Tana libera tutti? No, solo lui. Sempre lui

Hanno fatto indignare mezza Italia per mandarlo a dormire al quirinale? Dove s’appoggia s’addormenta. E nessuno che chieda mai scusa.

Preambolo: chissà se chi ha messo per iscritto la regola che prevede la presenza dei capipartito ai riti ufficiali della “democrazia” poteva immaginare che un giorno sarebbe servita a permettere ad un delinquente seriale di parteciparvi.

Non servirebbe nemmeno la condanna per frode per tenere lontano berlusconi dai palazzi.
Basterebbe ricordarsi di Vittorio Mangano, l’ergastolano che la mafia gli aveva messo in casa: l’eroe, di forza Italia fondata su richiesta di cosa nostra per interposto dell’utri per mettere al bando un simile personaggio da ogni contesto della società civile e da ogni ambito della politica.

Se la cosiddetta ragion di stato non prevede che negli affari di stato venga inserita anche un’etica, un’opportunità che siano di esempio e che impediscano ad un pregiudicato di poter essere considerato un uomo dello stato, uno a cui far decidere di riforme costituzionali, di leggi significa che non c’entra niente lo stato ma solo e soltanto i soliti interessi di casta. In nome dell’unità del paese, delle famose ricuciture promesse dal neo eletto al Quirinale e per tacere delle portentose riforme di Renzi si può e si deve sacrificare anche il senso minimo della decenza? Sarebbe ora che sia berlusconi ad adattarsi alla sua realtà privata, di cittadino che ha scelto spontaneamente di mettersi al di fuori delle regole e delle legge, smetterla di pretendere che si faccia il contrario obbligando un paese intero ad adeguarsi a berlusconi.
 Dalle bocche e le tastiere di quelli sempre col vassoio in mano dell’informazione à la carte non è uscita una parola a proposito di opportunità, di senso del decoro istituzionale, di quel bon ton che una volta veniva utilizzato perfino nel linguaggio della politica ma che oggi non bastano per chiudere la porta in faccia ad un pregiudicato delinquente. Al contrario i giornalisti, specialmente di area piddina gongolano del grande senso dello stato di Mattarella che ha telefonato personalmente e berlusconi per invitarlo a palazzo, per lui c’è sempre il trattamento ad personam.

Inutile parlare di lotta alla mafia se poi la mafia si fa entrare nella casa di tutti gli italiani.
La lotta alla mafia si fa, non si dice.
O, perlomeno, si può anche dire ma solo se alle parole poi seguono i fatti.
E per farla sul serio bisognerebbe non permettere agli amici della mafia di interferire nelle faccende di stato.
E’ giusto che l’arbitro sia imparziale, ma il garante non può non tenere conto che esistono dei principi e dei valori che non possono essere barattati con l’incoerenza dettata dalla tradizione di un cerimoniale che, quando è stato pensato non è stato certo realizzato in funzione di chi non ha i requisiti adatti per poter partecipare al rito più importante per la politica di un paese qual è l’elezione del presidente della repubblica, del capo dello stato.
Io, e credo di non essere la sola, oggi mi sento offesa, stanca di dover assistere allo spettacolo osceno di uno stato e delle istituzioni che in virtù della scelta di una minima parte di italiani a cui piace farsi rappresentare da un indegno, costringono tutti gli italiani a dover sopportare l’indegna presenza all’interno di quelle istituzioni che dovrebbero garantire almeno il rispetto dei principi e dei valori minimi: il rispetto della legge e dell’uguaglianza, quei diritti e doveri scritti sulla Costituzione da persone che non avrebbero mai pensato che un giorno sarebbero stati travolti, stravolti e cancellati a vantaggio di un traditore dello stato e del paese.

In questa giornata particolare che segna un altro punto a favore della divisione fra le istituzioni e la gente rivolgo un pensiero affettuoso alle famiglie di tutti i suicidati di equitalia per poche migliaia di euro, talvolta anche meno e a tutti i detenuti in Italia per reati infinitamente meno gravi di quelli commessi da berlusconi.

 

IL MIRACOLO DEL CONDANNATO B. DA CESANO BOSCONE AL COLLE (Carlo Tecce)

E PERCHÉ RIINA NO? (Massimo Fini)

 

Sottotitolo: la politica ha avuto vent’anni di tempo per darsi una regola, per fare in modo che bastasse almeno una condanna definitiva a togliere di torno il politico delinquente, visto che come diceva Borsellino quando implorava che fosse la politica a fare pulizia prima della Magistratura alla politica non va bene, non lo sa fare, non lo può fare, evidentemente. Ragioni di stato a noi sudditi sconosciute.
Una frode fiscale delle dimensioni di quella commessa da berlusconi altrove da qui sarebbe costata almeno centocinquant’anni di galera come al povero Bernard Madoff che non ha mai pensato di chiedere per precauzione la cittadinanza italiana.
Visto che qui centocinquanta anni di galera non li danno nemmeno ai serial killer sarebbe auspicabile che ci fosse almeno un modo, civile e democratico, ad esempio una legge, per allontanare dalle sedi istituzionali uno col vizio della delinquenza ai danni di tutti i cittadini.
Una volta e per sempre, indipendentemente dal seguito che ha, che siano elettori o fan, perché quello che vale per berlusconi allora dovrebbe valere anche per la rockstar, il campione di sport che pure hanno un loro seguito in molte migliaia e milioni di persone che si dispiacerebbero  se il loro idolo venisse perseguito dalla giustizia.
Un delinquente resta un delinquente, anche se lo votano dieci milioni di persone che su sessanta costituiscono solo una piccola minoranza.

A berlusconi degli interessi del paese e dello stato non è mai fregato nulla. Ed evidentemente nemmeno a quelli che hanno lottato con pervicacia affinché potesse arrivare fino ad oggi.

Le regole sono buone quando facilitano la civile convivenza, la rendono il più possibile armoniosa, equilibrata.
Ma quando la regola cozza anche col semplice buon senso significa che non è una buona regola, che sarebbe il caso di modificarla affinché sia applicabile alle cose che si fanno senza dare fastidio a nessuno.
Ad oggi il buon senso ispirato da quei principi che dovrebbero essere universalmente condivisi è ancora il miglior antidoto ai comportamenti incivili: non ce lo deve dire la legge che non si ruba, non si uccide, sono cose che sappiamo perché qualcuno che le ha imparate prima di noi ce le ha insegnate, e noi facciamo lo stesso con le nuove generazioni che vengono al mondo.
La stessa cosa vale per le leggi dello stato: il semplice buon senso di chi è chiamato a chiedere il rispetto di quelle scritture dovrebbe suggerire che ci sono cose che sarebbe meglio non fare, anche se la regola pensata in tempi diversi da quelli attuali quando molte cose non erano uguali a quelle di oggi, dice che si possono fare.
Ogni riferimento all’increscioso e miserabondo, tragico spettacolo dell’ex presidente del consiglio, ex senatore, ex cittadino meritevole di qualsiasi privilegio in quanto ex persona onesta e ritenuta indegna per sentenza che oggi si aggirava nella casa più alta della democrazia non è casuale.

Silvio Berlusconi libero per l’8 marzo: un regalo a tutte le donne!

Immagino il figurone che faremo in ambito internazionale.
Da oltre vent’anni tutta la politica paga in termini di discredito planetario la presenza di berlusconi nelle istituzioni, perfino il reazionario Luttwak non si capacita del perché sia ancora così presente anche nella sua veste di pregiudicato ma evidentemente non ne ha ancora abbastanza, la politica.
Non è ancora il momento di chiudere con lui.
Non arriva mai, quel momento.

L’altro giorno nel mio stato di facebook avevo scritto che mi era piaciuta la visita di Mattarella alle Fosse Ardeatine quale primo atto dopo la nomina a capo dello stato, perché la politica è fatta anche di simboli e di gesti altamente istituzionali. 

E il presidente della repubblica antifascista ha fatto benissimo ad andare a rendere omaggio alle vittime del regime nazifascista.
Ma la politica è fatta di gesti non solo simbolici ma anche opportuni.
Ecco, a me non è sembrato opportuno che Sergio Mattarella abbia invitato berlusconi alla cerimonia del suo insediamento ufficiale.
 Non solo per le questioni relative alla condanna che pure dovrebbero bastare per tenere berlusconi lontano distanze siderali dai palazzi ma proprio per la storia personale e pubblica di berlusconi.
Trovo alquanto singolare che un uomo devoto, cattolico, che alla prima uscita da eletto alla presidenza della repubblica si fa fotografare con delle suore davanti ad una chiesa possa trovare opportuna la presenza di una persona che al di là della vicenda penale che la riguarda ha avuto uno stile di vita sempre fuori dalle regole minime di etica e della giusta morale, del rispetto che dovrebbe mettere in pratica un uomo delle istituzioni qual è stato, purtroppo, silvio berlusconi.
E penso che l’uomo di stato Mattarella, il presidente che vuole essere di tutti, il garante e il custode delle regole che si è impegnato a ricucire gli strappi dovrebbe tener conto anche di queste cose visto che molte delle ferite ancora da rimarginare di questo paese portano la firma di berlusconi.

Il fatto che un paese intero debba essere ancora appeso alla vita di berlusconi, ai reati di berlusconi, all’accomodanza della politica e delle istituzioni con berlusconi è diventato umanamente inaccettabile.

Tutti insieme smemoratamente – Piergiorgio Paterlini

Ma sì, va bene. Anzi, benissimo.

Il buon esempio ai giovani, prima di tutto.

Riconciliazione. Pacificazione. Distensione.

One one one.

Ma sì, è giusto. Bando ai vecchi rancori.

Bando al moralismo catto comunista, come predica da anni Giuliano Ferrara. Chi è che non ruba, non froda il fisco, non paga delle minorenni per fare sesso, non dice clamorose bugie davanti ai tribunali e alle istituzioni più sacre e alla nazione tutta? Chi è che non ha nulla da nascondere su una giovinetta di Casoria? Alzi la mano chi non ha mai fatto le corna durante lo scatto ufficiale a un vertice dei ministri europei. E allora.

Berlusconi invitato d’onore al Quirinale. Molta gente lo ama, quindi i reati sono prescritti, anche quelli (i pochissimi) non prescritti. Cacciato dal Senato, torna al Quirinale immacolato, il giaguaro è smacchiato. (Se poi Renzi gli lascia, come pare, anche il regalino del 3% sull’evasione fiscale, con tutti gli onori verrà riabilitato).

E da domani, Pietro Maso a tenere corsi di formazione nelle scuole sul rapporto genitori-figli. Ha ricevuto migliaia di lettere in carcere, tra fan e candidate fidanzate. Tutte quelle lettere lo legittimano almeno quanto i voti.

La signora Franzoni ai corsi pre-parto. Anche lei ha innumerevoli sostenitori. Anche lei perseguitata dalla giustizia.

Renato Vallanzasca capo della formazione nazionale dei bancari.

Renato Farina a dirigere i corsi triennali di aggiornamento obbligatorio per i giornalisti.

Renato Brunetta Magnifico Rettore dell’Università del bon ton per Signore.

Vanna Marchi a dirigere i Tg. Bisogna essere davvero bravi per riuscire a vendere tutti i giorni tante patacche come fossero cose serie, cose salutari, cose vere.

I reati? La corruzione? Il malcostume? Prescritti dimenticati irrilevanti, di fronte alla pacificazione universale. Vuoi vedere che questo è l’Anno Santo e mi era scappato? Che siamo alla grande (s)vendita delle indulgenze e non me n’ero accorto? Tre Pater Ave Gloria e chi si è visto si è visto.

Sono in pessima compagnia, lo so, però per me è una vergogna, un antipersonalismo malinteso, un pessimo colpo di spugna quell’invito di Berlusconi al Quirinale.

Ai grandi peccatori era richiesto almeno il pentimento prima di essere riammessi in chiesa. Perché il perdono non fosse scambiato per connivenza, qualunquismo (a)morale, legittimazione del male.

Elezioni PresiRENZIali

Santoro, in perfetta coerenza col nuovo trend di Servizio Pubblico dovrebbe togliere quella frase che passa durante la sigla di apertura, dove c’è scritto di un programma presentato da lui e da “altri centomila”.
Perché la sensazione è che quella cifra si sia ridotta di molto, e qualcuno se potesse gli chiederebbe indietro i dieci euro che sono serviti a Santoro per mettere in piedi il suo programma quando tutti gli hanno chiuso le porte in faccia.
Questo suo innamoramento per Ferrara è tragicamente incomprensibile, non si capisce perché una settimana su tre Servizio Pubblico debba organizzare il teatrino per permettere a Ferrara di insultare, sbeffeggiare, mettere in forse la credibilità di chi diversamente da lui non si è mai venduto a chi pagava meglio e di più. Consentire a Ferrara di vomitare i suoi improperi, mancando di rispetto fra l’altro a cittadini che meritano lo stesso rispetto se non di più, non foss’altro perché non sostengono un fuorilegge pregiudicato, quelli che ci obbligano ad assistere all’orrenda messinscena del patto del Nazareno fatto per il bene del paese mentre tutti sanno che ancora una volta la politica si è messa al servizio dell’abusivo impostore: una volta lo fa per lui, un’altra per le sue aziende ma il risultato non cambia, berlusconi alla politica serve più vivo e vegeto e in salute che mai, è la rappresentazione di tutto fuorché di quell’informazione libera e spregiudicata che proprio a Santoro è costata la cacciata da tutte le scuole del regno.
Ferrara, che pensa che meritino più rispetto gli elettori del partito del pregiudicato delinquente di altri, Ferrara che si permette di usare il termine “dementi” non viene corretto né obbligato alla rettifica e a scusarsi non aggiunge nulla al dibattito, non dice nulla di significativo, non è un argomentatore ma soprattutto è incapace di sopportare il contraddittorio, “a una certa” lui deve esplodere insultando, deridendo e mortificando l’interlocutore che poi per educazione non gli risponde come merita.
Non si capisce perché nei momenti topici della politica di questo paese gli studi televisivi debbano riempirsi dei vari ma consueti, sempre gli stessi funzionari funzionali al potere della politica, gente a cui non frega un cazzo di come andrà a finire e si evolverà la politica perché quali che siano gli esiti di tutto, di un’elezione come della nomina del presidente della repubblica troverà sempre una poltrona nel talk show e una rotativa che stamperà le sue porcherie spacciate per informazione da cui poi la gente dovrà trarre le sue opinioni, che vediamo perfettamente tradotte nella situazione politica attuale.

