Il “Ri_Presidente”

Non capisco com’è potuta passare la leggenda di Napolitano garante della tenuta dello stato così tanto da meritarsi una seconda elezione, fatto unico nella storia di questo paese.
A memoria non si ricorda un presidente più divisivo: come ha messo lui lo stato contro i cittadini avendo cura che si notasse la differenza fra le varie caste sempre iperprotette, garantite e il popolo, nessuno mai prima.
Mentre il paese fa i conti con le incertezze, le paure per il futuro, col lavoro che non c’è perché invece di usare le risorse già scarse si continuano ad investire tonnellate di soldi pubblici in inutilissimi progetti per il paese ma utili a far mangiare la solita compagnia di giro, mentre il fango inghiotte paesi e città per colpa di quelli che hanno già mangiato, mentre non si trovano mai i responsabili di crimini destinati more solito a restare impuniti, mentre l’Italia è in balia di un chiacchierone inaffidabile, “l’episodio della sinistra”, come lo ha definito D’Alema, il Re Magna_Nimo mantenuto da sessantuno anni dai contribuenti di svariate generazioni, cosa che sarebbe impossibile in qualsiasi altro paese occidentale democratico dove la politica è davvero alternanza di partiti ma soprattutto di persone se ne va a passeggio per il centro di Roma, muovendo scorte, guardie del corpo, automobili blindatissime a comprare personalmente il regalino di compleanno per la moglie Clio. E uscendo dalla gioielleria di Piazza di Spagna non si degna di rispondere al cronista del Fatto Quotidiano che gli chiedeva lumi circa le sue dimissioni come ogni monarca assolutista che si rispetti. Lui ha deciso, lui ha ordinato, lui ha smontato e rimontato a sua immagine e somiglianza, lui ha preteso l’immonda esperienza delle larghe intese perché o così o miseria, terrore e morte come un berlusconi qualunque al quale ha riaperto le porte del palazzo anche da pregiudicato condannato alla galera.

E ora dopo di lui bisognerà trovarne un altro, o, che Dio o chi per lui ci aiuti un’altra che sia il più possibile condivis* per poter garantire ancora e ancora e nei secoli a venire la continuità di questa squallida repubblichetta di infima serie dove lo stato e i suoi poteri hanno disatteso TUTTE le regole scritte nella Costituzione – ché tanto chi se ne accorge con un’informazione che è sempre lì a sciogliere i peana al Re – che erano l’unica garanzia per quel popolo che sovrano non sarà mai più.

Smetto quando voglio – Marco Travaglio

Oddio, Napolitano se ne va e nessuno sa cosa mettersi. Come se non bastassero tutte le cause fisiologiche che fanno fibrillare la politica italiana, se ne aggiunge una patologica: i boatos sulle imminenti dimissioni del presidente della Repubblica. Non si tratta del solito gossip dei retroscenisti appostati nei corridoi dei palazzi: a scrivere che entro fine anno, o al massimo a gennaio, Re Giorgio annuncerà o addirittura rassegnerà le dimissioni sono stati non solo il Fatto (notoriamente poco gradito sul Colle più alto), ma anche due fra i giornalisti più introdotti al Quirinale: Stefano Folli su Repubblica e Marzio Breda sul Corriere. Domenica, dopo 24 ore di silenzio, è arrivata la “nota del Colle”, al solito sibillina e fumantina. “Né si ha da smentire né da confermare” alcunché, ma sia chiaro che “le decisioni che riterrà di dover prendere” sono “esclusiva competenza del capo dello Stato”.

Quindi è tutto vero, ma Napolitano non gradisce che se ne parli adesso ed è furibondo con i giornali e le tv che danno “ampio spazio a ipotesi e previsioni sulle eventuali dimissioni”. E a cosa dovrebbero dare ampio spazio, di grazia? Sta per accadere un fatto mai visto prima: le dimissioni di un presidente (e che presidente: il monarca padrone dell’esecutivo, delle Camere, del Csm e ogni tanto della Consulta, che da 8 anni e mezzo fa e disfa i governi a prescindere dagli elettori e dà ordini e moniti a tutto su tutti) appena un anno e mezzo dopo la sua elezione, destinate a terremotare per mesi e mesi la vita politica con una serie di ripercussioni a catena prevedibili e già tangibili sul governo, sul Parlamento, sulla nuova legge elettorale, sulla nuova Costituzione, sulla “riforma” della giustizia, sulle alleanze fra i partiti, sulle tentazioni di elezioni anticipate, sulla Borsa, sui rapporti internazionali. E di che dovrebbe parlare la stampa? Di Balotelli che torna in Nazionale? O di Razzi che va all’Isola dei famosi?   Vengono rapidamente al pettine i nodi che – in beata solitudine – il nostro giornale evidenziò fin da subito, all’indomani della precipitosa rielezione di Napolitano il 20 aprile 2013 per scongiurare l’ascesa al Colle di un vero cultore della Costituzione come Stefano Rodotà, tradire l’ansia di rinnovamento uscita due mesi prima dalle urne e imbalsamare l’eterno inciucio fra il centrosinistra e Berlusconi. Tralasciando le bugie di Napolitano, che per un anno aveva detto e ripetuto che mai e poi mai avrebbe accettato la riconferma, scrivemmo che il suo discorso di reinsediamento a Montecitorio poneva ufficialmente sia lui sia la Repubblica fuori dalla Costituzione. Il Ripresidente disse infatti che sarebbe rimasto “fino a quando la situazione del Paese e delle istituzioni me lo suggerirà e comunque le forze me lo consentiranno”. E solo a patto che Pd e Pdl si mettessero subito insieme per fare ciò che avevano giurato agli elettori di non fare: un governo di larghe intese per le cosiddette “riforme”, cioè per manomettere la seconda parte della Costituzione e anche la giustizia. Espropriando il Parlamento, unico titolare del potere legislativo, il Presidente Monarca espose alle Camere il suo personale programma politico e le minacciò di andarsene se non avessero obbedito: “Ho il dovere di essere franco: se mi troverò di nuovo dinanzi a sordità come quelle contro cui ho cozzato nel passato, non esiterò a trarne le conseguenze dinanzi al Paese”. Dunque il governo e i partiti dovevano ripartire dai “documenti dei due gruppi di lavoro da me istituiti il 30 marzo”: i 10 fantomatici “saggi” extraparlamentari che, alle dipendenze del Quirinale e senz’alcuna legittimazione popolare, avevano scritto il programma del nuovo governo prim’ancora che nascesse. Insomma, in barba alla Costituzione che prevede un mandato pieno e incondizionato (art. 85: “Il Presidente della Repubblica è eletto per 7 anni”), Napolitano fece sapere che il suo era “a tempo” e “a condizione”.

