidiano? chiedo.

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Preambolo: quando Di Pietro accusò il governo di Monti di essere il mandante morale (ma più che altro immorale) dei tanti morti suicidi dei mesi scorsi  (di cui oggi non si parla più), gente a cui è stata sottratta anche la speranza, la possibilità di poter dire “domani” senza tremare e che infatti ha scelto di risolvere il problema alla radice eliminando tutti i suoi domani, subito si levarono i lamenti della solita canea bipartisan, perché guai a dire che le decisioni troppo severe,  orientate nella direzione sbagliata,  di un governo potevano essere state DAVVERO la causa di molte di quelle morti che forse si sarebbero potute evitare; nessuno si doveva permettere di accusare nessun altro.

Oggi questa teoria non vale più?

Oggi va bene che un capo di stato spari a casaccio ad alzo zero per giunta,  facendo la stessa identica accusa ma – al contrario di Di Pietro senza fare nomi.

Napolitano ha sdoganato l’accusa alla “‘ndo cojo cojo” e tutto va bene: non è successo niente. Lui, può.

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Morte D’Ambrosio, Padellaro: “Sciacallaggio di Libero e Giornale” (video)

Il direttore de Il Fatto Quotidiano commenta i titoli (“Pm assassini” e “Condannato a morte”) sul consigliere del presidente Napolitano: “Lettori e giornalisti di quelle testate dovrebbero vergognarsi. La Procura di Palermo non è fatta di assassini”.

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Volendo, si potrebbe scendere al livello di Libero, Il Giornale, Il Foglio, ma anche de Il Corriere della sera,  La Stampa e di Repubblica, che ormai sembrano uniti come un sol uomo quando c’è da mistificare, omettere, nascondere oppure evidenziare la fuffa a vantaggio della merda la cui puzza però difficilmente si può coprire con due gocce di Chanel numero 5.

Io però non voglio, non ci penso neanche, perché sono assolutamente convinta che nessuno sia autorizzato a veicolare veleni, fango e merda spacciandoli per “notizie”, e penso che ci vorrebbe una class action contro quel “giornalismo” pagato coi soldi dei contribuenti ma che non rende alcun servizio utile ai cittadini che pagano, anzi,  li danneggia impedendo che si possano costruire, formare delle opinioni SANE a proposito della qualunque come funziona in qualsiasi democrazia compiuta.
Non è più umanamente sopportabile vivere in un paese dove non solo la politica non fa nulla per distinguersi, destra e sinistra da anni si rincorrono nell’interpretare l’una la peggior copia malriuscita dell’altra e dove anche quel giornalismo che almeno un po’ di differenza prima (before Monti) la faceva ma adesso sembra diventato un’unica accozzaglia di riverenti e compiacenti al potere.

In un paese normale un giornale non deve chiedere l’autorizzazione di nessuno per fare le sue inchieste e anche per scrivere, laddove è necessario, che il presidente della repubblica in certe (molte) occasioni, non ha fatto – esattamente – il presidente della repubblica.

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Infarto di Stato 
Marco Travaglio, 28 luglio

Mentre stormi di avvoltoi e branchi di sciacalli si aggirano famelici attorno alla salma di Loris D’Ambrosio, additando improbabili colpevoli del suo infarto e scambiando per “assassinio” il dovere di cronaca e il diritto di critica, è il caso di rinfrescare la memoria agli smemorati di Libero, Giornale, Foglio, Corriere, Stampa e Repubblica, ieri macabramente uniti nel mettere alla gogna Il Fatto Quotidiano nel tentativo (vano) di spegnere ogni residua voce di dissenso. Un’operazione tanto più indecente e ricattatoria in quanto, di fronte alla morte, tutti ammutoliscono nel doveroso cordoglio e non è molto popolare azzardarsi a criticare i morti per quel che han fatto da vivi. Ma a chi non rinuncia al dovere di informare non rimane che lasciare in pace i morti e occuparsi dei vivi, mettendo ancora una volta in fila i fatti. Se il dottor D’Ambrosio è finito sui giornali, è a causa di intercettazioni legittimamente disposte da un giudice sul telefono di Mancino e legittimamente pubblicate dalla stampa, una volta depositate alle parti e dunque non più coperte da segreto. E, se il dottor D’Ambrosio è stato indirettamente intercettato, è colpa di Mancino che ha deciso di coinvolgere il Quirinale in una sua grana privata, ma anche del Quirinale che ha deciso di dargli retta e di prodigarsi per favorirlo, mettendo a repentaglio l’imparzialità della Presidenza della Repubblica.