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Chiunque verrà eletto, anche se fosse la persona migliore presente non in Italia ma sul pianeta terra porterà per sempre su di sé l’ombra di una scelta decisa anche per volontà di un delinquente.
Sia istituzionalmente, per il periodo del suo mandato, e anche storicamente.
Sarebbe bello esserci quando i figli di domani studieranno sui libri che il dodicesimo presidente della repubblica italiana è stato il frutto di un patto segreto fra un presidente del consiglio scelto da un parlamento di nominati grazie ad una legge illegale e il delinquente che dell’illegalità ha fatto il suo stile di vita. 

Un tempo, non so se è così anche adesso, per arruolarsi nei carabinieri ci volevano le sette generazioni di onestà in famiglia.
Oggi con una condanna a quattro anni per frode si può riscrivere la Costituzione e scegliere il presidente della repubblica.
“E’ la modernità, bellezza”.
Ma solo quella italiana, altrove non sono così elastici.

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Rinfacciare a qualcuno i suoi errori passati per affermare una propria superiorità attuale non è la più bella delle operazioni e se nella vita, nei rapporti con familiari e amici sarebbe meglio dimenticare o almeno mettere da parte degli episodi che potrebbero condizionare gli anni a seguire per quanto riguarda la politica bisogna fare invece l’esatto contrario, ricordare fino allo sfinimento, in quanto gli errori della politica non sono mai degli sbagli fatti perché errare è umano: sono cose che volutamente si fanno in un certo modo per fare in modo che l’evoluzione della politica e dunque della storia vada poi in una certa direzione anziché in quella più giusta e opportuna.
La storia italiana è piena di errori fatti apposta, per evitare di andare troppo indietro nel tempo basta pensare alla famosa e ancorché tragica discesa in campo di berlusconi al quale è stato concesso qualcosa che la legge e la Costituzione non gli permettevano di fare.
Questo “errore”, il fatto che dopo lo tzunami tangentopoli la politica abbia pensato che berlusconi fosse la persona giusta per far ripartire l’Italia dopo il disastro, l’uomo giusto al posto giusto nonostante dei trascorsi poco chiari già noti per restituire ai cittadini una politica presentabile in tutto questo tempo, più di venti anni, è stato volutamente omesso, l’informazione ha rinunciato a fare in modo che molti italiani potessero fare semplicemente 2+2: ovvero trovare la risposta del perché sono potute accadere cose altrove nemmeno ipotizzabili.
Nel mentre però molti, sia nell’informazione che nella politica si sono riempiti la bocca di concetti profondissimi circa l’importanza delle regole democratiche che si devono rispettare: tutti le devono rispettare, e poco importa se l’ascesa di berlusconi nella politica, il suo potere diventato infinito soprattutto grazie a quei requisiti che non gliel’avrebbero consentita è stata l’azione meno democratica, la violenza più feroce inferta a questa repubblica.
Poco meno di due anni fa, in occasione dell’elezione del presidente della repubblica alla scadenza naturale del mandato di Napolitano successero delle cose, ad esempio che il Movimento 5 stelle abbia fatto il nome di un candidato dai requisiti perfetti, una persona di alto spessore morale, culturale e anche umano, lui sì capace di restituire a questo paese quella decenza e presentabilità che la politica gli ha tolto.
Ma essendo appunto il Professor Rodotà una persona troppo specchiata, troppo colta, troppo amante del rispetto di quella Costituzione che la politica ignora spesso e volentieri alla politica, quella che conta, quella che sbaglia volutamente non è andato bene.
Il pd pose il veto sul Professore perché “scelto dalla Rete”, ovvero dai 5stelle.
Oggi siamo di nuovo in periodo di elezioni presidenziali, il pd è diventato il partito di riferimento di un presidente del consiglio eletto da un parlamento la cui esistenza è legata ad una legge elettorale fasulla, resa illegittima e incostituzionale per sentenza.
La politica, quella che conta dunque non i 5stelle rimasti volutamente ai margini, ha fatto sedere al tavolo delle decisioni anche berlusconi che nel frattempo, sempre per sentenza in seguito ad una condanna per un reato gravissimo qual è la frode fiscale ha perso il suo ruolo politico, almeno quello ufficiale, è stato privato dei diritti civili, anche quelli minimi: non può votare, salire su un aereo ma che il presidente del consiglio eletto dagli eletti per sbaglio ritiene l’unico interlocutore affidabile con cui decidere di leggi, di riforme costituzionali e anche della scelta del presidente della repubblica.
E di fronte all’ennesimo scempio di democrazia, di regole, di leggi ignorate, di Costituzione violata, di opportunità offerte ad un delinquente pregiudicato che ha ancora le mani in pasta nella politica perché quella stessa politica lo ha reso inamovibile bisogna accettar tacendo che il presidente della repubblica sia, dovrà essere una persona gradita non alla Rete, alla gente, ai cittadini semplici ma specificamente al delinquente che tanto piace alla politica, al presidente del consiglio e ai cavalier serventi e servetti del sistema.

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Coniglio bianco in campo bianco
Marco Travaglio, 30 gennaio
Siccome è una partita tra furbi che si credono l’uno più furbo dell’altro, nessuno può dire se la carta Mattarella sia un atto di guerra di Renzi contro B. per rompere il Nazareno, o una manfrina per consolidare il Patto ma con il coltello dalla parte del manico. Stando a quel che è accaduto ieri, si sa solo che Renzi ha detto: il Nazareno è vivo, ma comando io, quindi votiamo Mattarella al primo scrutinio. E B. ha risposto: no, comando anch’io, dunque al primo scrutinio Mattarella non lo voto, si va a sabato, e intanto vediamo cosa mi offri in cambio. I due compari erano d’accordo per un nome condiviso (da loro, s’intende) che non si chiamasse Prodi.

A dicembre era Casini, a gennaio Amato. Poi, anche grazie a un giornale con un pizzico di memoria storica e alle reazioni dell’opinione pubblica, Renzi ha capito quanto sia impopolare Amato, e ha virato su Mattarella. Che, sì, lasciò il governo Andreotti contro la legge Mammì con gli altri ministri della sinistra Dc. Ma questa è preistoria. Da anni il buon Sergio s’è inabissato in un mutismo impenetrabile, ai confini dell’invisibilità, che non autorizza nessuno a considerarlo né amico né nemico del Nazareno. Quel che si sa è che, pur essendo un ex Dc, non appartiene al giglio magico renziano, ma è molto ben visto dall’ex re Giorgio e dalla sottostante lobby di Sabino Cassese, di cui fanno parte i rispettivi rampolli Giulio Napolitano e Bernardo Mattarella (capufficio legislativo della ministra Madia, ex fidanzata di Giulio). La solita parrocchietta di establishment romano.Altro che rottamazione. Altro che il “nuovo Pertini” di “statura internazionale” promesso da Renzi. Brava persona, per carità, ma non proprio “simbolo della legalità” per comportamenti, frequentazioni e parentele. È l’ennesimo “coniglio bianco in campo bianco” (com’era chiamato anche Napolitano, prima che smentisse tutti sul Colle). Una figura talmente sbiadita che il premier sperava mettesse d’accordo tutti: renziani e antirenziani del Pd, ma anche B. che comunque allontana definitivamente lo spettro di Prodi. Diciamola tutta: se Renzi avesse voluto rompere il Patto del Nazareno, avrebbe candidato l’unico vero ammazza-Silvio del Pd, e cioè il Professore. Perciò sarebbe il caso che Imposimato – anche alla luce di quel che abbiamo scritto ieri e aggiungiamo oggi sulla sua carriera tutt’altro che lineare – venisse pregato dai 5Stelle di ritirarsi a vantaggio del secondo classificato alle Quirinarie. E che votassero Prodi anche Sel e la minoranza Pd, che ieri hanno incredibilmente abboccato all’amo di Renzi nella pia illusione che Mattarella segni la fine del Nazareno. A meno che B. non scelga spontaneamente il suicidio votandogli contro al quarto scrutinio di sabato, Mattarella non è affatto un candidato anti-B.. Non a caso Renzi, quando ha visto l’amico Silvio vacillare, ha consultato Confalonieri, che è subito sceso a Roma per convincere B. a restare in partita. Se alla fine, come in tutti questi anni, fra gli umori del partito e gli interessi dell’azienda, B. sceglierà i secondi e voterà Mattarella, potrà metterci il cappello e continuare a spadroneggiare e a fare affari. Anche perché, senza i suoi voti, Renzi può (forse) eleggere il capo dello Stato grazie all’apporto straordinario dei delegati regionali (quasi tutti pd). Ma poi non può governare né far passare le sue controriforme. Salvo follie autolesionistiche di un Caimano bollito, è probabile che i tamburi di guerra forzisti di ieri siano solo l’ultimo ricatto per alzare la posta, e siano destinati a trasformarsi nel breve volgere di 24 ore in viole del pensiero. Magari in cambio del salvacondotto fiscale del 3%, dato troppo frettolosamente per morto; o addirittura di qualche ministero tra qualche mese. Domani, comunque, tutte le carte saranno scoperte. Compresi i bluff.

 

Non si dice trattativa: aut aut sì [Come se cambiare una parola o evitare di pronunciarla possa modificare e invertire il corso della storia]

 

Come può essere una vittoria delle istituzioni un presidente della repubblica che viene sollecitato più volte, dopo varie ritrosie giustificate dal fatto che non avesse niente da dire mentre non pare affatto, a testimoniare in un processo di mafia.
La vittoria dello stato sono le istituzioni che non vengono mischiate con la mafia manco per sbaglio.
L’unico settore dello stato che dovrebbe avere a che fare con la mafia è la magistratura, nel paese dove vincono le istituzioni. Grandi esempi di rettitudine e trasparenza delle nostre istituzioni, dei politici che usano il ruolo per proteggere se stessi e non per mettersi a disposizione dei cittadini che rappresentano. Tutti bravi ad usare gli scudi previsti da quella Costituzione dove però non c’è scritto che lo stato dovesse scendere a patti col sistema mafioso, farsi ricattare dalla mafia.
Le notti della repubblica possono presentarsi anche alle dieci di mattina, tanto sono pochi quelli che si accorgono di chi ha spento la luce in questo paese.

Napolitano: ci fu un aut aut della mafia

Al di là di ogni interpretazione corretta, fatta in punta di diritto e di Costituzione, di prerogative concesse al capo dello stato circa la testimonianza di Napolitano l’unica cosa certa, incontrovertibile, è che fino ad un certo punto della storia di questo paese la mafia ha fatto esplodere bombe ovunque su e giù per l’Italia, ha compiuto stragi dove sono morte centinaia di persone innocenti, gli stessi protagonisti della lotta alla mafia: quelli che non trattavano e che lo stato non ha protetto, ad un certo punto non lo ha fatto più.
Ma la mafia non ha smesso di essere né di esistere.

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UN PRECEDENTE ASSAI SPIACEVOLE (Michele Ainis)

 “Ma che l’avvocato di Riina diventi per un giorno il portavoce del Quirinale, almeno questo è un paradosso che potevamo risparmiarci”.

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La parola “trattativa” non è mai stata pronunciata nel corso della testimonianza di Napolitano alla Corte di Palermo trasferita di sana pianta al Quirinale ma si è parlato di un aut aut da parte della mafia che si può tranquillamente tradurre almeno nell’alleggerimento del regime carcerario ai mafiosi del 41bis che Conso, allora ministro della giustizia, disse di aver deciso autonomamente.
Non c’è stata trattativa ma i due attentati alle chiese di Roma: San Giovanni [Spadolini] e san Giorgio al Velabro [Giorgio come Napolitano] presidenti del senato e della camera di allora furono dei segnali ben precisi come ha confermato in molte interviste anche la presidente dell’associazione delle vittime di via dei Georgofili.
Nessuna trattativa né patto ma appare piuttosto evidente che lo stato fu in qualche modo convinto o costretto a trovare un modo per salvare dalle vendette mafiose alcuni politici di allora.
Non c’è stato patto fra lo stato e la mafia ma subito dopo gli “attentatuni” di Capaci e Palermo dove morirono due galantuomini di questo paese e le loro scorte la cosiddetta seconda repubblica regalò all’Italia silvio berlusconi che continua ad essere ben presente nell’assetto della politica di oggi nonostante sia ormai ben conosciuta la sua più che vicinanza con l’ambiente mafioso nelle figure di dell’utri, che costruì materialmente forza Italia, il partito della discesa in campo e di quel vittorio mangano che b. fu obbligato ad assumere in qualità di stalliere ma che in realtà svolgeva tutt’altre funzioni in casa berlusconi.
Non c’è stato patto né trattativa ma sicuramente il ricatto sì, altrimenti le istituzioni e la politica non avrebbero riaccolto berlusconi a braccia aperte nonostante la sua reputazione corrotta, la condanna per frode. Uno stato serio, una politica seria mettono fuori gioco un delinquente conclamato e condannato in via definitiva per aver rubato a quello stato, non si aggrappano alla favoletta che “porta i voti”.
Le istituzioni di un paese serio lavorano e agiscono affinché i cittadini non debbano mai avere nemmeno l’ombra di un sospetto su chi si occupa della gestione dello stato, noi qui abbiamo non solo le ombre ma perfino e proprio le certezze.

***

A margine di questa vicenda penso questo: una persona che non ha niente da nascondere, che ricopre un ruolo che è anche di esempio, di guida, di forte responsabilità verso il paese si mette a disposizione, non si chiude in prima istanza dietro il “non ho niente da dire”. Soprattutto ad un’età in cui non te ne dovrebbe fregare nulla di come sarà domani per te, ogni giorno è un furto alla morte.
Invece Napolitano ha dedicato tutta questa sua ultima parte di vita a fare in modo che la gente perdesse ogni giorno di più la fiducia in questo paese e nello stato che lui rappresenta anche in virtù di certe sue azioni, comportamenti, decisioni eccetera.

Chi ha memoria e onestà sufficiente ricorda, chi non sa è colpevole.
Quindi lui se ne andrà, naturalmente per questioni anagrafiche molto prima di chi invece aveva bisogno di ritrovare un po’ di fiducia perché ha qualche domani da vivere più di un novantenne a cui la vita ha dato onori e gloria anche senza nessun merito particolare: per cosa verrà ricordato Napolitano nei libri di scuola e di storia? Non c’è nulla di significativo che si possa associare alla sua figura politica.
Nulla.
Quello che è accaduto ieri è la conferma che l’Italia è un paese che rimarrà meschino, pieno di gente piccola che ha svenduto la sua dignità in funzione del peggioramento del futuro di tanta gente. Nessuno parlerebbe a proposito della testimonianza di Napolitano come di vittoria delle istituzioni né di un evento di importanza storica. E  qui mi riferisco ancora e di nuovo agli organi preposti al controllo del potere, una cosa importantissima e fondamentale per la tenuta del paese, dello stato e della democrazia che qui non si fa: non lo ha fatto chi si doveva opporre a politiche sbagliate perché manifestamente non in grado di condurre il paese nel verso giusto e non lo ha fatto la quasi totalità dell’informazione sempre prona al potente prepotente di turno,  perché se ci fosse stato un vero controllo rigoroso e puntuale invece dell’adeguamento progressivo al potere per vari interessi e opportunismi oggi la situazione sarebbe senz’altro migliore di questa.
Imputare tutto alla gente è disonestà, è non aver capito come giorno dopo giorno questo paese sia stato volutamente trascinato in questa condizione di non ritorno di una democrazia nata fragile, che non si reggeva in piedi, e invece di difenderla chi poteva e doveva le ha dato il colpo di grazia.