E quando il suo ex portavoce Pasquale Cascella si lasciò sfuggire a La Zanzara che se ne sarebbe andato ben prima della scadenza del settennato, Re Giorgio con l’aria di smentirlo confermò quel che era chiaro a tutti: “Ho legato la mia rielezione al raggiungimento dell’obiettivo delle riforme e anche alla capacità delle mie stesse forze. Ma nessuno certo è in grado di prevederne la durata, sia per l’uno che per l’altro aspetto”.   Quell’albero marcio, trapiantato un anno e mezzo fa su un Paese ansioso di cambiare, produce oggi i frutti marci che tutti possono vedere a occhio nudo. Napolitano e chi lo rielesse sapevano benissimo che il suo secondo mandato sarebbe finito presto, per ovvi motivi anagrafici. Ma la fregola di mummificare il sistema contro ogni cambiamento fu più forte di ogni buonsenso. E anche dello spirito e della lettera della Costituzione (quella vera, quella del 1948) che, precisa come un cronometro svizzero, prevede un ordinato e sereno funzionamento delle istituzioni, con tempi certi e scadenze prevedibili. Il presidente dura in carica 7 anni perché si deve sapere quando inizia e quando finisce: negli ultimi sei mesi (il semestre bianco) non può sciogliere le Camere (a meno che la sua scadenza coincida con quella della legislatura) affinché il Parlamento sia libero di prepararne la successione senza condizionamenti, con la dovuta calma e serenità. Strano che l’unico presidente ad aver giurato due volte sulla Costituzione non lo sappia, o se ne infischi. Infatti fa sapere che se ne va quando vuole lui e ce lo farà sapere quando pare a lui. Niente semestre bianco, e Parlamento sotto ricatto fino all’ultimo giorno. La bomba a orologeria delle sue dimissioni anticipate seguiterà a ticchettare per settimane, forse per mesi, ben nascosta sotto le istituzioni, destabilizzandole vieppiù con uno stillicidio di indiscrezioni, moniti e finte smentite. Intanto l’Italia resterà appesa agli umori e ai malumori di un vecchietto bizzoso e stizzoso che cambia idea a seconda di come si sveglia. Nessuno, tranne lui, sa quando finirà il toto-Quirinale. Forse finirà soltanto quando Sua Maestà avrà qualche finto successo da sbandierare (una legge elettorale, una riforma della Costituzione, del lavoro e della Giustizia purchessia) per mascherare il misero fallimento del suo bis; e magari anche la garanzia che il suo successore sarà un suo clone e non farà nulla per riportare l’Italia dalla monarchia alla Repubblica. Solo allora abdicherà e, quando lo farà, sarà sempre e comunque troppo tardi.

Il Napo dello stato

Sottotitolo: gli manca solo l’abigeato e poi li ha commessi tutti.

Corruzione, Berlusconi a processo
Rinvio a giudizio con Lavitola

Come se non se lo aspettassero tutti:  come se Napolitano e il pd non sapessero che sarebbe arrivata la raffica dei procedimenti penali quando hanno fatto le belle larghe intese.  Ma naturalmente ci tocca riascoltare la solita tiritera dei giudici cattivi che ce l’hanno con lui, il rewind di tutta la pletora dei berlusclowns senza dignità che difendono il povero delinquente perseguitato.

E con uno così in circolazione, a piede ancora libero dopo una condanna definitiva, un pericolo pubblico, una mina vagante in questo residuo di democrazia che abbiamo ancora a disposizione [per poco eh?] il bel governo utile, quello che doveva servire a risolvere le prime urgenze e a fare una legge elettorale meno pornografica e oscena di quella di calderoli pensa a disintegrare la Costituzione e Napolitano all’indulto e all’amnistia.
Questo paese è in ottime mani.

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PD, L’ALTRO GOLPE DEI 101 (Antonio Padellaro)

 BLOG DI MARCO TRAVAGLIO: LE LARGHE FRAINTESE 

LA NOTA DEL COLLE: “SOLO IL FATTO CREDE A CERTE PANZANE” 

Napolitano si sente vittima di complotti“Calunnie gettano ombre su istituzioni”

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Che vuole Napolitano, gli editoriali e le articolesse li facciamo scrivere tutti a Scalfari così lui non si dispiace?
Ma quante volte sono che il presidente della repubblica “si augura, auspica che…” a proposito dell’informazione, nella fattispecie quella del Fatto Quotidiano?
Ce lo vedo Obama fare un monito contro la stampa, negli States.

E il bello è che il cosiddetto garante ha ancora il coraggio di parlare di “calunnie e faziosità che minano e destabilizzano l’equilibrio dello stato, il governo e le istituzioni più alte” il giorno che si viene a sapere dell’ennesimo procedimento giudiziario verso quel delinquente condannato a cui proprio lui consentì nel marzo scorso, di “partecipare alla delicata fase politica”, entrando come di consueto a gamba tesa nelle questioni giudiziarie relative all’allora futuro pregiudicato berlusconi che ha potuto così contribuire alla sua rielezione e alla formazione dell’oscenità delle larghe intese nonostante tutti sapessero, anche il pd che le ha accettate, della sfilza di procedimenti penali a cui stava per andare incontro, fra i quali una condanna definitiva per frode fiscale. E questa è una cosa che, insieme a molte altre la stampa e l’informazione dovrebbero rinfacciare a Napolitano fino all’ultimo dei suoi giorni, altroché “panzane” e destabilizzazioni. Cosa c’è di più destabilizzante e che mina la credibilità delle istituzioni di un presidente della repubblica, di uno del consiglio, di un governo voluti, pretesi da un fuorilegge con l’obiettivo, sempre quello, di sistemarsi i suoi affari e affaracci come ha fatto per venti lunghi anni? Quale segreto serpeggia a Palazzo che inquieta e turba così tanto il Napo dello stato che non riesce proprio a prendere una posizione di distacco da berlusconi, che pensa che la soluzione ai problemi immensi di questo paese risieda nel disfacimento di quella Costituzione che è l’unico e ultimo baluardo di quel che resta di una democrazia a cui ogni giorno viene segato un pezzo proprio perché è stata pensata per difendere la democrazia ma continua a prendersela coi giudici, coi giornalisti, con la Rete colpevole di dare la possibilità di esprimere un dissenso ad una società civile a cui la politica ha tolto voce, quella sì, vilipesa e oltraggiata tutti i giorni?

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Non vuole l’opposizione, non vuole la stampa libera, dimostra fastidio nei confronti delle opinioni altre e si mette a battibeccare anche coi passanti che gli rinfacciano di aver firmato ogni porcheria incostituzionale.

Ha detto che non si sarebbe più reso disponibile ma la viva e vibrante necessità lo ha spinto al gesto estremo del sacrificio per il bene del paese ma prima di tutto il suo, visto che due o tre giorni dopo l’incoronazione per acclamazione sono state fatte sparire le prove di certe sue conversazioni con un ex ministro indagato per falsa testimonianza in un processo per mafia. 

Considera il Palazzo casa sua anziché una residenza istituzionale quale dovrebbe essere e lì riceve gente che non dovrebbe avere nessun motivo di essere accolta, ad esempio un appena condannato a sette anni per concussione e sfruttamento della prostituzione minorile scambiato forse per uno statista con cui discutere dei fatti importanti, della politica e a cui delegare la possibilità di avere voce in capitolo nelle scelte e nelle decisioni di tutto un paese, nonché un paio di teste di legno di un delinquente condannato per aver rapinato lo stato, uno dei quali sembra che sia apparentato addirittura con l’attuale capo del governo, che hanno libero accesso al Palazzo a qualsiasi ora del giorno e della notte.

Da mesi chiede incessantemente delle riforme circa leggi e Costituzione ad un governo selezionato dal delinquente di cui sopra e da lui medesimo dopo aver vaneggiato negli anni e nei mesi scorsi di un cambiamento all’interno del parlamento e della politica affinché i cittadini si riavvicinassero alla politica e alle istituzioni contro tutti i populismi e le demagogie.
E contro quell’antipolitica che lui rappresenta alla perfezione.