Decisione, quest’ultima, che è rimasta finora senz’alcuna spiegazione (il Quirinale “deve” qualcosa a Mancino e, se sì, perché?). Ma che D’Ambrosio attribuiva non a una sua iniziativa personale, bensì a una precisa e perentoria scelta del “Presidente”, che “ha preso a cuore la questione” e si è “orientato a fare qualcosa”: “Il Presidente parlerà con Grasso nuovamente”, “mi ha detto di parlare con Grasso”, “parlava di vedere un secondo con Esposito”, suggeriva a Mancino di “parlare con Martelli” per concordare una versione comune, scriveva al Pg della Cassazione per “non mandare lei (Mancino, ndr) allo sbaraglio” e perché il Pg “eserciti i suoi poteri nei confronti di Grasso. Tu, Grasso, fai il lavoro tuo”, insomma “si decide insieme” e il Presidente “sa tutto, e che non lo sa?”. Sono tutte parole di D’Ambrosio, non invenzioni dei suoi assassini a mezzo stampa. Se quelle segretissime manovre per depotenziare o addirittura scippare ai titolari l’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia sono note, non è grazie alla trasparenza del Colle, ma all’inchiesta di Palermo. E, se sono finite nel nulla, non è perché il Quirinale non ci abbia provato. Ma perché Grasso le ha respinte, ricordando che l’invocato “coordinamento” delle indagini era stato assicurato un anno prima da una delibera del Csm presieduto dallo smemorato Napolitano. Checché ne dicano il Presidente e gli sciacalli, D’Ambrosio non ha subìto (almeno sul Fatto) alcuna “campagna violenta e irresponsabile di insinuazioni ed escogitazioni ingiuriose”. Se illazioni ci sono state, hanno inevitabilmente riguardato le conversazioni rimaste segrete fra Mancino e Napolitano, a causa della decisione del Quirinale di non renderle pubbliche, anzi di pretenderne la distruzione, a costo di trascinare la Procura di Palermo davanti alla Consulta con un conflitto che Franco Cordero (sul Corriere, sul Fatto e infine su Repubblica) ha dimostrato infondato. Su D’Ambrosio non c’era da insinuare o escogitare nulla: abbiamo semplicemente pubblicato e commentato criticamente, come altri giornali, le sue testuali parole intercettate. E, unico giornale in Italia, abbiamo subito intervistato D’Ambrosio per dargli la possibilità di spiegarle. Lui l’ha fatto, ma ci ha pure esternato il suo disagio per ciò che non poteva dire, essendo vincolato dal “segreto” su parole e azioni del Presidente che – ricordava ossessivamente nell’intervista – “sono coperte da immunità”. Gli abbiamo chiesto di farsi sciogliere dal vincolo, ma dopo qualche ora ci ha fatto rispondere dal portavoce del Quirinale che il Presidente non l’aveva sciolto. Lo stesso vincolo che ha esposto lui, magistrato, a due imbarazzanti figuracce dinanzi ai suoi colleghi di Palermo, che lo sentivano come teste su ciò che aveva confidato a Mancino di sapere sulla trattativa: lui sulle prime negò tutto, ma poi, messo di fronte alle sue parole intercettate, dovette ammettere parecchie cose fra mille contraddizioni, e sfiorò l’incriminazione per reticenza. Non conoscendo personalmente D’Ambrosio, noi possiamo soltanto immaginare con quale stato d’animo un uomo tanto riservato abbia vissuto questi 40 giorni di esposizione mediatica e il drammatico ribaltamento della sua immagine: da collaboratore di Falcone nella stesura del decreto sul 41-bis a difensore d’ufficio di chi aveva revocato il 41-bis a centinaia di mafiosi, o almeno non l’aveva impedito. Insomma, da servitore dello Stato a servitore di Mancino. Ma, se Napolitano avesse ragione a collegare la sua morte a quanto è stato scritto di lui, dovrebbe anche domandarsi chi ha esposto D’Ambrosio a quelle critiche, a quelle figuracce e a quel ribaltamento d’immagine: non certo chi ha riferito doverosamente le cose che aveva detto e fatto, semmai chi gli aveva chiesto di dire e di fare quelle cose.

