Sottotitolo: chi dice che berlusconi andava battuto sul piano politico è un disonesto in malafede quanto lui.
Perché su piano politico si può battere un avversario che ha le stesse armi, gli stessi strumenti, e che agisce all’interno delle regole democratiche.
Tutto questo berlusconi non lo ha mai fatto, è entrato in parlamento grazie ad una violazione della legge e quella ha perpetuato: una sistematica violazione della legge, e quelle che non ha potuto violare le ha rese nulle con le sue, quelle che ha voluto, preteso e ottenuto per ripararsi dalla legge uguale per tutti.
Basta con questo romanticismo: berlusconi è un delinquente che ha violato la legge e tradito lo stato. E siccome è stato bravo lo paghiamo pure, invece di pretendere noi un risarcimento da lui.
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Nel paese normale la cacciata e con disonore [altroché pagare pure 180.000 euro di trattamento di fine rapporto e 8000 al mese di vitalizio ad uno che ha rubato allo stato e a tutti noi], di silvio berlusconi dalle sedi istituzionali non dovrebbe avere nessuna conseguenza politica, per il semplice fatto che l’eversore impostore delinquente pregiudicato condannato in via definitiva e in attesa di altri procedimenti giudiziari per reati gravissimi non è mai stato un politico.
Eppure in tutti questi anni ci hanno fatto credere che berlusconi fosse uno statista vero. Ci hanno raccontato dei cambiamenti che avrebbe apportato a questo paese come se fossero stati epocali, significativi e non invece lo stravolgimento da lui voluto – non senza la collaborazione, anche quella viva & vibrante – del benché minimo senso dello stato e di paese col quale lui ha devastato e deformato l’Italia, altroché modernizzarla.
Eppure ancora ieri sera a Ballarò, approfondimento politico del servizio pubblico di Raitre, nessuno ha avuto il coraggio di mettere in fila la cronologia dell’esperienza “politica” in parlamento di silvio berlusconi.
Ancora ieri sera Floris e Ballarò hanno dato spazio alla polverini, responsabile delle ladrate avvenute in regione Lazio quando lei era presidentessa, consentendole di dire minchiate su minchiate, ad esempio che il voto palese col quale si deciderà la decadenza di berlusconi mette in discussione il principio della libertà di coscienza: come se ci volesse la coscienza per stabilire che un delinquente condannato non può far parte dello stato né rappresentarlo da senatore della repubblica.
La polverini che parla di accelerazione della procedura rispetto ad una sentenza che da centoventi giorni non può essere applicata solo perché riguarda silvio berlusconi e di una legge che avrebbe dovuto avere un effetto immediato ma che è stata bellamente aggirata dilatando oltremodo i tempi di applicazione solo perché di mezzo c’è silvio berlusconi.
Per non parlare di casini, amico personale di totò vasa vasa cuffaro, uno che viene accolto dalle pubbliche tribune come se rappresentasse chissà quale autorità autorevole che viene a raccontarci che bisognava aspettare l’interdizione perché la decadenza rischia di “vittimizzare” il povero frodatore fiscale. Solo nel paese deficiente un criminale può diventare la vittima.
Nel paese normale le sentenze si applicano, non si rimandano a data da destinarsi, non serve una legge che stabilisca la modica quantità di delinquenza in politica: la decadenza che scatta per condanne oltre i due anni è l’ennesimo auto-salvataggio di una casta che non può evidentemente fare a meno di delinquere, e per questo si mette al sicuro con una legge ridicola che non esiste in nessun altro paese democratico davvero dove la linea di confine fra onestà e delinquenza è ben delineata e rispettata. Nel paese normale il delinquente non fa il politico e viceversa. Su quella legge c’è scritto che l’applicazione deve essere immediata, quindi a sentenza pronunciata il disonorevole impostore delinquente avrebbe dovuto abbandonare la casa. Invece da centoventi giorni continua ad abitarci da abusivo.