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La calunnia è un venticello – Massimo Rocca, il Contropelo di Radio Capital

All’improvviso vi trovate in casa un amico o un conoscente. Ma tu che ci fai qui, come hai fatto a entrare? Ho forzato la serratura. Magari qualche dubbio sulla vostra relazione vi verrebbe, no? Ebbene è quello che è successo, sta succedendo, succederà con la nostra Costituzione. Camera e senato continuano, anche se di pochissimo ieri, a procedere a colpi di grimaldello nei confronti del lucchetto dell’articolo 138, uno dei 5 sacrissimi che formano il titolo sesto, quello delle garanzie costituzionali. Ormai c’è solo più un passaggio prima che il parlamento dia il via libera alle procedure di riforma. Quella che nasce sotto l’usbergo di chi quella costituzione ha giurato di difendere dall’articolo 1 fino al 139 è una riforma che, vigente la carta, è incostituzionale. Eppure non passa giorno senza che arrivino sproni e incitamenti a far presto, quasi che si temesse che prima o poi un raggio di luce scenda ad illuminare gli scassinatori. Che questo infido e ignobile equilibrio politico che sta consentendo l’inimmaginabile possa disintegrarsi. E chiamatele pure, se volete, calunnie.

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I protocolli dei savi di silvio
Marco Travaglio, 24 ottobre

I casi sono due: o Silvio Berlusconi è vittima di un’allucinazione e si è convinto che in cambio dell’appoggio al governo Letta avrebbe ottenuto un qualche salvacondotto giudiziario; oppure qualcuno gli ha davvero promesso, o fatto balenare, o lasciato credere con quelle formule allusive del dire e non dire che contraddistinguono il politichese italiota. Perché una cosa è certa: da quando, a fine aprile, sono nate (anzi rinate) le “larghe intese” con un governo presentato da tutti i giornali e da tutte le parti coinvolte come “di pacificazione nazionale”, dopo “vent’anni di guerra civile”, non passa praticamente giorno senza che B. o qualcuno dei suoi invochi l’intervento di Napolitano per salvarlo dagli arresti o dalla decadenza o da tutti e due come se fosse un atto dovuto, o almeno promesso. E questo non lo scrive il Fatto bevendosi le “panzane” della Santanchè. Lo scrivono da sei mesi tutti i giornali. Rispondere che Napolitano quel salvacondotto non l’ha (almeno per ora) concesso e dunque si tratta di “panzane”, significa rivoltare la frittata. L’interrogativo rimane: che cosa si dissero, nei loro segreti conciliaboli, Napolitano e Letta jr. da una parte, e B. e i suoi numerosi sherpa sguinzagliati ogni due per tre sul Colle da quando il presidente fu rieletto per volontà di B. e il premier fu scelto da B.?

Il 24 giugno B. viene condannato al processo Ruby. Il 25 viene ricevuto a Palazzo Chigi da Letta Nipote e il 26 al Quirinale da Napolitano, che fa sapere di averlo invitato lui. Per parlare di che? Del tempo e della pioggia? B. fa sapere ai suoi che il Presidente “vuole la pacificazione e mi è vicino” e lui l’ha invitato a “non restare neutrale di fronte al trattamento che sto subendo”. Poi aggiunge: “Se mi danno il salvacondotto mi ritiro dalla politica”. Il 9 luglio la sezione feriale della Cassazione fissa per il 31 il processo Mediaset per evitarne la prescrizione. Il Foglio la accusa di “distruggere d’un colpo il lavoro di costruzione di un equilibrio possibile realizzato da Napolitano”. Il 1° agosto la Cassazione condanna definitivamente B. per frode fiscale. Napolitano comunica dalle ferie: “Ritengo e auspico che possano ora aprirsi condizioni più favorevoli per l’esame in Parlamento dei problemi relativi alla giustizia”. Che c’entra la riforma della giustizia con la condanna di B.? L’indomani, secondo vari giornali, Napolitano riceve le telefonate di Schifani e Berlusconi e forse addirittura una visita in Alto Adige di Gianni Letta: per parlare di che, delle marmotte e degli stambecchi?

Il 3 agosto Bondi avverte: “Agibilità politica a B. o guerra civile”. Napolitano s’infuria: “Parole irresponsabili”. Cicchitto gli rammenta i protocolli segreti delle larghe intese: “Questo governo implicava anche una pacificazione che attenuasse lo scontro frontale berlusconismo antiberlusconismo fondato sull’uso politico della giustizia”. Il Colle replica che non è arrivata nessuna domanda di grazia. Il giorno 4, pesante avvertimento di Sallusti su Il Giornale: “Napolitano, sveglia. C’è in gioco la democrazia e il presidente fa l’offeso. Ma quando toccò a lui la porcata giudiziaria…”. Il 5 Napolitano riceve per un’ora e un quarto i capigruppo Brunetta e Schifani saliti al Colle per invocare “l’agibilità politica”, cioè il salvacondotto per B. Alla fine, non dice affatto di averli respinti con perdite, ma che “esamina con attenzione tutti gli aspetti delle questioni prospettate”. Quali questioni? Il solleone agostano? Il 13, finito di esaminare le questioni, Napolitano dirama una nota ufficiale in cui spiega a B. che cosa deve fare per ottenere la grazia: presentare “la relativa domanda”, “prendere atto” della sentenza di condanna, accettare la pena che “la normativa vigente esclude debba espiare in carcere” (falso), ma in forme “alternative” che il giudice potrà “modulare tenendo conto delle esigenze del caso concreto” (intromissione nell’autonomia del giudice).

Poi il presidente esaminerà “un eventuale atto di clemenza individuale che incida sull’esecuzione della pena principale”. Il Giornale, mai smentito, scrive che il messaggio è stato “concordato” con B. che l’avrebbe “letto in diverse stesure, fino a quella definitiva”. Il 10 settembre il suo consigliere Macaluso, intervistato da Repubblica , traduce: “Napolitano ha spiegato che lui una grazia estesa anche alla pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici, non la concederà mai. Non è materia di discussione. Una eventuale valutazione sarebbe circoscritta, quando e semmai dovesse arrivare una domanda di Berlusconi al Quirinale, alla condanna principale”. E l’amico Scalfari scrive più volte su Repubblica che B. deve dimettersi da senatore, poi Napolitano lo grazierà. Nessuna smentita del Colle alle panzane sulla grazia. Il 24, gran consiglio Pdl ad Arcore: i falchi Verdini e Santanchè convincono B. che Napolitano “lo prende in giro”. Alfano si appella “alle massime istituzioni della Repubblica, al premier e ai partiti della maggioranza” perché “garantiscano piena rappresentanza” a B. e ai suoi elettori.

L’indomani Violante apre al ricorso alla Consulta contro la legge Severino, seguito da uno stuolo di scudi umani vicinissimi al Quirinale (Cancellieri, Capotosti, Fiandaca, Onida, Manzella, Vietti e i saggi ri-costituenti Caravita di Toritto, De Vergottini e Zanon). Napolitano ci mette il timbro, facendo sapere al Corriere che ha “letto con attenzione e apprezzamento” l’uscita di Violante. Il 30 B. mette la museruola a falchi e pitonesse e dichiara: “Napolitano se vuole può fare tutto: dare la grazia, commutare le pene, risarcire il danno morale”. Poi ricorda – come riferisce Ugo Magri su La Stampa – che “in un incontro mesi fa al Quirinale, Napolitano gli avrebbe fatto balenare vie d’uscita. Ed è anche in base a questi affidamenti che il Pdl si sarebbe deciso a sostenere le larghe intese”. Il 26 Repubblica e Libero gli attribuiscono una frase ancor più minacciosa: “Rivelerò a tutti le promesse che mi ha fatto Napolitano quando abbiamo acconsentito a far nascere il governo Letta”.