 

Escogitazioni ingiuriose (?)

Sottotitolo: a me non pare elegantissimo, né correttissimo dal punto di vista istituzionale, che il Capo dello Stato annunci la morte di un suo collaboratore aggiungendovi un attacco politico. Perché sia chiaro, quello è un attacco politico. Poi per carità, al Quirinale abbiamo avuto anche Cossiga. [Alessandro Gilioli]

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Morto D’Ambrosio, Napolitano attacca
“Contro di lui campagna irresponsabile”

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Si sta avvicinando pericolosamente il giorno in cui in questo paese anche pensare sarà considerato reato, eversione, terrorismo.
 
Quando un presidente della repubblica non sa frenare le insinuazioni più basse e accusa, per difendere se stesso e il suo operato circa la richiesta di chiarezza sulla trattativa fra lo stato e la mafia, un  modus operandi certamente non da capo di stato – e lo fa neanche troppo velatamente strumentalizzando un evento naturale come la morte – persone che lavorano PER la vita [la verità in casi come quello di cui si parla e cioè di uno stato che scende a patti con l’organizzazione criminale più feroce, quella che ha ammazzato donne e bambini, Magistrati perbene, giornalisti, tutti coloro che hanno lavorato e lavorano per uno stato pulito è VITA, checché ne pensi un’inutilità come formigoni che dice di non essere sicuro che tutti vogliano saperla sempre, ovviamente e specialmente quando riguarda lui e i suoi affari “celesti“],  dunque non CONTRO la vita di essere degli assassini, gente che rischia la sua incolumità mettendo in conto di perderla ogni giorno da anni, anche senza essere malata di cuore, per metterla al servizio di questo paese ridicolo, di uno stato traditore, il punto di non ritorno è stato ampiamente sorpassato. 
Faccia i nomi, Napolitano, chi sarebbe il “mandante morale di questa morte”?   giusto per usare le stesse parole noiose che la retorica nazionale tira SEMPRE fuori in questi casi, cioè QUANDO MUORE UNO DI LORO,  perché per Stefano Cucchi, per Federico Aldrovandi ad esempio non risulta proprio che il capo dello stato né nessuno dei miserabili che oggi titolano certi fogliacci in modo indegno si siano indignati oltremodo. E per quale motivo non si deve sapere chi fu, chi è stato,  chi è il mandante non solo morale della morte di Falcone e Borsellino? di chi è la colpa, chi è il mandante morale dell’infarto del povero D’Ambrosio, che riposi in pace lui che adesso può, di Travaglio e del Fatto Quotidiano? di Cordero e Imposimato che si sono espressi LEGGI e COSTITUZIONE ALLA MANO? di Ingroia costretto ad andarsene da questo paese le cui istituzioni  considerano eversori i Magistrati onesti? della Procura di Palermo, quella che indaga e non quella che scende a patti e compromessi? forse la mia che in questo blog e altrove ne scrivo da giorni? e se succedesse qualcosa, speriamo mai per carità, a quei Magistrati e giornalisti che stanno indagando sulla trattativa di chi sarebbe la colpa, delle escogitazioni ingiuriose  di chi: del Giornale di sallusti, di gasparri, della santanché?  di chi pensa che lo stato e le sue istituzioni vadano difese sempre e comunque a sprezzo perfino della dignità? di chi pensa che questo stato meriti ancora di essere considerato con rispetto alla luce anche di quello che ci hanno detto le sentenze sulla Diaz e su Federico? uno stato incapace di applicare una giustizia giusta, incapace di stabilire una differenza LEGALE, EQUA, ché parlare di umanità sarebbe eccessivo, fra una vita umana e un’automobile bruciata, uno stato in cui le stragi avvengono da sole e non è mai colpa di nessuno merita davvero di essere ancora difeso?  
Ce lo dica, il presidente, sia onesto fino in fondo se crede davvero a quello che ha detto ieri.
Risponda anche e solo ai genitori della bimba di cinquanta giorni morta nell’attentato mafioso di Firenze, e chissà se – nel frattempo – a quel padre e a quella madre, come a decine di altri padri, madri, sorelle, fratelli, mogli, mariti, amici, il cuore non si sarà silenziosamente schiantato dal dolore.
C’è un esercito di gente dai cuori spezzati per colpa dello stato, ma non mi pare che sia stato difeso da nessuno, anzi, non è stato nemmeno risarcito.
 