Nel paese normale l’informazione di questi giorni e di queste ore avrebbe un ruolo fondamentale nel rammentare agli italiani, anche ai mentecatti che oggi andranno sotto casa del vigliacco, chi è ed è sempre stato silvio berlusconi.
In questo invece, a poche ore da un fatto che nel paese normale non sarebbe mai accaduto perché uno come berlusconi avrebbe trovato sbarrate le porte del parlamento, ancora si consente di poter dire che la cacciata dell’abusivo delinquente produce una ferita nella democrazia. Mentre, e invece, quella ferita diventata ormai piaga purulenta che ha infettato tutti, anche quelli che non si sono resi complici di questo abominio, di questa interruzione dello stato democratico, di diritto e che sarà difficilissimo curare e guarire si chiama silvio berlusconi.
Nota a margine: semmai ci consentiranno di poter ancora scegliere da chi farci governare [parlando con pardon] non voterò nessun partito che non metta al centro del tavolo della discussione politica la questione relativa al conflitto di interessi e alla sua risoluzione definitiva. Non deve succedere mai più che una persona sola possa avere tanto potere, troppo potere grazie alla sua attività privata. Perché nel paese normale il controllore fa il controllore e il controllato, il controllato. I due ruoli non si mischiano, non si confondono e né tanto meno è concesso impersonarli ad una persona sola. Nel paese normale il politico fa il politico, non pensa che deve avere una banca, un giornale, una televisione, un’azienda che gli consentiranno poi di tracimare in ambiti che non dovrebbero avere niente a che fare con la politica. Il conflitto di interessi deprime ed opprime la crescita economica e anche quella culturale di un paese. E se la lezione non l’abbiamo imparata fino ad ora non succederà più.
SCHERMI, BIBITE E PASCALE: COSÌ SILVIO DECADE OGGI IN PIAZZA
E CON L’INTERDIZIONE B. NON POTRÀ PIÙ CHIAMARSI “CAVALIERE”
QUEL CHE RESTA DEL VENTENNIO
Il problema da risolvere, il cancro vero di questo paese si chiama conflitto di interessi. Ecco perché nessuno vuole metterci al riparo.
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Vent’anni di decadenza
Marco Travaglio, 27 novembre 2013
[Da leggere, stampare, conservare e far leggere ai nipotini]
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Oggi, salvo sorprese, per Silvio Berlusconi è l’ultimo giorno di Parlamento. L’ha sempre disprezzato, da oggi lo rimpiangerà (che fa rima con immunità). Tutto accade a vent’anni esatti dalla sua prima uscita politica. È il 23 novembre ’93 quando, inaugurando un ipermercato Standa a Casalecchio di Reno, annuncia il suo appoggio a Fini contro Rutelli, che si giocavano al ballottaggio la poltrona di sindaco di Roma. Forza Italia è pronta da mesi. Marcello Dell’Utri ci ha lavorato da par suo. Il primo a saperlo è stato Craxi, il 4 aprile. La Fininvest affoga nei debiti (2.500 miliardi di lire), il pool Mani Pulite ronza attorno al Cavaliere da un anno, arrestandogli un manager via l’altro. In estate, mentre ad Arcore impazzano i provini per i candidati (uno, per l’emozione, è caduto nella piscina), è stato avvertito anche Indro Montanelli: “Entro in politica, il Giornale sarà con me?”. “Te lo puoi scordare”. Montanelli sostiene i referendum di Segni, per un centrodestra liberale e moderato. E il 25 novembre avverte il Cavaliere sul Giornale: “L’idea di mettere intorno a un tavolo Bossi, Fini, Segni, Martinazzoli e non so chi altro mi sembra un sogno a occhi aperti. Ma anche se Berlusconi riuscisse a realizzarlo, con quegli ingredienti non si fa un programma: si fa solo un minestrone da cui non ci si può aspettare nulla di concreto”.