Il 27 Gianni Letta risale al Colle: per invitare Napolitano a una castagnata? Il 3 settembre, accusato dal Giornale di “attentare alla Costituzione” e di essere “mandante e carnefice” dell’eliminazione di B., Napolitano – racconta La Stampa – telefona furente a Letta zio: “Berlusconi, se vuole la clemenza, non può illudersi di non pagare un prezzo politico e di evitare tanto la decadenza quanto le pene accessorie”. Il 6 riceve Confalonieri e il solito Gianni Letta al Quirinale: per parlare dei palinsesti Mediaset? Il 20 intima davanti al Csm di “spegnere il conflitto fra politica e giustizia”. Il 1° ottobre, su Tempi, B. accusa Letta e Napolitano di “distruggere la loro credibilità” e “affidabilità” perché rifiutano di “garantire l’agibilità politica al proprio fondamentale partner di governo” e consentono il suo “assassinio politico per via giudiziaria”. 2 ottobre B. cambia idea e vota la fiducia al governo perché – dice – “abbiamo avuto rassicurazioni da Letta”: sul prezzo dei fagiolini? Il giorno 8, guardacaso, Napolitano si appella alle Camere perché approvino l’amnistia e l’indulto. Questa è la consecutio tempurum degli ultimi mesi, tratta dalle cronache di tutti i giornali escluso il Fatto, che scrive “ridicole panzane” e dunque non conta. Signor Presidente, come si dice dalle sue parti: “ccà nisciuno è fesso”.

«Cosa vogliono questi signori? La base non la ho sentita…» [Anna Finocchiaro]

E ancora: scusi, ci spiega perché il Pd non vota Rodotà?
«Guardi, di lui non abbiamo proprio mai parlato».

[Beatrice Borromeo intervista Anna Finocchiaro sul Fatto di oggi].

Ma l’articolo 67 non si applica anche ai grandi elettori?
Dunque se il segretario di un partito ordina di fare una scemenza come quella di votare scheda bianca e rimandare ad oltranza questo stillicidio non ci si può ribellare in funzione del fatto che “ogni membro del parlamento rappresenta la nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato?”
Esercitare, per una volta, il buon senso personale sarebbe pretendere troppo?

Dire no ad un’ottima persona come Stefano Rodotà appellandosi all’assurdo principio del “perché l’ha detto Grillo” [e non è così, casomai l’hanno detto gli elettori 5S  dimostrando di essere molto più lungimiranti di quelli di altri partiti], è il sintomo, la conferma che la politica, e nella fattispecie quella che dovrebbe, per posizione, principi, valori, essere più vicina alla gente e non agl’interessi di qualcuno non ha capito nulla di quel che è accaduto in questo paese,  non ha saputo ascoltare e raccogliere le istanze, le richieste della gente, che non le interessa affatto il cambiamento, il miglioramento ma che – al contrario – l’obiettivo è sempre lo stesso: il mantenimento in essere di tutto ciò che era ed è e di cui, evidentemente, non ci si può liberare. 

 Si preferisce tenere un intero paese in ostaggio delle manovre [sporche] di palazzo, lasciare che navighi a vista in funzione degli interessi di qualcuno: sempre lo stesso qualcuno.

Qui siamo oltre il ricatto, io mi prendo la libertà di pensare che si è arrivati alla minaccia vera e propria, non c’è altra spiegazione.

Non è mai bello infierire sulle sconfitte altrui, umanamente mi dispiace per Bersani ma, il fatto che a fregare Bersani siano stati proprio i suoi e non altri, i ‘nemici’, quei fascisti del web così tanto temuti e temibili, i potenziali guastatori dello stato, non so, mi provoca una sensazione di perversa piacevolezza.

Di cosa è morto il Pd di Bersani

Saper ascoltare, nel 2013, non è più un’opzione: è una condizione igienica. Come saper leggere e scrivere, insomma. Anni e anni di mancanza d’ascolto sono esplosi in 48 ore. Anni in cui i messaggi che arrivavano anche via Internet – da persone in carne e ossa, militanti, simpatizzanti, elettori – veniva derubricato a ‘popolo del Web’, come se fosse una corrente, una nicchia movimentista, minoritaria e un po’ rompiscatole.

Alessandro Gilioli la pensa come me, la qual cosa non risolve ma, aiuta.

Sottotitolo: la toppa colossale è stata aver permesso che fosse berlusconi a scegliersi il SUO presidente, altroché il garante, il presidente condiviso, quello delle larghe intese. Franco Marini nel 1997 aveva già partecipato, durante una cena a casa di Gianni Letta a cui era presente, oltre alla volpe del Tavoliere e al diretto interessato anche Fini, al famoso patto della crostata, da cui scaturì la tragica bicamerale con la quale d’alema, da presidente della stessa, consegnò a berlusconi le chiavi del paese.

Scriveva Trilussa: “e come disse er merlo ar tordo… sentirai er botto si nun sei sordo…” 

Significa più o meno che, se nemmeno dopo una serie di avvertimenti circa un pericolo incombente il soggetto,l’obiettivo di un possibile danno non pensa che sia il caso di mettersi al riparo e prendere gli opportuni provvedimenti, le contromisure, quando poi quel pericolo arriva, un po’, un bel po’, se lo è cercato.

L’umana comprensione non può né deve impedire di restare obiettivi, di pensare che gli avvertimenti ci sono stati, che c’è stata una larghissima parte di società civile che in tutti questi anni ha detto delle cose, ha fatto sapere alla dirigenza del pd quello che non andava bene, ci sono stati autorevoli intellettuali, alcuni, e in verità pochi giornalisti [ché la maggioranza si sa, tiene famiglia] che qualcosa hanno scritto a proposito di accordi che non accordavano, di intese che non intendevano e che venivano giustamente interpretate male dalla gente che ancora oggi non riesce a capire come si può essere così irresponsabili da sacrificare tutto di se stessi per andare incontro alle esigenze dell’impostore al quale degl’interessi della gente e del paese non frega nulla: tutti sanno ormai cosa interessa a silvio berlusconi e quali sono le sue priorità.
E oggi, per una questione di orgoglio, per non aver voluto accettare la proposta di Rodotà presidente della repubblica solo perché arrivata dai 5S – dei quali tutto si può dire meno che non abbiano dimostrato molta più intelligenza dei cosiddetti politici navigati nella scelta dei candidati – l’Italia rischia di ritrovarsi di nuovo punto e a capo, gli italiani spettatori di questo film dell’orrore che dura da diciotto anni e cioè quello di un parlamento e di una politica avvitati ancora e di nuovo nelle faccende di chi vive la sua vita e agisce in assoluto spregio e sfregio di leggi e regole, nella risoluzione dei suoi problemi.
Tutto questo mentre il paese affonda ma la politica sembra non sembra essersene accorta.