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Per questo Napolitano non spende una parola?

Il livello di barbarie di e in questo paese ha superato il livello di guardia.

 

 

 

 

E forza Italia!

Sottotitolo: “un amico mi ha tradito”, rivelò in lacrime Paolo Borsellino ai suoi “allievi” Massimo Russo e Alessandra Camassa, probabilmente il 29 giugno 1992, il giorno dopo avere appreso della trattativa tra mafia e stato. Un amico rimasto senza nome perché era un nome “sconvolgente’’. Ma la Camassa un sospetto l’ha avuto: “La mia impressione – ha detto ai pm – è che potesse trattarsi di un carabiniere, anziano ed esperto.”

Chiusa l’indagine sulla “trattativa”

Trattativa Stato-mafia, indagini chiuse: 12 avvisi da Dell’Utri a Mannino-

Il braccio destro di Berlusconi nuovamente accusato di essere l'”uomo cerniera” tra la politica e Cosa nostra. Oltre ai boss, indagati anche gli ufficiali del Ros Subranni, Mori e De Donno. Il pm Ingroia parla di accordi presi “sul sangue” di servitori della Repubblica. Dopo l’omicidio Lima, dell’utri diventa interlocutore dei vertici di cosa nostra come mediatore dei benefici richiesti dalla mafia e favorisce la ricezione della minaccia mafiosa da parte di silvio berlusconi, “dopo il suo insediamento come capo del governo”.

dell’utri è ancora un senatore della repubblica, ma meno meno male che dal 2018 non si potranno più candidare i criminali. Forse.
Se ci fosse stato Pertini – anche se con Pertini vivo certa gente in parlamento non ci sarebbe mai potuta arrivare, ma ammettiamo pure, lavorando di fantasia che sarebbe potuto succedere – non penso che avrebbe lanciato moniti contro antipolitica, demagogie e qualunquismo. Napolitano invece lo fa. Con mafiosi conclamati, collusi, conniventi, indagati per mafia, imputati per mafia, condannati per mafia in parlamento, onorevoli, senatori, ex ministri e, in testa quello più uguale degli altri per il quale ancora tutti si sperticano per salvare le sue chiappe flaccide, Napolitano parla di antipolitica e demagogie. E a seguire anche altri, perfino quelli che avrebbero dovuto incatenarsi al portone per non farli entrare.

Dell’Utri: il bibliofilo che invento’ Forza Italia

Berlusconi difende Dell’Utri e Mangano:

Travaglio risponde