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Fortuna che era inutile – Marco Travaglio

La Triade dello Stato sapeva del ricatto: poi il governo sbracò.
NAPOLITANO RICORDA LE CONSULTAZIONI CON SCALFARO E SPADOLINI SULLA PISTA CORLEONESE E IL MOVENTE DI ”AUT AUT” ALLE ISTITUZIONI. MA I SERVIZI DEPISTAVANO.

Chissà che cosa scriverà, ora, chi aveva teorizzato che la testimonianza di Napolitano era inutile, superflua, un pretestuoso accanimento dei pm di Palermo a caccia di vendette per il conflitto di attribuzioni, un pretesto per “mascariare” il presidente della Repubblica agli occhi degli italiani e del mondo intero, per trascinarlo nel fango della trattativa Stato-mafia, per spettacolarizzare mediaticamente un processo già morto in partenza sul piano del diritto, naturalmente per violare le sue prerogative autoimmunitarie, e altre scemenze. Quel che è accaduto ieri nella vecchia Sala Oscura del Quirinale è la smentita più plateale e, per certi versi, sorprendente di tutti gli inutili (quelli sì) fiumi d’inchiostro versati per un anno e mezzo da corazzieri, paggi e palafrenieri di complemento che, con l’aria di difendere Giorgio Napolitano, hanno guastato forse irrimediabilmente la sua immagine pubblica, spingendolo a trincerarsi dietro segreti immotivati, privilegi inesistenti, regole riscritte ad (suam) personam e spandendo tutt’intorno a lui una spessa e buia cortina fumogena che ha indotto molti cittadini a sospettare.

Quando ieri, finalmente, il capo dello Stato s’è trovato di fronte ai giudici e ai giurati della Corte d’Assise, ai quattro pm e ai legali degli imputati (mafiosi, carabinieri e politici) e delle parti civili, è stato lui stesso a dissipare – per quanto possibile – tutto quel fumo. Facendo la cosa più normale: rispondere alle domande dicendo la verità, come ogni testimone che si rispetti. E, finalmente libero dai cattivi consiglieri, ha preso atto che la ricerca della verità è il solo movente che anima i giudici e i pm di questo processo: nessuno vuole incastrare o screditare nessuno, tutti vogliono sapere cos’accadde fra il 1992 e il 1993, mentre Cosa Nostra attaccava il cuore dello Stato e pezzi dello Stato la aiutavano a ricattarlo, scendendo a patti e firmando cambiali in bianco. Insomma, ha detto la verità. E così, consapevolmente o meno, ha fornito un assist insperato alla Procura di Palermo.   L’aut aut. Ripercorrendo i suoi ricordi e anche i suoi appunti di ex presidente della Camera, Napolitano ha fornito un contributo che forse nemmeno i magistrati si aspettavano così nitido e prezioso, confermando in pieno l’ipotesi accusatoria alla base del processo: che, cioè, i vertici dello Stato sapessero benissimo chi e perché metteva le bombe. Per porre le istituzioni dinanzi a quello che Napolitano ha definito un “aut aut”: o lo Stato allentava la pressione e la repressione antimafia, cominciando dall’alleggerimento del 41-bis, oppure si consegnava alla strategia destabilizzante di Cosa Nostra, che avrebbe seguitato ad alzare il tiro dello stragismo per rovesciare l’ordine costituzionale. I fatti – all’epoca sconosciuti a Napolitano, ma persino al premier Carlo Azeglio Ciampi – ci dicono che fra il giugno e il novembre del 1993 quell’allentamento ci fu: prima – all’indomani della bomba in via Fauro a Roma e della strage in via dei Georgofili a Firenze – con la rimozione al vertice delle carceri del “duro” Nicolò Amato, rimpiazzato con il “molle” Adalberto Capriotti e col suo vice operativo Francesco Di Maggio; poi – in seguito all’eccidio di via Palestro a Milano e alle bombe alle basiliche romane di San Giorgio al Velabro e San Giovanni in Laterano (Giorgio come il presidente della Camera Napolitano, Giovanni come Spadolini presidente del Senato) – con la revoca del 41-bis a centinaia di mafiosi. Il risultato, in simultanea con gli ultimi preparativi per la nascita di Forza Italia (da un’idea di Marcello Dell’Utri) e la discesa in campo di Silvio Berlusconi, fu la fine delle stragi. O meglio, la loro sospensione sine die, per dare a chi aveva chiuso la trattativa il tempo e il modo di pagare le cambiali. “Violenza o minaccia a corpo politico dello Stato”, cioè al governo, anzi ai governi italiani: questa è l’accusa formulata dalla Procura (e confermata dal Gup) agli imputati di mafia e di Stato. Un’accusa che la lunga testimonianza di Napolitano sull’“aut aut” mafioso – tutt’altro che inutile, anzi fra le più utili fin qui raccolte – ha clamorosamente rafforzato.

La lettera. Il contributo meno interessante Napolitano l’ha fornito a proposito di un passo della lettera di dimissioni che gli inviò il 18 giugno 2012 il suo consigliere giuridico Loris D’Ambrosio, nel pieno delle polemiche per le sue telefonate con Nicola Mancino: “Lei sa di ciò che ho scritto anche di recente su richiesta di Maria Falcone. E sa che, in quelle poche pagine, non ho esitato a fare cenno a episodi del periodo 1989-1993 che mi preoccupano e fanno riflettere…”. Napolitano sostiene che D’Ambrosio non gli disse nulla, anche se riconosce che poi nel libro della Falcone quegli episodi non li raccontò. Ha trovato anche la lettera dattiloscritta che il consigliere inviò alla Falcone, ma assicura ai pm che il testo è identico a quello poi pubblicato. “… (episodi) che mi hanno portato a enucleare ipotesi – solo ipotesi – di cui ho detto anche ad altri…”. Quell’“anche ad altri” fa pensare, per la seconda volta, che ne abbia parlato anche con Napolitano. Il quale però nega. “…quasi preso anche dal vivo timore di essere stato allora considerato solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi”. Il presidente riconosce che si tratta di frasi “drammatiche”. Perché allora non ne chiese conto al suo collaboratore dopo averle lette? La risposta è evasiva: quando, l’indomani, parlò con D’Ambrosio, lo fece soltanto per convincerlo a ritirare le dimissioni e non affrontò con lui il tema degli “indicibili accordi”. Ora, visto che D’Ambrosio è morto e gli “altri” destinatari delle sue confidenze sono ignoti, il giallo rimane insoluto.   Il 1992. Anche sul 1992 – quando inizia l’attacco ricattatorio di Cosa Nostra allo Stato dopo la sentenza della Cassazione sul maxiprocesso, con il delitto Lima, la strage di Capaci, l’inizio della trattativa del Ros con Vito Ciancimino (intermediario prima con Riina poi con Provenzano), la mattanza di via D’Amelio, l’accantonamento di Ciancimino e le trame di Provenzano per consegnare Riina ai carabinieri – Napolitano ha poco da dire. Se non che ricorda bene come, alla Camera da lui presieduta, il decreto Scotti-Martelli sul 41-bis, varato il 6 giugno subito dopo Capaci, si arenò e occorse l’omicidio di Borsellino perché il Parlamento lo convertisse in legge il 1° agosto. E che, stranamente, il neopresidente dell’Antimafia Luciano Violante, suo compagno di partito, rivelò anche a lui che Ciancimino voleva esser convocato e sentito in commissione (cosa che Violante promise di fare, e poi misteriosamente non fece mai). Per la verità, a raccomandare don Vito per un incontro a tu per tu con Violante, era stato proprio il colonnello Mario Mori, ma questo il compagno Luciano non lo disse al compagno Giorgio. Perché il presidente dell’Antimafia avvertì proprio il presidente della Camera di quella richiesta di Ciancimino? Napolitano non sa spiegarselo.   Il 1993. Dopo la cattura pilotata di Riina, Cosa Nostra si rifà sotto a suon di bombe per costringere lo Stato a piegarsi. Roma e Firenze a maggio. Poi Milano e di nuovo Roma nella notte fra il 27 e il 28 luglio. Il presidente ricorda che subito, fin dal 29 luglio, “la Triade” Scalfaro-Spadolini-Napolitano, cioè i massimi vertici dello Stato che condividevano tutte le conoscenze (mutuate dall’intelligence e dalle forze investigative) su quel che stava accadendo, erano certi che anche quelle stragi avevano una matrice mafiosa (“corleonese”, specifica il presidente) e un movente ricattatorio, estorsivo. Napolitano ricorda di averne parlato col presidente Scalfaro e forse, ma non lo ricorda con precisione, col premier Ciampi. Il quale, dopo il black out dei centralini di Palazzo Chigi nella notte delle bombe, dirà di aver temuto un colpo di Stato e tirerà in ballo la P2. Non solo Cosa Nostra voleva ricattare lo Stato: ma i massimi esponenti dello Stato si sentivano sotto ricatto di Cosa Nostra. Napolitano ricorda una imprecisata “pubblicistica” che già all’epoca avrebbe riferito di due correnti divergenti fra i corleonesi: l’ala guerrafondaia e un’ala più morbida (quella di Provenzano). In realtà nessuno allora scrisse mai nulla del genere: lo disse il ministro dell’Interno Mancino, nel dicembre ’92, poco prima della cattura di Riina, in un’incredibile intervista al Giornale di Sicilia. Poi si giustificò con i pm sostenendo di averlo saputo da Pino Arlacchi, consulente della Dia. Ma l’allora capo della Dia, Gianni De Gennaro, ha smentito: in quei mesi riiniani e provenzaniani risultavano una cosa sola, anzi si pensava che Provenzano fosse addirittura morto. Solo chi trattava con Ciancimino, e dunque con Provenzano, sapeva che quest’ultimo era vivo e si era smarcato dall’ala stragista. Ma su questi fatti Napolitano non ha nulla di utile da riferire.   Tutti sapevano. In una nota del Sismi appena scoperta e depositata dai pm, datata 29 luglio ’93 (il giorno dopo le stragi di Milano e Roma), si legge: “Tra il 16 ed il 20 agosto ci sarà un attentato che non sarà portato a monumenti o a teatri, ma a persone. A livello grosso. Una strage. Poi si faranno ad uno grosso (inteso in senso di personalità politica). Spadolini e Napolitano, uno vale l’altro. Gli autori sono sempre i soliti: quelli là (riferito ai corleonesi?) d’accordo coi grossi (riferito ai politici) e coi massoni”. Parole che fanno scopa con quelle pronunciate ieri da Napolitano, che fra l’altro ha ricordato il rafforzamento delle misure di sicurezza sulla sua persona proprio in quei giorni. Perché è così importante, per la pubblica accusa, la testimonianza del presidente sulla matrice corleonese e sulla finalità ricattatoria delle stragi dell’estate ’93 come consapevolezza comune e unitaria fin da subito presso i massimi vertici dello Stato? 1) Perché, della “triade”, Napolitano è l’unico superstite: Scalfaro e Spadolini sono morti, e così l’allora capo della Polizia Vincenzo Parisi, uomo-chiave di quella stagione, anche per il suo filo diretto con Scalfaro. 2) Perché nessun altro uomo delle istituzioni di allora è mai stato così chiaro ed esplicito sul livello di consapevolezza dei rappresentanti dello Stato sul significato dell’offensiva stragista di Cosa Nostra: una lunga sfilza di politici smemorati e/o reticenti.   3) Perché, se già il 29 luglio ’93 si sapeva che le bombe in via Palestro e contro le basiliche erano roba di mafia per piegare lo Stato, non si comprende quel che accadde subito dopo.   Piste e depistaggi. Il 6 agosto ’93, attorno a un tavolo del Cesis (il comitato che coordinava i servizi segreti militare e civile), si riunirono i capi dell’intelligence, ma anche il capo della Polizia Parisi, il capo della Dia De Gennaro, il vicecomandante del Ros Mori e il vicecapo e uomo forte del Dap Francesco Di Maggio. E se ne uscirono con una fumosa relazione, sulle bombe della settimana precedente, piena di piste fasulle al limite del depistaggio: oltre all’eventuale matrice mafiosa, ipotizzarono quella del terrorismo serbo, o palestinese, o del narcotraffico internazionale. Del resto, se gli apparati e i servizi avessero davvero avuto dubbi sulla pista mafiosa per strappare allo Stato un cedimento sul 41-bis, cioè sul trattamento dei boss detenuti, perché mai invitare a quel tavolo un estraneo come il vicecapo delle carceri Di Maggio? Fin da giugno, il suo superiore Capriotti aveva scritto al ministro Conso sollecitando un taglio lineare dei 41-bis per “dare un segnale di distensione nelle carceri”. E proprio per accelerarlo Cosa Nostra aveva seminato morte e terrore in quella primavera-estate. Infatti appena quattro giorno dopo il vertice al Cesis, il 10 agosto, De Gennaro firmò un rapporto della Dia, destinato a Mancino e a Violante, che metteva nero su bianco la pista mafioso-trattativista delle bombe e invitava il governo a non cedere sul 41-bis: “È chiaro che l’eventuale revoca anche solo parziale… del 41-bis potrebbe rappresentare il primo concreto cedimento dello Stato intimidito dalla stagione delle bombe”. Un modo per smarcarsi dal fumoso e depistante rapporto del Cesis, che pure lo stesso De Gennaro aveva siglato? Un mese dopo, 11 settembre, lo Sco della Polizia, guidato da Antonio Manganelli, fu ancora più esplicito, usando per la prima volta il termine “trattativa” in una nota inviata all’Antimafia di Violante: “Obiettivo della strategia delle bombe sarebbe quello di giungere a una sorta di trattativa con loStato per la soluzione dei principali problemi che affliggono l’organizzazione: il ‘carcerario’ e il ‘pentitismo’… Creare panico, intimidire, destabilizzare, indebolire lo Stato, per creare i presupposti di una ‘trattativa’, per la cui conduzione potrebbero essere utilizzati da Cosa Nostra anche canali istituzionali”. Più chiaro di così…   Lo sbraco. Anche questo allarme, come i precedenti, viene ignorato sia da Mancino sia da Violante. E il 5 novembre il ministro Conso non rinnova il 41-bis in scadenza a 334 mafiosi detenuti, contro il parere negativo della Procura di Palermo. Ma in ossequio alla sollecitazione che gli veniva dal nuovo capo del Dap fin da giugno. Per negare l’evidente cedimento al ricatto mafioso, Conso s’è trincerato dietro il rapporto del Cesis che ipotizzava matrici diverse da quella di Cosa Nostra per le stragi dell’estate. Ma, oltre ai rapporti Dia e Sco, a smentirlo ora c’è anche la parola di Napolitano: i vertici dello Stato sapevano fin da subito che era stata Cosa Nostra per ricattarlo. E lo Stato sbracò.