 

Prodotà
Marco Travaglio, 20 aprile

A questo punto, con tutto il rispetto che si deve agli infermi, chi vuol bene a Pier Luigi Bersani dovrebbe mettergli accanto un pool di infermieri e di sanitari per assicurargli le cure e le assistenze del caso. Il pover’uomo, dopo aver perso le elezioni già vinte regalando agli avversari una dozzina di punti in due mesi, anziché dimettersi all’indomani del voto è rimasto al suo posto fino a ieri notte per propiziare un’altra ragguardevole serie di catastrofi. Prima s’è accaparrato le presidenze di due Camere senz’avere nemmeno un terzo dei voti. Poi ha preteso di guidare il governo senz’avere i numeri al Senato. Infine ha mandato al macello due fondatori del Pd, Marini e Prodi, senza preoccuparsi di garantire loro neppure l’appoggio dei suoi (figurarsi quello di altri). Intanto, nel breve volgere di 50 giorni, ha tentato di allearsi con tutti i partiti: M5S, Lega, Monti, Pdl (manca solo Casa Pound, ma solo perché non è in Parlamento) e ha preso pesci in faccia da tutti. Così ha spappolato il suo partito. Ha regalato un trionfo al rivale Renzi che, a lungo accusato di essere la quinta colonna di B., ora può intestarsi il merito di aver fatto saltare l’inciucio con B. Ha fatto di Grillo un idolo di una parte dei suoi elettori, che preferiscono di gran lunga i candidati al Colle di 5Stelle ai nomi partoriti dagli strateghi del Nazareno. E, non contento, ha gettato alle ortiche l’offerta (finalmente generosa) di Grillo, che gli avrebbe consentito di sciogliere in un colpo solo i nodi del Quirinale e del governo con un asse del rinnovamento che avrebbe messo nell’angolo B. e soddisfatto i desideri dei due terzi degli italiani. Al suo posto, qualunque persona di buonsenso avrebbe appoggiato Rodotà, che piace ai 5Stelle e a buona parte degli elettori ma anche degli eletti del Pd, e possiede un forte serbatoio in Parlamento (250 al terzo scrutinio, 213 al quarto), ben oltre i voti pentastellati. Basterebbe il 50% del centrosinistra per mandarlo al Quirinale e, subito dopo, aprire le trattative con Grillo per un governo presieduto da una figura extra-partiti. Il principale ostacolo a questa soluzione ideale fin dall’inizio, e cioè Napolitano, è stato infatti rimosso con la sua meravigliosa discesa dal Colle. È vero che Prodi è il migliore della vecchia guardia. Ma proprio per questo la sua candidatura andava preparata e protetta con cura: invece è stata gettata in pasto al mattatoio dell’aula, dove i cecchini dalemiani, mariniani, bersaniani e forse renziani hanno massacrato non solo lui, ma tutto il Pd. Anche un bambino tonto avrebbe capito, dopo lo tsunami anti-Marini, che in questo Parlamento non passa nessun simbolo dell’Ancien Régime. E che occorre un colpo di reni per un’idea nuova. Bersani e i geni che lo circondano non l’hanno capito. Né l’han capito alcuni D’Alema boys, che ancora sperano di arraffare il Colle, come se nulla fosse accaduto. O forse l’hanno capito benissimo, ma sono già d’accordo con B., che è un modo come un altro per suicidarsi. A questo punto, a meno che questi dementi capaci soltanto di spararsi sui piedi non vogliano mandare al massacro altri agnelli sacrificali, le soluzioni sono solo due.
La prima (in tutti i sensi): il Pd, o quel che ne resta, vota Rodotà e si riprende per i capelli a un millimetro dalla tomba, ma soprattutto salva l’Italia dal caos, andando a parlare coi 5Stelle per un governo Zagrebelsky o Settis. La seconda (ai limiti dell’impossibile): il Pd insiste su Prodi, convincendolo a ritirare il ritiro; e chiede a M5S
i 110 voti che gli mancano, promettendo in cambio di indicare subito Rodotà premier. L’alternativa è l’abbraccio mortale al Pdl su Cancellieri o Amato o D’Alema o Grasso o 
ri-Marini o ri-Napolitano, che garantirebbe a B. il trionfo eterno. 
Chi, nel Pd, pensa che votare Rodotà sia la fine del Pd non vede che il Pd è già finito.
Anzi, vien da domandarsi che diavolo avrebbe combinato al governo, visto che non governa neppure se stesso. 
Fate la carità: arrendetevi. 
Almeno al buonsenso.

Settetè

Sottotitolo: l’Italia è all’ultimo posto nella classifica europea per istruzione e cultura. Al primo c’è l’Estonia, e chi l’avrebbe mai detto.

Quindi  tutto si adegua a questo trend, la maggior parte della  gente che poi va a votare da ignorante e anche i rappresentanti di uno stato mediocri, che pensano che un paese possa fare a meno di istruzione e cultura  ma che qualcuno spaccia per grandi statisti che si spendono per il bene comune.

Basterebbe rassegnarsi al fatto che l’Italia è, ancor prima di un paese non normale un paese mediocre, in assenza di aspettative, perché non c’è nessuno in grado di realizzare niente di significativo staremmo meglio tutti.

Basta guardare all’entusiasmo generale con cui si considera Emma Bonino degna di rappresentare l’Italia per rendersi conto della mediocrità, per  capire il livello di questo paese pieno di gente a cui non interessa rialzare la testa, un paese pieno di gente a cui non interessa rinnovare per migliorare.

Preambolo: superstizione vuole che uno specchio rotto equivalga a sette anni di guai.

 Io non sono superstiziosa ma in quanto ai guai prodotti dal settennato di Napolitano c’è l’imbarazzo della scelta, vengono le vertigini a riconsiderarli tutti.
Con buona pace di quelli che “Napolitano si è dimostrato un perfetto garante della Costituzione”, che tutto quello che ha fatto “glielo obbligava la Costituzione”.
Che “diversamente non si poteva proprio fare”.
Per l’arzillo fondatore di Repubblica e per tutti quelli sempre pronti, lancia in resta, a difendere anche i sospiri di Giorgio Napolitano a sprezzo del ridicolo, anche di fronte all’indifendibile.
Per tutti quelli a cui è passata l’insana idea per la testa di chiedere ad un quasi novantenne che sta in parlamento da sessant’anni di restare
dov’è per garantire sicurezza all’Italia.
Quale, sicurezza?
Chiedo.

In un paese anche e solo apparentemente normale il garante della Costituzione e di tutti avrebbe tolto da un bel po’ il titolo di Cavaliere della Repubblica italiana a un disonesto impostore abusivo che ha disonorato ripetutamente l’Italia, la Repubblica e quella Costituzione che all’articolo 54 chiede, ordina anzi che “i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore”, non lo avrebbe certamente favorito fino ad oggi per consentirgli di poter partecipare a “questa delicata fase politica”.
Lo avrebbe fatto molto prima affinché la gente capisse con chi aveva a che fare, invece di farlo passare per un interlocutore politico davvero determinante e ancorché rispettabile, anziché l’abusivo impostore che è.
E, sempre in quel paese anche e solo apparentemente normale il garante supremo della Costituzione e di tutti avrebbe speso due parole per un Magistrato antimafia minacciato di morte dalla mafia e bacchettato dai suoi superiori, anziché essere sostenuto, invece di concedere la grazia ad un sequestratore latitante in virtù di chissà quale ragion di stato [e di quale stato, soprattutto], disattendendo ancora una volta la Costituzione che prevede che il graziato abbia scontato almeno una parte della pena come già era successo in occasione della grazia concessa a un diffamatore per mestiere.

E’ vero che gli italiani dimenticano, non per colpa loro ma di un’informazione che svicola, evita, tace.

Ad esempio, Silvia Baraldini ha dovuto scontare 23 anni nelle carceri americane, in condizioni fisiche precarie, da malata, prima di esser graziata.
Il sequestratore americano non ha scontato nemmeno mezz’ora di carcere, anzi, se ne stava bello tranquillo e coperto nella sua latitanza, ma questo non ha impedito a Napolitano di obbedire agli ordini di uno stato estero e di concedere una grazia che non gli spettava così come non sarebbe spettata nemmeno al diffamatore sallusti.