 

Mafia: un affare di stato [il monito oscuro]

 

C’è poco da inquietarsi per le cazzate di Grillo: se lo stato ha pensato che fosse opportuno entrare in trattativa con la mafia evidentemente ha riconosciuto alla mafia non solo una morale ma perfino il diritto di residenza.

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Succede solo in Italia.

Solo in Italia il presidente della repubblica può testimoniare in un processo per mafia da diretto interessato, può chiedere e ottenere che una parte significativa della sua vita politica possa essere nascosta ai cittadini che rappresenta.
Così come andò per le intercettazioni delle telefonate con Mancino distrutte dopo qualche ora dalla sua seconda elezione, anche questa la prima della storia di questa repubblica perché il contenuto fu giudicato irrilevante ma noi non sapremo mai se è vero, anche oggi Napolitano ha potuto imporre i suoi diktat, ovvero pretendere la testimonianza occulta che gli è stata concessa nonostante e malgrado la Costituzione non preveda che un cittadino possa scegliere di mettersi in una posizione superiore a quella degli altri.
Questo paese è una farsa, quello che succede qui non potrebbe accadere in nessun altrove dove la democrazia, la legge uguale per tutti, vengono messe in pratica anche coi potenti. Anzi, soprattutto con loro.
Mi chiedo, alla luce di questa vicenda di cui molti purtroppo non percepiscono la gravità, che senso abbia parlare ancora di politica.
Un presidente della repubblica che deve testimoniare in un processo di mafia si dovrebbe dimettere quattro minuti dopo ché cinque già sono troppi.
Solo perché non lo ha fatto prima.

 

“Si conosce solo l’orario d’inizio. Le dieci di stamattina, nella sala del Bronzino nota anche come “sala oscura”, perché non ha finestre sul mondo esterno. Poi tutto quello che accadrà al piano nobile del Quirinale sarà ignoto, in una sorta di blackout di stampo nordcoreano. Persino la disposizione di persone, una quarantina, tavoli e poltrone non è ammesso sapere. Giorgio Napolitano testimonierà al “buio” sulla trattativa tra Stato e mafia. Fino all’ultimo si sono moltiplicati gli appelli per dare trasparenza all’esame davanti alla Corte d’Appello di Palermo, in trasferta eccezionale a Roma. Il più autorevole ieri sul Corriere della Sera , a firma del quirinalista di via Solferino, Marzio Breda. Sembrava così che in giornata si fosse aperto uno spiraglio, ma alle sei di sera dagli uffici del consigliere per la stampa e per la comunicazione la risposta è stata laconica: “Non sono ammessi giornalisti”. Stop. [Il Fatto Quotidiano]

«Non ho da riferire alcuna conoscenza utile al processo, come sarei ben lieto di potere fare se davvero ne avessi da riferire» [Napolitano scrive alla Corte d’Assise di Palermo, 25 Novembre 2013]

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In questo paese, spiace per i detrattori tout court, il problema non è Grillo che lancia la sua ennesima boutade sulla mafia ma è uno stato che con la mafia ci ha trattato per ragioni sue e che non sono – evidentemente – quelle di chi per combattere la mafia è morto né le nostre di cittadini che abbiamo il diritto di sapere quanto è stato ed è coinvolto e in che misura il presidente della repubblica di questo paese nella trattativa con la mafia tutt’altro che presunta.
Un chiarimento che non avverrà perché intorno al presidente della repubblica è stato steso un cordone protettivo, una censura intollerabile per una democrazia, qualcosa che in qualsiasi altro paese democratico nessuno avrebbe mai potuto pensare di poter fare ma in Italia sì.
Ecco perché vi prendono e ci prendono per il culo quando fanno credere che il problema sia quello che dice Grillo e non quello che ha fatto e fa lo stato.
E chi guarda con commozione e rispetto alle vittime della mafia di questo paese, quelli che Grillo è sempre brutto e cattivo dovrebbero ricordarsi che oggi, a distanza di anni, dal periodo in cui la mafia faceva saltare i palazzi e le autostrade, scioglieva i bambini nell’acido c’è un presidente del consiglio che insieme ad un amico stretto della mafia, quella montagna di merda lì, può invece rovesciare le fondamenta di questa nostra già fragilissima democrazia. E lo farà.

 

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Per chi è abituato a parlare quando nessuno glielo chiede e vieppiù quando nemmeno dovrebbe, rispetto a situazioni e contesti in cui non è richiesto il suo autorevole parere [anzi], non dovrebbe essere difficile rispondere a una ventina di domande su qualcosa che invece lo riguarda eccome e che conosce bene.
Mai vista, ma soprattutto sentita già dalla voce tanta servile deferenza da parte dei giornalisti costretti a dire, per dare il minimo sindacale delle notizie, che oggi Napolitano dovrà rispondere ai magistrati di Palermo quale teste nel processo sulla trattativa stato mafia; magistrati dei quali è il capo supremo e quindi da lui sarebbe stato naturale aspettarsi un atteggiamento non ostile ma rispettoso di quello che la magistratura rappresenta, Napolitano dovrebbe essere l’esempio per tutti e la risposta a chi per decenni ha insultato la magistratura colpevole di fare quello che fanno i giudici in tutti i paesi civili: processare imputati accusati di reati e assolverli o condannarli sulla base dell’evidenza delle prove.
In questo paese c’è un sacco di gente nei settori che contano, soprattutto quello dell’informazione, ben disposta ma soprattutto predisposta naturalmente ad inchinarsi al potente e a fare in modo che non abbia di che preoccuparsi di nulla, gente che anticipa gesti di servilismo non richiesto, gente che rispetto a quello che accadrà oggi ne ha dette di ogni, inventandosele anche, per convincere gli italiani che non è normale che s’interroghi il presidente della repubblica in un processo di mafia, mentre l’anormalità è esattamente il contrario, ovvero non è normale che possa diventare presidente della repubblica un personaggio che ha dei trascorsi di coinvolgimento tale da rendere necessaria la sua testimonianza in un processo di mafia. Un evento mai successo prima nella storia di questo paese.

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Oggi è ancora più chiaro che gli investitori stranieri rinunciano all’Italia quale partner economico perché c’è l’articolo 18 e perché scioperano gli assistenti di volo per fare un dispetto al cretinetti amico del bugiardo seriale.
Non lo fanno mica perché questo era, è e resterà a dispetto di chiunque andrà al potere il paese zimbello del mondo. Credevate che fosse finita con berlusconi eh? Io però l’avevo detto, perché berlusconi continua a non essere la causa ma la conseguenza della mancanza di una netta presa di posizione dello stato contro le organizzazioni mafiose. Chi in questo paese  ha provato a combattere la mafia sul serio è morto ammazzato dalla mafia dopo essere stato abbandonato, lasciato solo da quello stato che avrebbe dovuto garantire e tutelare i veri servitori dello stato, non trattare con l’antistato. La solitudine è uno dei temi ricorrenti di tante affermazioni di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, Nino Di Matteo e Roberto Scarpinato per fortuna nostra e loro ancora vivi sono stati abbandonati dallo stato nonostante le ripetute minacce da parte della mafia e, nel caso di Scarpinato anche da pezzi dello stato corrotti. I Magistrati antimafia di questo paese accerchiati e impediti non solo dalle organizzazioni criminali che contrastano ma anche dallo stato che dovrebbe agevolarli nel lavoro ma non lo fa perché evidentemente non può. Il perché non può è scritto a chiare lettere anche nelle attività pubbliche che hanno a che fare con lo stato. Domenica sera Milena Gabanelli in un’altra puntata di Report da far studiare ai ragazzini a scuola ci ha raccontato che sono mafia, corruzione e criminalità tutte quelle cose che vengono ammantate con la definizione di grandi opere, mentre altro non sono che il furto reiterato e perpetuato dallo stato ai danni dei cittadini che non hanno bisogno di opere grandi ma delle necessità quotidiane che vengono negate, perché le risorse che uno stato serio dovrebbe investire a favore delle esigenze e dei bisogni del paese vengono invece canalizzate in quell’altrove che poi si traduce nei rapporti fra le istituzioni che rappresentano il paese con la malavita ordinaria, quella che ha, evidentemente, mezzi e strumenti per tenere sotto ricatto quei rappresentanti dello stato che peraltro non oppongono mai resistenza: s’offrono. Ed ecco che la mafia non fa più saltare autostrade e palazzi perché non è più necessario, perché c’è chi garantisce anche alla mafia la possibilità di continuare ad essere in una tranquilla convivenza, quella che auspicava Lunardi l’ex ministro di un governo di berlusconi: l’amico di dell’utri e di mangano, persone non vicine alla mafia ma proprio dentro la mafia.

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Nota a margine: Se ci fosse un giornalismo degno in questo paese si eviterebbero anche un mucchio di polemiche inutili, perché le persone si fiderebbero di quello che leggono sui giornali e di ciò che viene riportato dai telegiornali.
Io non sono pagata per scrivere quello che vedo e le relative opinioni su quello che accade, chi si esprime da una radio, dalle televisioni e sui giornali sì: viene pagato non per raccontare cose, perlopiù balle, menzogne e falsità basandosi sulle sue simpatie ma su quello che realmente le persone dicono e fanno.
Per fare chiarezza e perché la gente capisca e possa poi costruirsi un’opinione il più possibile vicina alla realtà, non per armare casini e polemiche di cui si parlerà giorni e giorni ovunque: per radio, in televisione, sui giornali e che trasformano i social nella consueta arena da derby.
Questo piccolo preambolo solo per dire che servi non si nasce, lo si diventa, ma volendo si può anche decidere di smettere: come con l’alcool, il fumo e tutte le dipendenze che rischiano di avere poi delle ricadute sulla collettività, come la propaganda oscena che molti fanno dai canali che hanno a disposizione.
La propaganda è un male sociale, un danno collettivo e sarebbe l’ora e anche il caso che un certo giornalismo abituato a servire i vari padroni pensi ad un modo onesto per guadagnarsi lo stipendio facendo quello che fa normalmente il giornalismo nei paesi semplicemente normali; mettersi al servizio dei cittadini, non del padroncino di turno.

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Al cittadino non far sapere – Marco Travaglio, 28 ottobre

L’altro giorno anche i giornali italiani hanno celebrato Ben Bradlee, il leggendario direttore del Washington Post scomparso a 93 anni che era entrato nella storia del giornalismo e della politica pubblicando i Pentagon Papers sulla sporca guerra in Vietnam e poi l’inchiesta di Bernstein & Woodward che scoperchiò lo scandalo Watergate e abbatté il presidente Nixon, sempre in barba alla ragion di Stato e in nome della ragion di cronaca. Sono gli stessi giornali che da due anni tacciono su uno scandalo che fa impallidire il Watergate e riguarda non la Casa Bianca, ma il Quirinale a proposito della trattativa fra lo Stato e la mafia. Hanno nascosto il ruolo di Giorgio Napolitano nelle manovre del consigliere D’Ambrosio per sottrarre l’inchiesta alla Procura di Palermo. Hanno ribaltato la verità, trasformando i pm da vittime in aggressori del Colle.

Hanno chiesto a gran voce la distruzione delle telefonate Napolitano-Mancino, onde evitare il rischio di inciampare in una notizia e di doverla pubblicare. Hanno sorvolato sulla vergogna di uno Stato che, tramite i suoi massimi rappresentanti, non ha mai solidarizzato con i pm condannati a morte da Riina, depistati e minacciati con pizzini e strane visite in case e uffici da uomini di servizi e apparati (deviati, si fa per dire). Si sono arrampicati sugli specchi per sostenere l’insostenibile esclusione degli imputati dall’udienza al Quirinale per la testimonianza di Napolitano dinanzi alla Corte d’Assise, ai pm e ai legali degli imputati. E ora non dicono una parola sull’ultima vergogna: il divieto di accesso e di ascolto in quell’udienza imposto dal Quirinale alla stampa (cioè ai cittadini).   Solo il Corriere e solo ieri è intervenuto per chiedere che i giornalisti possano assistere alla scena, mai accaduta prima, di un capo dello Stato italiano sentito come teste in un processo di mafia. Una richiesta di trasparenza condivisibile, ma supportata da motivazioni assurde: “conviene alla massima istituzione del Paese” per evitare “interpretazioni strumentali, illazioni fuorvianti, inquinamenti della realtà, suggeriti da una campagna culminata nella morte per infarto di D’Ambrosio e in una sfida tra poteri… in grado di ledere il prestigio e l’autorevolezza del supremo organo costituzionale”. Cioè: la stampa dev’essere presente non per informare i cittadini di ciò che dirà o non dirà il Presidente sulla pagina più nera della storia recente, ma per salvargli la faccia dalla “spettacolarizzazione del processo” (che peraltro, per legge, sarebbe pubblico), da “letture manipolate e virali” dei “professionisti della controinformazione a caccia di scandali, a costo di inventarli”. Come se ci fosse bisogno di inventarli, gli scandali. Come se la stampa più serva del mondo (in fondo alle classifiche della libertà d’informazione) si divertisse a mettere in cattiva luce il Presidente (ma quando mai). Come se il compito dei giornali fosse di surrogare l’ufficio stampa del Colle.   Naturalmente il Corriere ce l’ha col Fatto, che ha il brutto vizio di scrivere quello che gli altri occultano e financo “accostare la testimonianza del presidente perfino al caso Clinton-Lewinsky”. Già: il paragone è azzardato. Infatti Clinton doveva rispondere dei suoi rapporti orali con una stagista, non degli “indicibili accordi” fra Stato e mafia (orali e scritti in un papello) che il suo consigliere afferma di aver confidato a Napolitano. Il video dell’interrogatorio di Clinton dinanzi al procuratore Starr fece il giro del mondo, su tutte le tv e i siti Internet, e qualche miliardo di persone poté farsi un’idea della sincerità del presidente Usa da ogni smorfia e piega del suo volto. Invece la deposizione di Napolitano non la vedrà nessuno, perché non sarà neppure filmata. Far notare questo sconcio, per il Corriere, è roba da “quarto potere che gioca sul vittimismo” e “deraglia dalle regole base della deontologia”. Chissà come avrebbe reagito il vecchio Ben Bradlee se i nostri maestrini di deontologia gli avessero spiegato il giornalismo come manutenzione al monumento equestre di un presidente.

 

 

 

 

Il condannato significativo, e definitivo

 

Mentre scrivevo questo post è  arrivata la richiesta di arresto per Luigi Cesaro, ex presidente della provincia di Napoli che segue di poche ore l’arresto di Giancarlo Galan, ex governatore del Veneto votato ieri dal parlamento ed eseguito in serata.  Entrambi sono di casa nel partito di quello che ieri Napolitano ha definito l’interlocutore significativo, ovvero il pregiudicato delinquente col quale Renzi vuole scassinare la Costituzione con la benedizione, anzi, il sollecito, di Napolitano.

Il parlamento italiano si riunisce per decidere l’arresto di qualcuno con una frequenza impressionante.
Un qualcuno che, nel peggiore dei casi, tutto quello che gli può capitare è restare in una cella il tempo necessario [ore] ai suoi avvocati per inoltrare la fatidica richiesta di concessione dei domiciliari che verrà puntualmente accolta.
In questo paese i cittadini sono costretti ad assistere alle assemblee di persone pagate per fare altro, per occuparsi dei problemi della gente e non dei loro, che devono decidere se è il caso o meno che un cittadino, eletto e dunque soggetto al rispetto di quella Costituzione che pretende che il cittadino a cui vengono affidate funzioni pubbliche adempia ad esse con disciplina ed onore, debba o meno continuare a far parte degli eletti, restare una persona libera oppure no anche quando tradisce il suo mandato e la legge.  Personalmente non mi fido di gente che, secondo coscienza, la sua, ha votato per ben due volte no all’arresto di cosentino nonostante la sua liaison con la camorra fosse un fatto ormai acclarato.
Mi piacerebbe vivere in un paese dove al politico non fosse riconosciuto lo status di privilegiato anche quando commette dei reati.
Abbiamo un articolo della Costituzione che ORDINA al funzionario di stato, quale che sia il suo ruolo e livello, di adempiere alla sua funzione con disciplina e onore. Se i politici presenti nei vari parlamenti da svariati decenni ad ora avessero dovuto essere giudicati in base al semplicissimo dogma che chi si deve occupare delle cose degli altri deve essere meglio degli altri, il parlamento sarebbe rimasto deserto.
Nessuno ha mai avuto i titoli corrispondenti a ciò che chiede la Costituzione. Non solo per disonestà ma anche per aver approfittato della carica politica per favorire parenti, amici e conoscenti. Ed ecco che anche in questo caso vengono a mancare sia la disciplina che l’onore, quel disinteresse onesto col quale approcciarsi alla politica.
Il politico che viene indagato o accusato deve tornare ad essere un cittadino come gli altri, farsi da parte e risolvere le sue beghe, in caso di innocenza, tornerà, ma basta con questa sceneggiata della seduta parlamentare per decidere l’arresto che ormai ha una cadenza fissa e anche piuttosto frequente.

 

Non date retta a Napolitano, gli spettri ci sono eccome, e ce ne sono tanti.
Firmate e fate firmare l’appello del fatto Quotidiano, non servirà ma almeno ci togliamo la soddisfazione di far sapere al presidente della repubblica che è anche un bugiardo, perché i governi di “emergenza” e di larghe intese, non eletti da nessuno non si occupano di riforme costituzionali.

Le riforme costituzionali le fanno i parlamenti scelti dai cittadini con elezioni regolari e NAZIONALI per mezzo delle quali si ottiene una maggioranza vera, non un minicaravanserraglio di incapaci e bugiardi anche loro come quello di Renzi che in forza dei dieci milioni di persone che lo hanno votato alle europee pensa di poter stravolgere le regole di un paese.

Napolitano ha imposto agli italiani Monti, nominato senatore a vita in fretta e furia senza le prerogative che prevede la Costituzione, proprio come fu nominato Napolitano a sua volta da Ciampi, ufficialmente per tirare fuori l’Italia dal disastro economico col risultato che Monti e i suoi ministri sobri, eleganti, quelli davanti ai quali la stessa informazione che oggi incensa Renzi e ieri lo faceva con Letta jr si è prodotta in orgasmi multipli e ripetuti sono riusciti solo a distruggere quel poco di stato sociale su cui potevamo ancora fare affidamento nonostante berlusconi.

Dopodiché Napolitano ha imposto le larghe intese e il governo di Letta ufficialmente per garantire una governabilità ma soprattutto perché il parlamento lavorasse ad una legge elettorale per permettere ai cittadini di potersi scegliere un parlamento e un governo ai quali delegare ANCHE, eventualmente, le riforme costituzionali.

Naturalmente, come ben sappiamo anche il governo di Letta non ha prodotto nulla di utile ma tutti, comprese le meteore sconosciute nominate ministri e sottosegretari sono state pagate e strapagate e lo saranno ancora e a vita come se avessero lavorato davvero per il bene del paese.

Ora abbiamo Renzi che ha praticamente tolto la poltrona sotto al culo di Letta pensando di averne i titoli solo perché aveva vinto le primarie del suo partito che, vale la pena di ricordare, non hanno nessuna valenza istituzionale: a nessun amministratore di condominio eletto anche col plebiscito dai residenti nel palazzo si affiderebbe la gestione di un paese.

E il governo di Renzi si sta forse impegnando a quella legge elettorale necessaria per far tornare i cittadini a votare? Ovviamente no, se ha rimesso in mano la discussione e la relazione della nuova legge anche all’autore di quella giudicata incostituzionale dalla Consulta, una contraddizione talmente enorme che ha costretto anche calderoli a riconoscerla.

Nel frattempo però Renzi si sta dando molto fare per quelle cose che lui ritiene siano necessarie a far ripartire il paese: forse lavorare per il lavoro? Ri_ovviamente no, le cose necessarie per ridare fiducia agli italiani, quelle impellenti e non più rimandabili sono l’abolizione del senato, restituire quell’immunità parlamentare a cui gli italiani avevano già detto no con un referendum, e immancabilmente quella riforma della giustizia invocata da Napolitano al quale non va giù che l’Interlocutore Significativo, quello necessario alle riforme e ben accolto nei palazzi sia diventato nel frattempo un pregiudicato, condannato in via definitiva.
Napolitano sta imponendo agli italiani delle riforme da fare con un delinquente da galera senza che nessuno provi un po’ di vergogna, i cosiddetti democratici, quelli che al delinquente si sarebbero dovuti opporre ma non l’hanno mai fatto e naturalmente la stampa a 90 che continua a descrivere l’operato di Renzi e l’appoggio incondizionato del presidente della repubblica, che invece si comporta e agisce come un capo di partito, come la miglior cosa che ci potesse capitare.  Se ancora non fosse chiara la questione, ha detto Napolitano, presidente della repubblica e capo supremo della Magistratura nonché garante della Costituzione, che Renzi può riformare la Costituzione e la  giustizia con un condannato alla galera.

 

Pertini all’età di Napolitano ha smesso il mandato e si è ritirato a vita privata.    Se la figura del presidente della repubblica restasse simbolica come dovrebbe essere secondo Costituzione andrebbe bene anche l’età avanzata, specialmente se è il giusto coronamento ad una carriera politica meritevole, mentre Napolitano non è affatto simbolico, lui ordina, interviene, suggerisce e ottiene. Per il bene del paese, s’intende. Di Napolitano inoltre non si ricorda nulla di significativo: cos’ha fatto di bello Napolitano? Per quali motivi importanti i ragazzini di domani dovranno leggerlo sui libri di Storia? Sono queste le domande,  a cui però è difficile dare una risposta.

L’età quindi diventa un problema quando come nel caso di Napolitano, unico nella storia di questa repubblica, non solo perché rieletto una seconda volta, evidentemente alla politica serviva proprio lui, non rappresenta un simbolo ma si pone oltre quelle prerogative previste dalla Costituzione che lui dovrebbe garantire, non contribuire al suo smantellamento.
Napolitano decide, interviene, comanda con la SUA visione delle cose, che è quella di una persona di novant’anni.
Nulla da obiettare sull’anziano che fa altri mestieri: Margherita Hack, Rita Levi Montalcini, Andrea Camilleri, Dario Fo, persone rispettabilissime che hanno fatto il loro con onore. E’ proprio la figura del capo dello stato che mal si attaglia ad una persona di quella età che essendo vecchia impedisce un progresso moderno.

Il problema è che a 89 anni non te ne frega un cazzo di spenderti per un paese migliore, specialmente se i tuoi figli, e i figli dei loro figli hanno e avranno un futuro assicurato, niente da temere. 

A quell’età non interessa il futuro ma si vive molto attorcigliati nel proprio passato.
Quella è l’età in cui tutti gli argomenti e le situazioni sono uguali.
Non esiste più una priorità né la paura di fare brutte figure, di rovinarsi la reputazione anche per quell’assurda teoria che l’anziano va rispettato in virtù della sua età.
Nemmeno per idea, il rispetto è qualcosa che si può eventualmente raccogliere dopo averlo dato e dimostrato.  A qualsiasi età.
E l’età avanzata, lo abbiamo imparato proprio dai politici, quasi mai coincide con la saggezza.
Non c’è più niente che sia così importante, da dover difendere quando una manciata di mesi separa dalla morte.
E’ per questo che a novant’anni una persona che ha pure la fortuna di esserci arrivata in buone condizioni di salute, non foss’altro perché da più di sessanta c’è chi lavora per lei, non dovrebbe avere nessun diritto di ricoprire un ruolo così importante nello stato.
Il tetto non ci vorrebbe solo sui compensi ma anche sull’età.
A novant’anni stai a casa tua a fare altro, quello che fanno tutti i privilegiati che ci arrivano, altroché il presidente della repubblica.

 

 

FEDE SU B. “MAFIA, SOLDI, MAFIA” (Davide Milosa) [L’interlocutore significativo]

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Il raglio del Ventaglio – Marco Travaglio

Erano alcuni giorni che Giorgio Napolitano non interferiva nei lavori parlamentari e non s’impicciava in quel che resta della libera stampa, ma ieri alla cerimonia del Ventaglio ha recuperato su entrambi i fronti in una botta sola. Non contento della maggioranza più bulgara dai tempi della Cortina di Ferro e anzi allarmato dalla sopravvivenza a Palazzo Madama e nell’opinione pubblica di alcuni vagiti di opposizione al pensiero unico renzusconiano, ha pensato bene di dare una legnata a quei quattro gatti che osano sottolineare gli aspetti duceschi e castali della presunta “riforma del Senato”: “Non si agitino spettri di insidie e macchinazioni di autoritarismo”. Ce l’aveva con l’appello del Fatto, che ha superato le 150 mila firme, con i 5Stelle, con Sel e con la sparuta pattuglia di dissidenti nel Pd, nei vari centrini e nel centrodestra. Noi, per parte nostra, possiamo assicurargli che il suo monito irrituale e illegittimo ci fa un baffo: continueremo ad agitare gli spettri di autoritarismo di due controriforme che – secondo i migliori costituzionalisti – concentrano molti poteri e aboliscono molti controlli sulla figura mostruosa di un premier-padrone che fa il bello e il cattivo tempo e impediscono ai cittadini di scegliersi i deputati e addirittura di eleggere i senatori.

Non è vero – come afferma il presidente – che “la discussione sulle riforme è stata libera”: di quale discussione va cianciando? Tra chi e con chi? I cittadini sono totalmente esclusi dal processo riformatore, visto che non hanno mai votato per questa maggioranza e questo governo, non hanno mai eletto questo premier (se non a sindaco di Firenze) e l’ultima volta che andarono alle urne per il Parlamento (febbraio 2013) nessun partito sottopose loro l’idea di abolire le elezioni per il Senato e confermare le liste bloccate per la Camera. Anzi tutti i partiti promisero di abolire il Porcellum per restituire agli elettori il sacrosanto diritto di scegliersi i parlamentari, non per farne un altro chiamato Italicum. Napolitano sostiene che le critiche alle “riforme” “pregiudicherebbero ancora una volta l’esito della riforma della seconda parte della Costituzione” e il superamento del “bicameralismo paritario, un’anomalia tutta italiana, un’incongruenza costituzionale sempre più indifendibile e fonte di gravi distorsioni del processo legislativo, quasi idoleggiato come un perno del sistema di garanzie costituzionali”. E purtroppo anche qui mente: i senatori dissidenti, i costituzionalisti critici e anche noi del Fatto abbiamo avanzato fior di proposte per differenziare poteri e funzioni di Camera e Senato, quindi è falso che vogliamo conservare il bicameralismo paritario: vogliamo semplicemente un Senato elettivo, con ruoli diversi da quelli attuali, ma non degradato a dopolavoro part time per sindaci e consiglieri regionali nominati dalla Casta e coperti da immunità full time. Ed è una balla che il processo legislativo sia bloccato o distorto dal bicameralismo, come dimostrano le peggiori porcate approvate in meno di un mese. In ogni caso non spetta né al Colle né al governo, ma al Parlamento stabilire se e come la Costituzione vada cambiata: non s’è mai visto un governo cambiare la Carta fondamentale a tappe forzate, con la complicità del Quirinale. Non foss’altro perché il capo dello Stato e i membri del governo giurano sulla Costituzione esistente e si impegnano a difenderla, non a smantellarla. Senza contare che il governo sta in piedi solo grazie a un premio di maggioranza che non dovrebbe esistere, e invece gli consente di impedire – con i due terzi estrogenati – ai cittadini di esprimersi nel referendum confermativo. Non manca, e ti pareva, un monitino alla stampa: Sua Altezza intima ai giornalisti – che peraltro obbediscono in gran parte col pilota automatico – di astenersi “dal gioco sterile delle ipotesi sull’ulteriore svolgimento delle mie funzioni da presidente: una valutazione che appartiene solo a me stesso”. In realtà appartiene alla Costituzione, che fissa in 7 anni il mandato presidenziale, e pure ai cittadini, che hanno il sacrosanto diritto di sapere se e quando se ne va  Il finale è da manuale: sotto con la “riforma della giustizia”, ovviamente “condivisa”. Con chi? Con il pregiudicato, ça va sans dire. 