Quanto ancora dovremo pagare la sudditanza al vaticano e all’America? sempre, nei secoli dei secoli presenti e futuri?

Sette anni, e sentirli
Marco Travaglio, 7 aprile

Si avvicina il giorno dell’inventario dei danni fatti in questi sette anni da Giorgio Napolitano. Dalle firme apposte alla velocità della luce sulla peggiori leggi vergogna di B., in gran parte incostituzionali, ai continui moniti a ogni indagine giudiziaria che coinvolgesse il potere (Unipol-Antonveneta, Potenza, Why Not, Salerno-Catanzaro, Rai-Mediaset, lady Mastella, Rifiutopoli a Napoli, Ruby, trattativa Stato-mafia) contro il presunto “scontro fra politica e magistratura” che mettevano sullo stesso piano i politici aggressori e i pm aggrediti. Dalla riabilitazione di Craxi agli attacchi a Grillo proprio alla vigilia di tornate elettorali. Dal progressivo ampliamento progressivo dei poteri e
delle prerogative presidenziali, ben oltre i limiti della Costituzione, fino alla pretesa da monarca assoluto di non essere ascoltato neppure quando parla con un inquisito intercettato. Dalle interferenze nell’indagine palermitana sulla trattativa per conto di Mancino al recente, incredibile diktat ai magistrati (che han subito obbedito senza fiatare) di sospendere i processi a B. per marzo-aprile in nome di inesistenti impedimenti politico-istituzionali. E poi il salvataggio di B. nel novembre 2010 con il rinvio del voto di sfiducia a dopo la finanziaria (intanto quello comprava deputati un tanto al chilo). E il risalvataggio di B. nel dicembre 2011 con l’idea geniale del governo Monti al posto delle elezioni che avrebbero asfaltato il Caimano. E il rifiuto opposto ai 5Stelle di considerare un premier apartitico (ingenuamente non indicato dai grilli) per favorire l’inciucio Pd-Pdl, con “saggi” incorporati. E la gestione demenziale del caso dei due marò, ricevuti in pompa magna al Quirinale come eroi nazionali. E, dulcis in fundo, le grazie concesse ad Alessandro Sallusti, condannato a 14 mesi per aver pubblicato su Libero notizie false, mai smentite e gravemente diffamatorie contro un giudice torinese; e al colonnello americano della Nato Joseph Romano, condannato a 7 anni definitivi per il sequestro di Abu Omar e latitante dal 2007. Mai, prima d’ora, l’istituto della grazia era stato usato per sconfessare sentenze definitive appena pronunciate e salvare condannati che non avevano scontato un giorno di pena. A riprova del fatto che Napolitano è convinto di essere il capo della magistratura, legittimato a impartirle ordini e a raddrizzarne i verdetti se non collimano con i suoi capricci o con le pretese di un “alleato” che tratta l’Italia come il cortile di casa propria, dal Cermis ad Amanda Knox. Forse non tutti colgono lo scandalo di questa grazia. Romano è stato giudicato colpevole dalla Cassazione per aver rapito nel 2003 — insieme a 27 agenti Cia e con l’appoggio del Sismi del generale Pollari – l’imam di Milano e averlo poi imbarcato della base Nato di Aviano a quella di Ramstein, e di lì al Cairo, dove fu interrogato e torturato per mesi. Il sequestro — scrive la Cassazione – “venne realizzato per trasportare il prigioniero in uno Stato, l’Egitto, nel quale era ammesso l’interrogatorio sotto tortura, a cui Abu Omar fu effettivamente sottoposto”. E pazienza se “la tortura è bandita non solo dalla leggi europee”, ma anche da mezza dozzina di convenzioni Onu e Ue. Tutte regolarmente sottoscritte dall’Italia, tutte violate dai sequestratori italiani e americani di Abu Omar e dai governi italiani di destra e di sinistra, che dal 2006 a oggi proteggono questi delinquenti col segreto di Stato, con tre conflitti di attribuzioni contro i giudici alla Consulta e col blocco dei mandati di cattura disposti dai giudici per assicurarli finalmente alla giustizia.
Chissà che ne pensa la neopresidente della Camera Laura Boldrini, giustamente sensibile ai diritti umani, del sequestro e della grazia a un latitante che non ha scontato un giorno di galera e non rischiava neppure l’arresto. Si spera che al prossimo giro salga al Quirinale un custode della legalità e della Costituzione.

Radicali liberi

Bonino al Quirinale, si fa presto a dire Travaglio

Questa è miseria.
Ma non politica o istituzionale, proprio umana.
E questo può succedere solo in un paese dove la figura del giornalista e quella dell’uomo, o in questo caso della donna politica vengono equiparate.
Dove il dovere di un giornalista di informare viene confuso col discredito, e dove ancora troppa gente non ha capito che ogni volta che un politico si mette ad opinare e a battibeccare coi giornalisti compie SEMPRE un abuso, perché il gioco non è e non sarà mai ad armi pari, fra il potente e il giornalista.
Se l’Italia è un paese da buttare è anche grazie a chi a tutto questo non solo non si oppone perché non capisce, non ci arriva, ma si mette dalla parte del potente com’è accaduto con Grasso.

Nel giornalismo l’unico parametro con cui misurare e valutare un fatto e una notizia è la loro veridicità; dunque una notizia e un fatto possono essere veri e inconfutabili anche se non piacciono poi ad una parte della pubblica opinione e ai protagonisti di quella vicenda e di quel fatto.
E quando una notizia e un fatto non vengono smentiti, non ne viene chiesta la rettifica significa che quel fatto e quella notizia sono veri; diversamente esiste il reato di diffamazione che vale per tutti meno per alessandro sallusti, quello che, come il padrone che lo paga è più uguale degli altri e quindi non tenuto a rispettare leggi e regole comuni col beneplacito dell’estremo difensore di quelle regole e leggi che invece di ribadirle di fronte a certe vicende preferisce mettersi una mano sul cuore e prendere una penna per firmare com’è accaduto ieri quando ha concesso la grazia per conto terzi, e cioè di Barak Obama, ad un sequestratore di cittadini residenti sul suolo italico.
Detto ciò ribadisco, ripeterò finché avrò la possibilità di farlo e finché qualcuno me la darà, il mio totale disgusto per chi da una posizione dominante tenta di intimidire il giornalismo libero, quello che non offende, che non diffama né scredita ma ha il solo e unico difetto di rendere partecipi i cittadini italiani di cose che interessano, o perlomeno dovrebbero interessare più loro che i coinvolti nei fatti e nelle notizie ai quali, come da tradizione italica, non è mai successo nulla grazie agli esiti delle inchieste giornalistiche,   diversamente da quel che accade praticamente ogni giorno nei paesi civili dove al giornalismo è permesso di fare quel che deve e cioè vigilare sul potere, non esserne la vittima.

E quindi, stando così le cose, l’unica cosa da fare è stare dalla parte del più debole, dunque, la mia totale solidarietà a Marco Travaglio, il più bersagliato, insultato e diffamato di tutti, anche dal potere, di tutti i colori.

 

Siamo ridotti così male in questo paese? la risposta è sì.

Sottotitolo: anche secondo il sondaggio del Fatto Quotidiano la più votata alla presidenza della Repubblica è Bonino; e meno male che Il Fatto rappresenta la nuova frontiera dell’informazione, i suoi lettori sarebbero solo persone di cultura superiore che s’informano tramite la rete e i siti alternativi; c’è stato perfino  qualcuno che ha votato berlusconi. Per dire.