L’estate scorsa, dopo la condanna di B. per frode fiscale, il presidente annunciò che era venuto il gran momento; ora, dopo l’assoluzione di B. per il caso Ruby, ribadisce (con notevole coerenza) che è giunta l’ora. Cos’è cambiato? Roba forte: “È arrivato il riconoscimento espresso da interlocutori significativi per ‘l’equilibrio e il rigore ammirevoli’ che caratterizzano il silenzioso ruolo della grande maggioranza dei magistrati”. E chi sarà mai l’“interlocutore significativo”? Ma il pregiudicato B., naturalmente: il fatto che insulti i giudici che lo condannano ed esalti quelli che lo assolvono (anche perché al primo insulto finisce al gabbio) è un evento epocale, meraviglioso, balsamico che – svela il monarca – “conferma quello che ho sempre asserito”: anche Napolitano, come il Caimano, pensa che “la grande maggioranza dei magistrati fa il proprio lavoro silenziosamente, con equilibrio e rigore ammirevoli”. Viva i magistrati muti che assolvono i potenti aumma aumma. A dire il vero, ci sarebbe l’ultimo ritrattino dell’Interlocutore Significativo per la riforma della Costituzione e della Giustizia, tracciato dall’amico Emilio Fede: quattro parole icastiche, “Mafia soldi soldi mafia” col contorno di Dell’Utri & famiglia Mangano. Ma che sarà mai. Fortuna che Totò Riina non ha ancora chiesto udienza al Quirinale, a Palazzo Chigi e al Nazareno per proporsi come Interlocutore Significativo. A questo punto sarebbe difficile dirgli di no. E soprattutto spiegargli il perché.

 

 

Se Obama ricevesse Madoff

Bernard Madoff,  americano, è stato giudicato colpevole di una delle più grandi frodi finanziarie di tutti i tempi e per questo condannato a 150 anni di carcere. Negli States però i presidenti non usano ricevere alla Casa Bianca  i delinquenti condannati: nei paesi normalmente civili ognuno sta al suo posto, i delinquenti sicuramente in galera, non li chiamano a fare le leggi, a riformare la Costituzione. E i presidenti stanno dalla parte degli onesti, di chi non ruba e non froda lo stato. Quando i 5stelle hanno chiesto lo stato d’accusa avevano ragione, gli estremi per l’impeachment a Napolitano c’erano già durante il suo primo mandato. Solo gli ipocriti, gli opportunisti, i servi del regime lo possono negare. E non consola il fatto che Napolitano [pare] non abbia offerto nessuna garanzia a berlusconi. Napolitano  come il papa che si scaglia contro i mafiosi,  i criminali  e chi fa le guerre ma poi non li  caccia di casa. Sei, sette milioni di imbecilli non possono essere l’alibi per giustificare lo scempio di un delinquente che entra ed esce dal Quirinale ogni volta che vuole. E’ come se la Federcalcio facesse vincere lo scudetto ad una squadra solo perché ha un numero elevato di tifosi e non perché abbia giocato meglio in Campionato.
Quella della rappresentanza di Forza Italia è una giustificazione disgustosa con la quale si nascondono i veri motivi per i quali, ad oggi, bisogna ancora aspettare una settimana per sapere quale sarà il destino di un cittadino condannato più di otto mesi fa e che nel frattempo ha potuto agire, muoversi, avere voce in capitolo nella politica, parlare col presidente della repubblica come se nulla gli fosse capitato.  Napolitano ha ricevuto DUE VOLTE un pregiudicato al Quirinale ma si rifiuta di andare a testimoniare al processo sulla trattativa stato mafia e non ha speso una sola parola a sostegno di Nino Di Matteo, il giudice minacciato dalla mafia.
Cose, queste,  che non potrebbero succedere – e infatti non succedono – in nessun altro paese al mondo. 

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Sottotitolo: l’utilità dell’intellettuale – cosiddetto – più presente nelle televisioni in tutti i talk show è dire che Napolitano fa benissimo a ricevere il pregiudicato berlusconi, privato in conseguenza della condanna definitiva [che anche se non sembra ma c’è] dei diritti politici. Dunque Napolitano incontra uno che non può nemmeno votare né dovrebbe poter mettere piede a palazzo per discuterci, sicuramente di riforme e di leggi e di chissà cos’altro ancora e per Cacciari, plurinvitato in forza della propaganda a getto continuo pro regimetti napolitani di cui è uno dei maestri incontrastati a la7, la  televisione del numero 1 del pd, tutto va bene. 
Ancora non ci dobbiamo preoccupare.

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SILVIO DISPERATO, IL COLLE APRE LA PORTA (Wanda Marra e Sara Nicoli)

Il pregiudicato berlusconi vede Napolitano. Discute di riforme, ma pretende l’impunità

E’ la seconda volta, dopo le consultazioni per il governo Renzi, che l’ex premier sale al Quirinale da condannato in via definitiva. Secondo una nota della presidenza della Repubblica, è andato per illustrare le posizioni del suo partito in questa fase politica. Tra gli argomenti discussi, la gestione delle riforme da parte del premier e l’evoluzione della legge elettorale, ma anche le preoccupazioni in vista dell’esecuzione della sua sentenza di condanna. [Il Fatto Quotidiano]

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Se berlusconi rappresenta una minoranza di decerebrati che per motivi sconosciuti si sono votati a sostenere un delinquente di quella portata, Napolitano rappresenta tutti gli italiani. E una persona, la più alta istituzione dello stato di un paese ha delle responsabilità verso i cittadini. Fra queste c’è anche dare un buon esempio: agire nella rettitudine, nella trasparenza e nell’onestà. Dovrebbe, anzi DEVE fare quel che si chiede ai cittadini e non fare quello che ai cittadini non verrebbe perdonato e giustificato.
Se io ospitassi a casa mia un malavitoso amico della mafia, un ladro, uno sfruttatore di ragazzine i miei vicini, amici e parenti qualche domanda se la farebbero, e probabilmente smetterebbero di frequentarmi e di provare per me qualsiasi tipo di sentimento positivo: la stima, la fiducia, innanzitutto. Il loro modo di fare nei miei riguardi cambierebbe, giustamente, forse mi toglierebbero anche il saluto, non avrebbero più per me nessuna cortesia e avrebbero ragione a farlo perché non frequentando malavitosi delinquenti hanno dimostrato di essere persone migliori di me.
Dunque non si capisce perché, e invece, non si possa smettere di essere rispettosi, di avere fiducia, stima, smettere di riconoscere nell’istituzione alta un presidente della repubblica che non si nega ad un delinquente, che lo accoglie nella casa di tutti gli italiani, che lo sta a sentire, ci parla, non pensa che sia disdicevole, di cattivo esempio, irrispettoso nei confronti di tutti i cittadini onesti che un condannato per un reato grave come la frode fiscale, le cui vittime siamo sempre noi, possa, dopo aver potuto partecipare al tavolo della discussione politica perché qualcuno pensa che l’Italia non possa fare a meno di silvio berlusconi, chiedere e ottenere di conferire col capo dello stato che, invece di lasciarlo fuori dalla porta, di fargli sapere che il presidente della repubblica non parla con un pregiudicato da galera, invece di ignorare le sue richieste deliranti col retrogusto del ricatto che nessun altro cittadino condannato potrebbe sognarsi di fare, lo fa entrare, anche più di una volta. Cosa dobbiamo dire ai nostri figli, che in questo paese il presidente della repubblica riceve, dà udienza ai criminali ed è una cosa normale, che tutti i capi di stato fanno?  Anche stavolta il Napolitano  intimerá urbi et orbi di lasciare al criminale la possibilitá di partecipare alla delicata fase politica? 
Quanto ancora dovremo sopportare l’oltraggio di un capo dello stato che si fa frequentare, nella casa di tutti gli italiani, da un delinquente da galera? Quale esempio e quale autorevolezza trasmette una persona investita dell’incarico più importante di tutti che, ormai è evidente, non può dire mai NO a silvio berlusconi? 
 Perché è un po’ complicato spiegare che eversione non è solo un carro armato fatto in casa, ma lo è anche invadere un tribunale, specialmente se si fa il ministro; certe frasi mai sanzionate espresse da persone in qualità di funzionari dello stato rivolte ai Magistrati, sono eversione; mentre se un blogger scrive due frasi spiritose su una pagina web scattano i controlli, una regolare denuncia, un processo dal quale non si può sottrarre con nessun legittimo impedimento.Ed è eversione permettere al non avente [più] diritto di poter mettere piede nelle sedi istituzionali da cui è stato escluso, non perché antipatico al portiere ma perché non più degno di rappresentare nessuno oltre alla sua miserabile figura. Il potere si riorganizza, ora per ora, alza sempre di più il livello del consentito rispetto a ciò che non deve essere permesso. 

Tutto si riequilibra, si norma, anche quello che in nessun posto nel mondo sarebbe normale, accettabile, permesso e fattibile.

 

 

 

Non è Stato lui

Ai 5stelle va riconosciuto il merito di aver chiesto la messa in stato d’accusa di Giorgio Napolitano, che sicuramente non otterrà nessun risultato concreto non essendoci le condizioni, quel tradimento manifesto dello stato da poter provare ma che ha comunque sollevato un problema che c’è: quello di un presidente della repubblica che in svariate occasioni non ha dimostrato quella parzialità da arbitro terzo ma si è comportato come uno dei giocatori in campo. Quello che se vuole si porta via il pallone quando vuole e quindi detta lui le regole del gioco.

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Ieri grande fermento in Rete dopo la visita di Tsipras a Roma. Il dibattito che ha animato i social media si è focalizzato soprattutto sul pericolo che un’altra lista, di sinistra per giunta: orrore degli orrori, possa in qualche modo vanificare l’impegno dei 5stelle e disperdere gli eventuali voti a loro riservati nelle future ed eventuali elezioni, quando l’oligarchia che ha preso possesso dello stato concederà a noi poveri cittadini – relegati al ruolo di sudditi anziché popolo sovrano – di poter ritornare ad esprimerci e scegliere i nostri rappresentanti in parlamento, per conto nostro come da Costituzione e non per conto Napolitano. Ieri sembrava di essere tornati indietro nel tempo, ai bei tempi in cui il pd chiedeva il voto “utile”,  quello esercitato con la classica molletta al naso. Quando tutti si sperticavano a spiegarci che se avessimo dato fiducia ad una sinistra che tanto sinistra non era [e non è] col tempo, piano piano, anche un non partito di una non sinistra si sarebbe impegnato a fare le cose serie, e magari anche di sinistra.

Per fortuna, sempre Napolitano, si occupa alacremente di unire gli italiani, lui si sa, detesta la “divisività” e per essere coerente col suo amore per la “univisità” a tutti i costi, quella per la stabilità, per il bene del paese ci mancherebbe, ha deciso di voler passare alla Storia, quella vera, non quella che ci raccontano Scalfari e Battista a modo suo: il peggiore, riconosciuto da elettori di destra, centro e sinistra. E non serviva nemmeno leggere nero su bianco dell’iniziativa “spintanea” contro Nino Di Matteo per farsi un’idea di quanto certa magistratura lo abbia sempre disturbato, quanto avrebbe fatto volentieri a meno di quei giudici che lavorano per portare alla luce quei segreti che lui, a moniti unificati, ammanta di una presunta ragion di stato. 

Ma quale ragion di stato può impedire che venga fatta luce su una parte degli apparati dello stato stato che, assai poco presuntamente, in molte occasioni non ha agito con tutte le sue forze contro quel crimine più crimine di tutti che è la mafia, quella modernizzata che oggi scioglie donne e bambini nell’acido? Quale ragion di stato ha impedito a Napolitano, presidente della repubblica e capo supremo di tutti i magistrati – solitamente prodigo di solidarietà e parole di condanna per tutto – di dire una sola parola di sostegno a Nino Di Matteo minacciato, condannato a morte dalla mafia che fa saltare autostrade e palazzi se vuole? E quale altra ragion di stato impedisce che dopo sei mesi venga applicata una sentenza, ridicola rispetto all’ammontare dei danni procurati all’Italia, al delinquente più delinquente di tutti? 
E in virtù di quale ragion di stato gli italiani devono ancora essere rappresentati da questo signore?

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CSM, È STATO NAPOLITANO A VOLER PROCESSARE DI MATTEO – Marco Travaglio, 9 febbraio

PROCESSO A DI MATTEO PER UN’INTERVISTA : IL MANDANTE È IL COLLE UN DOCUMENTO UFFICIALE RIVELA CHE LA SEGNALAZIONE PER UNA AZIONE DISCIPLINARE CONTRO IL PM CHE INDAGA SULLA TRATTATIVA STATO-MAFIA PARTÌ DAL QUIRINALE.

Fu Donato Marra, cioè il braccio destro del Presidente, a “denunciare” al Pg della Cassazione il pm della Trattativa per un’intervista sulle telefonate con Mancino. La notizia delle intercettazioni era già uscita su tutti i giornali, eppure da 18 mesi il magistrato più odiato da Riina è sotto azione disciplinare, senza aver violato alcun segreto.