Preambolo:  Emma Bonino, una liberale tendenzialmente  di destra che col suo partito, quello che destra o sinistra purché non si perda il posto in parlamento, che in quel partito radicale che fu  di capezzone, rutelli, quagliarello  ha sostenuto tutto e il contrario di tutto ma se ne parla come se fosse  un politico di chissà quale rango o piace solo perché è donna così sfatiamo il tabù? siamo ridotti così male in questo paese? la risposta è sì. 

Emma Bonino, un’amica dell’alta finanza, di Bildeberg, che oltre alle battaglie dei bei tempi che furono non ha fatto nulla di significativo per meritarsi questa sponsorizzazione ma se ne parla come se fosse una specie di reincarnazione di Nilde Jotti: ma davvero dobbiamo ridurci a sperare che Emma Bonino sia la prescelta a rappresentare tutti gli italiani, magari per il solo fatto di essere una donna?

Naturalmente adesso mi aspetto che qualcuno dica e scriva che Marco Travaglio è sempre il solito guastafeste, uno a cui piace solo gettare fango su tutti indistintamente, uno che non gli piace nessuno, e nemmeno la Bonino che pare, invece, piace a un sacco di gente e chissà perché.

Ma, mi dispiace per i soliti mediocri detrattori, descrivere e definire un personaggio pubblico, nella fattispecie un politico non è un giudizio sulla persona, è il lavoro che un giornalista che segue le vicende di un paese deve fare, trattandosi dell’Italia è un lavoro assai più complicato, visto che è composto per la maggior parte da gente che non sa, non si informa, quando e se lo fa è in modo incompleto, oppure semplicemente quando sa dimentica facilmente, altrimenti non ci sarebbe questo quasi plebiscito per Emma Bonino presidente della Repubblica sponsorizzata perfino da Mara Carfagna, il che dovrebbe essere già un buon motivo per dissociarsi. E invece probabilmente Emma Bonino ce la farà, perché – appunto – questo è un paese composto in maggioranza da mediocri, da gente a cui basta vedere due facce “nuove” alla Camera e al Senato per farsi affascinare, sedurre, entusiasmarsi, da persone che quando leggono qualcosa invece di andare a vedere se quella cosa è vera o no preferiscono tapparsi gli occhi, dire che si tratta di falsità veicolate al solo scopo di gettare discredito su una persona.

Le vicende tragicomiche che riguardano Grillo e i 5S ci hanno fatto capire molto bene che non basta essere brave persone per fare politica, che l’onestà è sì determinante ma se a questa non si aggiungono competenza e capacità i risultati possono essere disastrosi.
E la stessa cosa vale per Emma Bonino: non c’è nulla di male a non avere le idee chiare a proposito dei propri orientamenti politici, si può anche passare disinvoltamente da attivista che si è spesa a favore dei diritti civili alla difesa di berlusconi, del suo conflitto di interessi e non solo, si può anche essere amica degli ultimi e contemporaneamente dei finanzieri, si può anche invocare l’amnistia totale perché il carcere è brutto ed essere a favore della guerra, giusto per dirne solo alcune, solo però a me che sono una persona semplice e che ragiona in modo semplice non piacerebbe che fosse una persona così a rappresentare il mio paese.
E il fatto che sia una donna non sposta di una virgola la mia opinione.

Si fa presto a dire Bonino
Marco Travaglio, 6 aprile

Molti italiani vorrebbero Emma Bonino al Quirinale. 
Perché è donna, perché è competente, perché è onesta e mai sfiorata da scandali, perché ha condotto battaglie spesso solitarie per i diritti civili e umani e politici in tutto il mondo, forse anche perché è sopravvissuta a Pannella e perfino a Capezzone. Insomma, un sacco di ottimi motivi, tutti veri e condivisibili. 
Ma della sua biografia, in questo paese dalla memoria corta, sfuggono alcuni passaggi politici che potrebbero indurre qualcuno, magari troppo giovane o troppo vecchio per ricordarli, a cambiare idea e a ripiegare su candidati più vicini al proprio modo di pensare. A costo di essere equivocati, come ormai accade sempre più spesso, complice il frullatore del web, li ricordiamo qui per completezza dell’informazione, convinti come siamo che di tutti i candidati alle cariche pubbliche si debba sapere tutto. “Conoscere per deliberare”, diceva Luigi Einaudi, cuneese come lei. 
Nata 65 anni fa, la Bonino è stata parlamentare in Italia sette volte e in Europa tre volte, a partire dal lontano 1976. Da sempre radicale, si è poi candidata nel ’94 con Forza Italia fondata da Berlusconi, Dell’Utri, Previti & C., e col centrodestra berlusconiano è rimasta alleata, fra alti e bassi, fino alla rottura del 2006, quando è passata al centrosinistra. Ha ricoperto le più svariate cariche: deputata, senatrice, europarlamentare, commissario europeo, vicepresidente del Senato, ministro per gli Affari europei nel governo Prodi. Ed è stata candidata a quasi tutto: presidente della Repubblica, presidente del Consiglio, presidente delle Camere, ministro degli Esteri e della Difesa, presidente della Regione Piemonte e della Regione Lazio, alto commissario Onu ai rifugiati, rappresentante Onu in Iraq, addirittura a leader del centrodestra (da Pannella, nel 2000). Nel ’94, quando si candidò per la prima volta con B., partecipò con lui e la Parenti a un comizio a Palermo contro le indagini su mafia e politica. Poi, appena eletta, fu indicata dal Cavaliere assieme a Monti come commissario europeo. Il che non le impedì di seguitare l’attività politica in Italia, nelle varie reincarnazioni dei radicali: Lista Sgarbi-Pannella, Riformatori, Lista Pannella, Lista Bonino. Nel ’99 B. la sponsorizzò per il Quirinale, anche se poi confluì su Ciampi. Ancora nel 2005, alla vigilia della rottura, la Bonino dichiarava di “apprezzare ciò che Berlusconi sta facendo come premier” (una legge ad personam dopo l’altra, dalla Gasparri alla Frattini, dal lodo Schifani al falso in bilancio, dalla Cirami alle rogatorie alla Cirielli) e cercava disperatamente un accordo con lui. Sfumato il quale, scoprì all’improvviso i vizi del Cavaliere e le virtù di quelli che fino al giorno prima lei chiamava “komunisti” e “cattocomunisti”. Molte delle sue battaglie, referendarie e non, coincidono col programma berlusconiano: dalla deregulation del mercato del lavoro (con tanti saluti allo Statuto dei lavoratori, articolo 18 in primis) e contro le trattenute sindacali in busta paga. Per non parlare del via libera alle guerre camuffate da “missioni di pace” in ex Jugoslavia, Afghanistan e Iraq. E soprattutto della giustizia: separazione delle carriere, amnistia, abolizione dell’azione penale obbligatoria, responsabilità civile delle toghe e no all’arresto per molti parlamentari accusati di gravi reati: perfino Nicola Cosentino, imputato per associazione camorristica. Alle meritorie campagne contro il finanziamento pubblico dei partiti, fa da contrappunto la contraddizione dei soldi pubblici sempre chiesti e incassati per Radio Radicale. Nel 2010 poi la Bonino fece da sponda all’editto di B. contro Annozero : il voto radicale in Vigilanza fu decisivo per chiudere i talk e abolire l’informazione tv prima delle elezioni. 
Con tutto il rispetto per la persona, di questi errori politici è forse il caso di tenere e chiedere conto.