Da un anno e mezzo, cioè da quando la Procura generale della Cassazione trascinò Nino Di Matteo, il pm più odiato da Totò Riina, sotto procedimento disciplinare dinanzi al Csm, si sospettava che l’incredibile iniziativa non fosse spontanea. Ma “spintanea”, suggerita dal Quirinale, visto che Di Matteo, dopo l’uscita di Antonio Ingroia dalla magistratura, è anche il magistrato più detestato da Giorgio Napolitano. Ora il sospetto diventa certezza grazie a un documento ufficiale: la richiesta di proscioglimento depositata a fine dicembre dal Pg Gianfranco Ciani e dal sostituto Antonio Gialanella. I due, ricostruendo la genesi del processo, che riguarda anche il procuratore capo di Palermo Francesco Messineo, rivelano che la segnalazione dei possibili illeciti disciplinari partì proprio dal Colle: “Al Procuratore generale presso la Cassazione perveniva, in data 11.7.2012, dal Segretario generale della Presidenza della Repubblica, una missiva datata al 9.7.2012”. In quella lettera, il segretario generale del Quirinale Donato Marra, braccio destro di Napolitano, trasmette un suo carteggio con l’Avvocatura dello Stato e fra questa e la Procura di Palermo a proposito di un’intervista di Nino Di Matteo a Repubblica . L’intervista si riferisce alle rivelazioni diffuse il 20 giugno 2013 dal sito di Panora ma : intercettando Nicola Mancino, i pm di Palermo sono incappati non solo in 9 sue conversazioni col consigliere Loris D’Ambrosio, ma anche in alcune con Napolitano in persona. Notizia rilanciata il 21 giugno dal Fatto e da altre testate. Il 22 giugno Repubblicaintervista Di Matteo, il quale spiega che, negli atti appena depositati ai 12 indagati per la trattativa Stato-mafia, “non c’è traccia di conversazioni del capo dello Stato e questo significa che non sono minimamente rilevanti”. L’intervistatrice domanda se le intercettazioni non depositate saranno distrutte, Di Matteo risponde – riferendosi a tutto il materiale non depositato e non solo alle telefonate Mancino-Napolitano: “Noi applicheremo la legge in vigore. Quelle che dovranno essere distrutte con l’instaurazione di un procedimento davanti al gip saranno distrutte, quelle che riguardano altri fatti da sviluppare saranno utilizzate in altri procedimenti”. È OVVIO CHE, fra quelle da distruggere, ci siano anche le intercettazioni indirette del Presidente, visto che sono “irrilevanti” (almeno sul piano penale), mentre quelle ancora da approfondire riguardano altri soggetti. Ma, anzichè ringraziare Di Matteo per aver dissipato ogni possibile sospetto su sue condotte illecite, Napolitano scatena la guerra termonucleare alla Procura di Palermo, esternando a tutto spiano e mobilitando prima l’Avvocatura dello Stato, poi il Pg della Cassazione e infine la Corte costituzionale. L’Avvocato dello Stato, Ignazio Caramazza, viene attivato subito dopo l’intervista dal segretario generale Marra, perché chieda a Messineo “una conferma o una smentita di quanto risulta dall’intervista, acciocchè la Presidenza della Repubblica possa valutare la adozione delle iniziative del caso”. Il 27 giugno Caramazza scrive a Messineo per sapere come si sia permesso Di Matteo di svelare a Repubblica che sono “state intercettate conversazioni telefoniche del Presidente della Repubblica, allo stato considerate irrilevanti, ma che la Procura si riserverebbe di utilizzare”. Il procuratore risponde con due lettere: una firmata da Di Matteo, l’altra da lui. Entrambe chiariscono ciò che è già chiarissimo dall’intervista: “La Procura, avendo già valutato come irrilevante ai fini del procedimento qualsivoglia eventuale comunicazione telefonica diretta al Capo dello Stato, non ne prevede alcuna utilizzazione investigativa o processuale, ma esclusivamente la distruzione da effettuare con l’osservanza delle formalità di legge”: cioè con richiesta al gip, previa udienza camerale con l’ascolto dei nastri – previsto espressamente dal Codice di procedura penale – da parte degli avvocati. Tutto chiaro? Sì, in condizioni normali. Ma qui c’è il Quirinale che preme, minacciando “le iniziative del caso”. Allora una normale intervista che spiega come la Procura abbia rispettato e intenda rispettare la legge diventa un caso di Stato. Il 16 luglio Napolitano solleva il conflitto di attribuzioni fra poteri dello Stato contro la Procura di Palermo, accusandola di aver attentato alle sue “prerogative”. A fine luglio Ciani apre su Messineo e Di Matteo un “procedimento paradisciplinare”, cioè un’istruttoria preliminare. È lo stesso Ciani che tre mesi prima, su richiesta scritta di Mancino e Napolitano (tramite il solito Marra), ha convocato il Pna Piero Grasso per parlare di come “avocare” da Palermo l’inchiesta sulla Trattativa o almeno di “coordinarla” con quelle sulle stragi a Firenze e Caltanissetta: ricevendo da Grasso un sonoro rifiuto. Il primo agosto un sostituto di Ciani scrive al Pg di Palermo per sapere se Messineo avesse autorizzato Di Matteo a rilasciare l’intervista e  perchè non l’avesse denunciato al Csm per averla rilasciata. Il Fatto lancia una petizione e raccoglie 150 mila firme in un mese: lo vede anche un bambino che il processo disciplinare è fondato sul nulla. IL 10 AGOSTO il Pg di Palermo risponde a Ciani: l’intervista di Di Matteo non richiedeva alcuna autorizzazione e non violava alcuna norma deontologica perché non svelava alcun segreto, visto che la notizia delle telefonate Napolitano-Mancino l’avevano già diffusa Panorama e poi decine di testate. Tutto chiaro? Sì, in condizioni normali. Ma qui c’è il Quirinale che preme. Il Pg Ciani ci dorme su sette mesi. Poi il 19 marzo 2013 promuove l’azione disciplinare contro Messineo e Di Matteo. Il secondo è accusato di aver “mancato ai doveri di diligenza e riserbo” e “leso indebitamente il diritto di riservatezza del Presidente della Repubblica”; il primo, di non averlo denunciato al Csm. Messineo e Di Matteo vengono interrogati il 18 giugno e il 7 luglio, ripetendo quel che avevano sempre scritto e detto. La Procura generale ci dorme sopra altri cinque mesi e mezzo. Poi finalmente, alla vigilia di Natale, deposita le richieste di proscioglimento, scoprendo l’acqua calda: la notizia delle telefonate Mancino-Napolitano non la svelò Di Matteo, ma Panora ma , in un articolo “presente nella rassegna stampa del Csm del 21.6.2012”. Quindi “con apprezzabile probabilità occorre assumere che la notizia… fosse oggetto di diffusione da parte dei mass media in tempo antecedente” a quello dell’intervista incriminata” del giorno 22. Ma va? Ergo “è del tutto verosimile” che Di Matteo tenne “un atteggiamento di sostanziale cautela” e “non pare potersi dire consapevole autore di condotte intenzionalmente funzionali a ledere diritti dell’Istituzione Presidenza della Repubblica”, semmai “intenzionato a rappresentare la correttezza procedurale dell’indagine”. Quindi “la condotta del dr. Di Matteo non si è verosimilmente consumata nei termini illustrati nel capo d’incolpazione, tanto che nessun rimprovero disciplinare si ritiene di poter articolare nei suoi confronti”, né in quelli di Messineo. Così scrivono Galanella e Ciani il 16 e 19 dicembre 2013 nella richiesta di proscioglimento che ora dovrà essere esaminata dal Csm. Ma così avrebbero potuto scrivere – risparmiando a Di Matteo e Messineo un anno e mezzo di calvario – già nel giugno 2012, quando tutti sapevano già tutto. Compreso il Quirinale, che sciaguratamente innescò questo processo kafkiano al nemico pubblico numero uno del Capo dei Capi. E di tanti altri capi.

Il ventennio infinito

Perché quando succede qualcosa agli altri succede e basta, mentre quando succede qui deve disturbare anche gli altri? Per esempio l’Infanta Cristina [infanta? anche basta, comincia ad avere un’età pure lei] messa in stato d’accusa per frode fiscale, la stessa sorte toccò a suo marito qualche anno fa. Il Palazzo Reale ci fa sapere di aver accettato serenamente la decisione e che il Re di lei padre è dispiaciuto [ovviamente, è sua figlia] e morta lì. Altrove non si usa accusare la magistratura cattiva che perseguita le famiglie e le persone “perbene”.
Di lei si riparlerà quando e se andrà a processo e dopo un’eventuale condanna o assoluzione. Mentre le vicende del noto delinquente latitante di casa cosa nostra vengono seguite dalla stampa internazionale praticamente a cadenza quotidiana anche e solo per ridere di questo sciagurato paese. 
Ci deve essere un motivo in tutto questo. Probabilmente un motivo che ha a che fare con la civiltà.

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Ma come si permette Napolitano di andare a dire agli altri quello che devono o non devono scrivere sui giornali? Dopo tutto il repertorio offerto da berlusconi in questi anni alla stampa e all’informazione internazionale per ridicolizzare l’Italia ci mancavano le rimostranze del Napo Capo che s’incazza perché all’estero i giornalisti fanno i giornalisti e la politica non s’impiccia. Con tutto quello che avrebbe da pensare il presidente si preoccupa di quello che fanno i vicini di casa?  All’estero i giornalisti fanno il loro e i cittadini sanno che si possono fidare perché nessuno racconterà loro di cieli azzurri quando e se il panorama è offuscato dal maltempo. Qui invece un presidente della repubblica e del consiglio possono allertare  i loro uffici stampa per andare a disturbare la gente seria che lavora senza preoccuparsi poi  delle reazioni del disturbato che, ovviamente, non può tacere su un fatto così grave mettendo così in ulteriore imbarazzo un paese che non ha certo bisogno di essere “imbarazzato” oltremodo.  Con tutto quello che avrebbe da dire e che dovrebbe dire Napolitano, ad esempio su un magistrato minacciato di morte dalla mafia: non è mai più arrivata mezza parola dal colle circa le minacce mafiose a Nino Di Matteo, ad esempio su quello che ha mostrato l’altra sera Iacona a Presa Diretta, a proposito dei mille e più drammi che angosciano gli italiani il presidente trova il tempo per chiedere che si vada a bacchettare la stampa e l’informazione libere solo perché osano criticare l’anziano monarca?

Gli stati democratici sono indipendenti e sovrani, e la differenza nell’indipendenza e nella sovranità la fanno la politica e i governi che non si fanno influenzare, come accade qui col vaticano, né influenzano, come accade qui con un’informazione che da sempre si fa influenzare più che volentieri. E il dramma è che in un paese ridotto così male per libertà di stampa e informazione sono proprio gli “influenzati” poi a pontificare che in Italia c’è troppa libertà solo perché qualche imbecille sproloquia da un computer. Anche questo di Napolitano si può derubricare ad “errore di comunicazione” come le numerose minchiate con cui ci hanno allietato ultimamente il governo e certi ministri? E che succederà il giorno che non ci sarà nessuno a correggere l’errore? 

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Da Cancellieri a Lupi quanti guai per Letta (Carlo Tecce)

M5S dà sberle al governo Letta, Renzi si prende i meriti

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IL FARAONE DEL KATONGA – Marco Travaglio, 9 gennaio

Era da mezzo secolo, da quando Totò si travestì da ambasciatore del Katonga col lucido da scarpe in faccia, l’anello al naso e la feluca di ordinanza nel film Totòtruffa ’62, che non si rideva tanto.

Ai primi di quest’anno il Quirinale, non si sa nella persona di quale altissimo funzionario, ha protestato con l’ambasciata francese a Roma per una modesta critica mossagli sul suo blog dal corrispondente di Le Monde, Philippe Ridet (leggi qui) . Dopo uno dei tanti moniti da Pizia di Delfi per una tregua nel presunto scontro fra politici e magistrati, Ridet aveva invitato Napolitano a uscire dall’ipocrisia e a chiamare i “politici” col loro nome: Berlusconi. Apriti cielo: “Il Colle – racconta Philippe a Beatrice Borromeo – ha chiamato l’ambasciata francese per lamentarsi del mio articolo. Mi è venuto da sorridere, tanto né l’ambasciata né il mio giornale hanno fatto una piega, ovviamente”.

In quel “sorridere” e in quell’“ovviamente” c’è tutto l’abisso che separa il sultanato del Napolitanistan dal mondo libero. Immaginiamo la scena, e soprattutto la faccia dell’ambasciatore: “Pronto, è l’ambasciata di Francia? Signorina, è il Quirinale, mi passi l’ambasciatore. Pronto, signor ambasciatore, perdoni il disturbo, ma il fatto è davvero grave: un giornalista del vostro paese si è permesso di criticare Sua Altezza Reale. Non lo sapete che è severamente proibito? Non avete ricevuto le ultime disposizioni dell’Ufficio Stampa e Propaganda? Egli è intoccabile, inascoltabile e ineffabile per diritto divino. Prendete buona nota e diramate a tutti i vostri corrispondenti. Per questa volta, passi. Ma la prossima scatta il foglio di via”.

Per vent’anni molti si erano illusi che l’anomalia italiana riguardasse solo B. e i suoi cari, così allergici alle critiche della libera stampa (quella straniera) da molestare le diplomazie di mezzo mondo perché facessero ciò che lui faceva in Italia.

Nel 2002 il governo B. ritirò la sua delegazione dal Salone del Libro di Parigi perché il sottosegretario alla Cultura Vittorio Sgarbi era stato contestato da giovani italiani e francesi e snobbato dal ministro Catherine Tasca. E quando il canale tv franco-tedesco “Arte” trasmise un reportage su “L’irresistibile ascesa di S. Berlusconi”, il Caimano telefonò personalmente al premier Jean-Pierre Raffarin per protestare e chiedere di non replicarlo più. Raffarin rispose incredulo che in Francia il governo non fa i palinsesti televisivi, lì non si usa. Nel 2004 il documentario Citizen Berlusconi sui primi anni di regime berlusconiano fu selezionato all’European Documentary Festival di Oslo: B. ordinò all’ambasciatore italiano in Norvegia di intervenire per bloccarlo, e quello obbedì. Ma giornali e tv locali denunciarono la censura, il pubblico impose la proiezione in ben tre repliche, tanta era la folla interessata a vederlo. Nel 2010 il ministro della Cultura Sandro Bondi disertò il Festival di Cannes perché osava ospitare Draquila, il docufilm di Sabina Guzzanti sugli scandali del dopo-terremoto in Abruzzo. Thierry Frémaux, il direttore del Festival, ironizzò sul ministro che “boicottando il festival ha fatto un buon lavoro” e deplorò l’“inconcepibile atteggiamento contro la libertà di espressione”.

Ecco, qualcuno pensava che – archiviato B. – si potesse serenamente chiudere la parentesi dopo vent’anni e ricominciare. Non era, non è così. L’epatite “B.” ha contagiato tutta la politica e oggi chiunque eserciti una fetta di potere, dal Colle in giù, pretende l’adorazione dei sudditi e scambia ogni critica per lesa maestà. Napolitano – osserva Ridet – “fa politica attivamente, senza sosta” ed “è normale criticarlo sul piano politico”. Invece “ha sempre più l’aura del Re”, anzi del “Faraone” e “sembra che non si possa più giudicarlo, che vada lodato dalla mattina alla sera”. Manco fosse “la regina d’Inghilterra”. La quale peraltro non si sognerebbe mai di chiamare un’ambasciata straniera per protestare contro le critiche della stampa estera al suo ultimo cappellino. Queste sono cose che capitano solo nel Katonga, senza offesa per il Katonga.

 

L’Italia civile è con Nino Di Matteo e i Magistrati antimafia

 C’è un magistrato, si chiama Nino Di Matteo, che sostiene l’accusa nel processo stato-mafia. Totò Riina dal carcere dove è detenuto in regime di 41bis gli ha fatto sapere che gli dà fastidio, che è “tutto pronto” come negli attentati in cui furono disintegrati Giovanni Falcone, sua moglie e la scorta, Paolo Borsellino e la scorta.
Nino Di Matteo  non può presenziare al processo, viaggia su un blindato e mentre qualcuno si chiede e si indigna anche, perché durante la protesta di questi giorni c’era chi inneggiava alla mafia, Di Matteo viene ignorato da tutti, a partire dallo stato che si costerna, s’indigna, s’impegna, poi more solito, getta la spugna. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino parlavano sempre della loro solitudine, e sono stati ammazzati quando lo stato li ha abbandonati. Lo scorso anno Napolitano alla commemorazione di Falcone disse che “vent’anni fa lo stato non si lasciò intimidire”: oggi lo stato, anche per bocca di Napolitano tace e non dice una parola a sostegno di un giudice minacciato di morte dalla mafia.
 Questo blog sostiene Nino Di Matteo, l’antimafia, i giudici, i magistrati che si impegnano e lottano contro la mafia e tutte le criminalità che strozzano il paese, i cittadini onesti, e la Società Civile sempre al loro fianco.