 
 
 

Residenza della repubblica

 

QUIRINALE: L’OBIETTIVO DI B.

[La nuova strategia del Caimano: offre l’inciucio e dialoga con tutti. L’augurio del sottosegretario Polillo: “Spero di vederlo al Colle”. Molti berluscones confermano: “Il nuovo capo dello Stato sarà eletto nel 2013, quando si celebrerà il ventennio del Cavaliere”.]

 

Ci sarà un’anima buona capace di rassicurarci sul fatto che berlusconi non sarà MAI il presidente della repubblica italiana? perché dopo l’arroganza al potere il disonore a capo delle istituzioni sarebbe davvero troppo, insopportabilmente, troppo.
Diventare presidente della repubblica dovrebbe essere un premio: il coronamento di una carriera politica SPLENDIDA di qualcuno che ha rispettato sempre lo stato come fu quella di Pertini, per esempio, non certo il modo per permettere di riscattare socialmente uno che ha vilipeso, offeso, oltraggiato e ridicolizzato lo stato, questo stato, uno che in un qualsiasi altro altrove probabilmente  sarebbe in una galera da vent’anni.
Poi quando il mondo ci prende per il culo e ride di noi, ci compatisce, è inutile fare i nazionalisti che difendono la patria.

Difendere lo stato significa non dare a nessuno la possibilità di offenderlo e di farlo con i fatti, con le azioni e facendolo rappresentare da persone che ne siano degne. Ed io, mi dispiace, ma al momento non vedo nessuno che sia in grado di farlo. Almeno non nell’ambito politico, perché per fortuna di persone perbene l’Italia è piena.
Le referenze di berlusconi sono quelle giuste per ambire al titolo? a me non frega nulla di questa politica sempre interessata a farsi e ad aggiustarsi i cazzi suoi, ma m’interessa eccome non dovermi vergognare più di così di essere italiana, ma come glielo spiego al figlio di mio figlio che il presidente della repubblica è uno che sfruttava prostitute minorenni, comprava i giudici, aveva boss mafiosi pluriassassini in giro per casa? davvero c’è qualcuno che pensa di restituire dignità ad uno così facendolo entrare al Quirinale dal portone principale?

Io sono SERIAMENTE preoccupata perché non mi fido di questa politica inciuciona e disonesta. Montanelli fu troppo ottimista: dalla malattia berlusconi non si guarisce, o meglio, i cittadini sì, vorrebbero, è la politica che non può più fare a meno del virus.

Ormai è dipendenza.

L’articolo di Travaglio di oggi, come tanti suoi altri, lo dovrebbero inserire  nei libri di storia da studiare a scuola.

La grande colazione – di Marco Travaglio – Il Fatto Quotidiano, 8 febbraio

Un testimone racconta che nel 1997, in piena Bicamerale, il
presidente della medesima Massimo D’Alema incontrò a Venezia l’allora
sindaco Massimo Cacciari. Al governo c’era Prodi e Culoflaccido
Pompetta B. era reduce dalle rovinose elezioni del ’96, politicamente
defunto, tant’è che i suoi alleati cercavano un modo carino per dirgli
che era finita e gli cercavano sottobanco un successore (Di Pietro o
Fazio o Monti).

Cacciari domandò: “Scusa, Max, ma sei sicuro di questo accordo con
Berlusconi? Non è che poi quello, come sempre, alla fine te lo mette
in quel posto?”.

Il conte Max lo guardò dall’alto in basso pur essendo meno alto,
sorrise a lungo in silenzio, congiunse il pollice e l’indice della
mano destra rivolti verso il basso e li fece ciondolare con lieve moto
ondulatorio. Poi sibilò: “Tranquillo, Massimo, lo tengo per le
palle”.

Naturalmente finì che il piduista Al Cafone B., promosso al rango di
padre ricostituente, dopo aver portato a spasso la Volpe del Tavoliere
(e con lui tutto il centrosinistra) per quasi tre anni, fece saltare
il tavolo della Bicamerale. E, da morto che era, rinacque a nuova vita
più fresco che pria: nel 2001 era di nuovo a Palazzo Chigi.

La scena si ripeté dieci anni dopo, nell’autunno 2007, con Veltroni al
posto di Max. Anche allora governava Prodi e il cav. Banana B. era
dato per defunto, tant’è che cercava disperatamente di comprare
senatori dell’Unione.

Ma Uòlter, neosegretario del Pd, incurante delle sfighe precedenti,
aprì un bel “tavolo” per “le riforme insieme”. Legge elettorale,
Costituzione e tutto il resto. Il cadaverino risorse un’altra volta:
sei mesi dopo, complice Mastella, era di nuovo premier; intanto
Uòlter, che in tutta la campagna elettorale non l’aveva neppure
nominato (“il principale esponente dello schieramento avverso”), perse
tutte le elezioni nazionali e locali e dovette dimettersi.

Ora, non c’è il due senza il tre, tocca a Bersani.

Tre mesi fa aveva le elezioni in tasca, persino se si candidava lui.
Poi sostenne il governo Monti con il piduista corruttore B., ma giurò
che non era una maggioranza politica. In realtà lo era, ma si riuniva
nelle catacombe.

Ora è uscita allo scoperto, ha fatto outing: incontri alla luce del
sole, comunicati congiunti. Mancano solo le pubblicazioni, ma i
rapporti prematrimoniali sono tutt’altro che vietati.

L’inciucio parte dalla legge elettorale, poi si vedrà.

Ci sono tante pratiche da archiviare tipo i magistrati, che danno noia
a destra e a sinistra. Tanto, dicono gli strateghi del Pd, Pompetta B.
è morto.
Lui manda avanti Al Fano (ma è solo un trompe l’oeil, neppure fra i
più riusciti).

E, siccome è Carnevale, estrae dalla naftalina il travestimento da
statista, col fazzoletto da piccolo partigiano al collo, inaugurato
tre anni fa a Onna con un certo successo.

Punta al Quirinale e pur di arrivarci è pronto a tutto, anche a
proseguire l’inciucio nella prossima legislatura con un bel
governissimo Pdl-Pd-Terzo polo, magari guidato da Passera (sennò la
gente si disabitua al conflitto d’interessi).

Il paraninfo di Pier Luigi e Silvio promessi sposi è Violante, che già
vegliava sulla Bicamerale da presidente della Camera.

Nel 1994 tuonava: “Il nucleo di interessi che si aggruma intorno a
Forza Italia è in profonda continuità col sistema di potere che ha
causato tanti lutti e danni all’Italia… Forza Italia è un manipolo
di piduisti e del peggio del vecchio regime. Berlusconi, con la
chiamata alle armi contro il comunismo, ripete la parola d’ordine del
fascismo e del nazismo quando morivano nei lager comunisti, socialisti
ed ebrei. E con questa parola d’ordine la mafia uccideva i
sindacalisti. È una chiamata alla mafia quella di Berlusconi”.

Nel 2002 Violante diceva che “le proposte di Berlusconi rispondono
alle richieste dei grandi mafiosi”.

Nel 2004 parlava di “interessi penali e criminali” del centrodestra.

E nel 2006 denunciò “un giro di mafia intorno a Berlusconi”.

Oggi si batte come un leone per maritare Bersani con quel bel
soggetto, rinviato a giudizio proprio ieri perché passò al suo
Giornale la bobina rubata della telefonata segreta tra Fassino e
Consorte.

Che gli fai a uno così? Te lo sposi.