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Tra Stato e mafia: chi ha paura di Nino Di Matteo? Giuseppe Pipitone, Il Fatto Quotidiano

Un uomo non può fare il suo lavoro, perché rischia di essere ammazzato. Non siamo nel Medioevo, non siamo in guerra, non siamo in un Paese barbaro. E l’uomo in questione non fa il rapinatore di banche, il sicario professionista, il contractors addestrato ad uccidere, e quindi ad essere a sua volta assassinato. Siamo in Italia, un Paese civile, senza guerre e in democrazia. E l’uomo in questione fa ilmagistrato, è onesto, è un servitore dello Stato. Antonino Di Matteo è in magistratura dal 1993, l’epoca delle stragi, quando gli venne sputato in faccia il destino del mestiere che aveva scelto: la prima volta che indossò la toga non era formalmente un pm, ma solo un giovane uditore, catapultato a fare da picchetto alle bare delle vittime del botto di Capaci. Altri tempi, direbbe qualcuno. Altro Paese. Altra mafia.

E invece no. E non perché i tempi non siano cambiati: anzi, sono cambiati eccome. L’ala militare di Cosa Nostra non c’è più, i boss stragisti sono al carcere duro, in Sicilia c’è un governatore in aperto contrasto con Cosa Nostra e come seconda carica dello Stato è stato eletto un magistrato impegnato per quarant’anni in indagini antimafia. I tempi sono cambiati. Dicono.

Eppure a leggere la cronaca degli ultimi giorni si potrebbe dire che non solo non sono cambiati, ma forse sono perfino peggiorati. E d’altra parte quando si dice che sono cambiati, nessuno specifica mai se in peggio o in meglio.

Delle minacce di morte a Di Matteo è stato scritto tanto: una lettera anonima ha svelato nei mesi scorsi il progetto di assassinarlo, avallato direttamente da Totò Riina; le microspie nascoste nel carcere milanese di Opera hanno poi certificato che in effetti il capo dei capi desidera ardentemente la sua morte, arrivando addirittura a dire che è tutto pronto e che l’attentato sarà compiuto in maniera eclatante. Inquietante, senza dubbio.

Diversi inquirenti, commentatori, giornalisti (compreso chi scrive) si sono sforzati di trovare unalogica, un senso, una struttura, alle parole di Riina e non è qui opportuno entrare nel merito delle ricostruzioni. Quel che è certo è che le minacce sono fondate: così le considerano gli investigatori, così le ha bollate perfino il ministro degli Interni, non certo uno storico supporter della procura di Palermo. Il responsabile del Viminale è andato oltre: ha lanciato l’allarme stragi, assicurando al contempo che ogni mezzo sarà messo a disposizione per tutelare Di Matteo. Bene, bravo, bis.

Solo che Di Matteo non può fare il suo lavoro. Non può farlo più, perché il rischio di attentato è talmente alto da obbligarlo a muoversi con un Lince, una specie di carro armato, per recarsi alle udienze del processo sulla Trattativa Stato – mafia, fascicolo complesso di cui è il più profondo conoscitore. Ora è vero che le minacce di Riina potrebbero cessare modificando il trattamento carcerario del boss, è vero che con un carro armato si limitano i rischi per Di Matteo, ma è vero anche che  – come si scriveva poco più sopra – i tempi sono cambiati. I boss stragisti dovrebbero essere tutti rinchiusi, e non ci dovrebbe essere alcun pezzo sostanzioso di associazione criminale in grado di farsi beffe della protezione dello Stato: così almeno ci è stato fatto credere. E allora dove sono i nostri servizi di sicurezza? Perché Di Matteo rischia ancora la morte? Nessuno si è occupato di capire cosa stia succedendo nel ventre molle di questo Paese?

Paolo Borsellino venne assassinato perché nessuno, dopo l’eliminazione di Giovanni Falcone, si occupava di capire cosa stesse succedendo dentro Cosa Nostra. E se qualcuno se ne occupava o ha fatto male il suo lavoro, avendo sulla coscienza la strage di via d’Amelio, oppure lo ha fatto fin troppo bene, agevolando e accelerando l’assassino di Borsellino a causa di giochetti, colloqui e negoziati bollati come sicurezza di Stato. Delle due, l’una.

Dicevamo, però, che i tempi sono cambiati. Oggi è lecito sperare che alcun pezzo o apparato di Stato collabori con la criminalità organizzata, o addirittura si sostituisca ad essa. A raccontare di casi simili sono proprio le inchieste che Nino Di Matteo non può oggi portare avanti: uomini di Stato assassinati da pezzi dello stesso Stato. Oggi, che come dicevamo i tempi sono cambiati, è lecito chiedersi quale fosse lo Stato più autentico. E da quale parte stia quello Stato. I silenzi delle più alte autorità, Quirinale in testa, sul caso Di Matteo sono in questo momento più rumorosi di un boato. Da cosa dobbiamo proteggere Di Matteo? E, soprattutto, da chi?

 

Grazia, perché?

Preambolo: non mi unirò alla manifestazione annuale del 25 novembre, giornata internazionale CONTRO la violenza sulle donne, come se fosse normale essere PRO qualsiasi violenza.Come scrivo già da anni questa come tante altre date scelte per celebrare o commemorare qualcosa è una giornata di cui il mondo e i paesi civili non dovrebbero avere bisogno.

Guardo dietro, alle cose che ho scritto per il 25 novembre, per l’otto marzo e mi accorgo che i concetti espressi sebbene con parole diverse sono stati sempre gli stessi: una ripetizione ossessiva delle stesse cose, ad esempio che non si combatte la violenza mostrandola. Queste foto di donne piangenti, coi lividi in volto non servono a ribadire la contrarietà alle violenze ma ad affermarla.

Non si dice no alla guerra mostrando le foto dei danni della guerra. Ognuno penso che abbia ben chiaro in mente il concetto di violenza e di tutte le sue conseguenze.

Un paio di giorni fa sulla pagina facebook di Alessandro Robecchi mi sono beccata una discreta sfilza di insulti, ovviamente da donne, quelle contro le violenze s’intende, per aver scritto quello che penso del cosiddetto “femminicidio”.

Io ho il vizio di ragionare per conto mio, non mi faccio trasportare da movimenti, movimentini blog e blogghettini tutti rosa, un colore che peraltro detesto e nemmeno penso che le donne siano sempre vittime e gli uomini sempre colpevoli.

La mia solidarietà e vicinanza umana vanno comunque a tutte le donne, alle persone costrette a vivere in situazioni distanti da una normale umanità applicata ai gesti e ai comportamenti quotidiani ma, perdonatemi, sono stanca e stufa di inutili slogan e di una propaganda finalizzata ad esasperare e ingigantire di proposito i drammi.

Oggi alla camera della Boldrini è festa. Una parola per Di Matteo, il magistrato minacciato di morte dalla mafia  però non gliel’abbiamo sentita dire. E non l’abbiamo sentita da Grasso, presidente del senato già superprocuratore antimafia e nemmeno da Napolitano che del CSM è il capo supremo. Forse se al posto suo ci fosse stata una donna oggi, ALMENO oggi,  si sarebbe meritata almeno la menzione.

berlusconi è stato l’eccezione, non dovrà mai diventare la regola che si possano stravolgere le leggi costituzionali per dare più diritti a una persona sola rispetto a tutti i cittadini come comanda la Costituzione.
Perché quelle persone che hanno scritto e firmato quelle regole su una Carta che aveva ancora l’odore del sangue della guerra le hanno pensate e rese inalienabili proprio perché non accadesse mai più che uno solo potesse avere più potere di altri. 

Solo degli sciagurati come i politici di questi ultimi vent’anni potevano riuscire nell’impresa di trasformare la Costituzione in carta straccia, e se nessuno li ferma completeranno l’opera di distruzione iniziata vent’anni fa quando ad un abusivo, ad un impostore delinquente già di suo è stato concesso DALLA POLITICA di sedere nel parlamento da presidente del consiglio.

Dice Napolitano che “non ci sono le condizioni per la grazia”. Ma quelle condizioni non c’erano nemmeno prima, non ci sono mai state. La concessione di un provvedimento di clemenza da parte dello stato verso chi ha violato la legge è prevista solo per quei condannati passati poi alla fase successiva di detenuti e che abbiano scontato almeno una parte della pena. Questo con berlusconi non si è verificato: sono 116 giorni che il pregiudicato condannato, il frodatore traditore è libero di poter agitare le masse, minacciare lo stato, promettere sfracelli perché la sentenza che lo ha condannato non è mai stata applicata. E mi piacerebbe che la cosiddetta informazione mettesse questo in evidenza, non la reazione di Napolitano che solo ieri si è ricordato di avvisare berlusconi di non uscire dalla legalità. berlusconi è sempre stato ed ha sempre agito fuori dalla legalità, ma di che parla Napolitano? l’azione eversiva di berlusconi è stata legittimata anche da lui che spesso e volentieri gli ha offerto il sostegno dello stato sottraendolo a quella Magistratura svilita, offesa e oltraggiata solo perché stava facendo il suo dovere, a differenza di berlusconi.  La grazia dovremmo chiederla noi cittadini costretti ad assistere impotenti a queste oscenità a getto continuo, altroché un delinquente condannato dopo un processo durato dieci anni che pretende di essere più uguale degli altri. Se dieci milioni di italiani sono con lui significa che tutti gli altri non sono con lui. E sono, siamo, di più.

Oggi sono tutti antiberlusconiani, anche quelli che in tutti questi anni hanno creduto di trovarsi di fronte all’uomo dello stato anziché all’irriducibile delinquente qual è sempre stato uno che è arrivato a confessare che se non fosse entrato in politica lo avrebbero arrestato, questo, vent’anni fa. 

Oggi è antiberlusconiano anche Napolitano che solo una manciata di mesi fa si mise di traverso fra berlusconi e la magistratura, non per difendere i giudici ma per intimargli di consentire al pregiudicato di poter partecipare alla delicata fase politica nella quale era compresa la sua rielezione a presidente della repubblica: un fatto mai accaduto nella storia della repubblica. 

Si scopre antiberlusconiana anche Anna Finocchiaro che è la stessa che espresse sentimenti di affetto a schifani quando fu eletto presidente del senato arrivando perfino a baciarlo sulla guancia. E si scopre antiberlusconiano anche Marco Meloni, ritenuto vicinissimo a Enrico Letta [il braccia-letta], il quale Letta, nipote dello zio, due estati fa ebbe a dire che piuttosto che ritrovarsi i 5stelle in parlamento erano meglio berlusconi e la sua teppa, forse perché a loro avevano già preso le misure: l’incerto al posto del certo si sa, può produrre sorprese inaspettate. 

 Le larghe intese nascono molto prima di aprile di quest’anno. La politica italiana è naturalmente larghintesista da sempre. Non si mordono le varie maggioranze e opposizioni, perché ognuno sa che può trovare beneficio nell’errore dell’altro che fa sembrare meno grave il proprio.

E da qui al 27, ovvero alla data fatidica che vedrà l’uscita dalla scena politica, almeno da quella istituzionale, di berlusconi chissà quanti altri si scopriranno antiberlusconiani. 

Mentre i Magistrati che in tutti questi anni hanno lavorato affinché non si snaturasse il senso di quella Costituzione che dice che i cittadini sono tutti uguali e che la legge è uguale per tutti no, non sono mai stati antiberlusconiani: hanno semplicemente svolto con rigore e serietà il loro mestiere, nonostante avessero contro anche molti di questi antiberlusconiani dell’ultim’ora, quelli che per vent’anni hanno fatto finta di fare opposizione, quelli che non trovavano scandalosamente eversive le leggi ad personam firmate da chi solo oggi si ricorda che ai delinquenti si può eccome chiudere la porta in faccia, che hanno consentito a berlusconi di poter proseguire il suo cammino in quella politica da lui usata e abusata pro domo i suoi luridi affari. 

Quelli che “non si demonizza l’avversario” anche se è silvio berlusconi, l’eversore antistato. 

Quelli che come Renzi, dopo la prescrizione al processo Mills da lui definita “proscioglimento”, si augurava che la stagione della contrapposizione di matrice antiberlusconiana si fosse conclusa. 

Invece a concluderla, almeno in parte,  non è stata quella politica che ha fabbricato il mostro, è stata la Magistratura a cui la politica ha delegato il lavoro sporco non essendo in grado di farlo probabilmente perché non lo ha potuto fare. 

E mi piacerebbe che di questo ci ricordassimo tutti quando si ritornerà, speriamo, alla normalità stravolta dalle larghe intese napolitane e i partiti torneranno a bussare alle nostre porte chiedendoci i voti e la nostra fiducia.

Grazia, dal Colle l’ultimo no a Berlusconi
“I suoi giudizi sono di estrema gravità”

Grazia, Graziella e grazie al cazzo – Massimo Rocca, Il Contropelo di Radio Capital

Al capo dello stato va riconosciuta la coerenza. Se il malfattore si fosse fatto da parte, lasciando la vita politica, come nella richiamata nota del 13 agosto, la grazia sarebbe arrivata. Adesso è chiaro e confessato. “Non si sono create via via le condizioni, e nulla è risultato più lontano del discorso tenuto sabato dal senatore Berlusconi dalle indicazioni e dagli intenti che in quella dichiarazione erano stati formulati”. Dunque il cavaliere disarcionato rimproveri solo sè stesso. Il Colle la strada per evitare l’umiliazione di pulire i cessi da un qualche reverendo gliela aveva davvero aperta. Alla faccia dell’eguaglianza di tutti di fronte alla legge, Napolitano era pronto a recitare la parte di Gerald Ford con Richard Nixon, a fare quel gesto di pacificazione nazionale che avrebbe garantito la continuazione del berlusconismo senza il suo fondatore. Il solito calcolo di sinistra nei confronti del Caimano. Se mollo un po’, sul conflitto di interessi, sulle leggi vergogna, sulla bicamerale, sulle riforme lo riconduco alla ragione, quella mentale e quella di stato. Vent’anni dopo la lezione di Scalfaro, l’uomo che aveva annullato il berlusconismo in meno di un anno a colpi di par condicio e schiena dritta!