E, sia chiaro, “l’unico che può cacciarmi è il becchino”. Da quel momento sulle reti Fininvest i vari Sgarbi, Fede e Liguori – i “manganelli catodici” – iniziano a massaggiargli la schiena per indurlo alle dimissioni. Il 26 novembre, mentre Mentana, Costanzo e i giornalisti Mondadori chiedono garanzie sull’autonomia del Gruppo, il vecchio Indro dice a Sette : “Se oggi in Italia saltasse fuori un altro Mussolini, avrebbe spazio libero. Ma abbiamo visto dove portano gli incantatori di masse”. Minoli anticipa un’intervista a Mixer del Cavaliere, che intanto affronta i giornalisti alla Stampa estera, per la prima volta da politico. Finge di non aver deciso se entrare in politica direttamente o solo come sponsor di un rass emblement: la candidatura è solo l’extrema ratio, lui non se la augura. E l’iscrizione alla P2? Una storia vecchia. E il fascismo? Un’ideologia vecchia, “sepolta nel passato”. E chi dice il contrario? “Si vergogni!”.
La stampa di sinistra, italiana ed europea, è più scandalizzata dall’appoggio al “fascista” Fini che dal finanziere-tycoon in politica. Ma il Berliner Zeitung scrive: “Nessuno in Europa ha tanto potere nei media quanto Berlusconi”, senza contare i “grossi debiti del suo gruppo”. La parola “conflitto d’interessi” fa capolino anche in Italia, perché il Tg4 ha trasmesso integralmente la conferenza stampa. Veltroni annuncia: “Faremo subito una legge antitrust sulle tv e la pubblicità”. Buona questa. Si fa vivo anche Giorgio Napolitano, presidente della Camera con un monito ante litteram: “Possono anche entrare in campo nuovi soggetti dalla vita economica. Ma le istituzioni si facciano carico di garantire il massimo equilibrio nell’uso dei mezzi di informazione”. Buona anche questa. Il Cavaliere replica a stretto giro in terza persona: “Se un editore importante dovesse scendere in campo, mi parrebbe giusto e di buon senso scegliere tra le due cose”. Buona pure questa. Nascono i comitati Boicotta Biscione di Gianfranco Mascia. Tina Anselmi paventa il ritorno della P2. Sgarbi ce l’ha con “i nipotini di Stalin”. Bossi capisce subito che la volpe di Arcore vuole razziare nel suo pollaio: “Un partito non si crea dall’alto, piazzando una decina di generali: deve nascere dal popolo”.
Berlusconi entra per la prima volta in Senato il 16 maggio 1994. Presenta il suo primo governo per la fiducia. E dice: “È stato legittimamente sollevato il problema del conflitto d’interessi… Nel primo Consiglio dei ministri abbiamo deciso una commissione di esperti per trovare delle soluzioni entro fine settembre”. Poi fa gli auguri “ai nostri atleti” in partenza per i Mondiali di calcio in America e, già che c’è, pure al Milan che ha vinto la Champions “per difendere i suoi colori, quelli di Milano ma anche quelli dell’Italia”. Il 19 maggio, a Montecitorio, parla per l’opposizione Giorgio Napolitano. Nuovo monito ante litteram: “Ricercare il più ampio consenso per le riforme costituzionali” e dialogo con il governo: “una linea di confronto non distruttivo tra maggioranza e opposizione”. Che “non deve impedire che il governo governi”. Manco fosse a Westminster.
Il Cavaliere si arma di un sorriso a 32 denti e sale a stringere la mano a questo “oppositore corretto, all’inglese”. DA ALLORA A OGGI le apparizioni del Cavaliere in Parlamento saranno un po’ meno numerose dei suoi capelli veri, forse anche dei suoi processi. Quasi soltanto per le fiducie dei governi suoi e altrui, e per le leggi sugli affari suoi. Il 2 agosto ’94 tuona contro la sinistra che vorrebbe (addirittura) “l’esproprio proletario” della Fininvest: “ma siamo in Italia, non nella Romania di Ceausescu”. Per il resto “il Parlamento mi fa perdere tempo” (11.10.94). Ma, sia chiaro, “il mio rispetto per il Parlamento è assoluto”. Il 21 dicembre gli tocca proprio andarci, alla Camera, perché Bossi l’ha appena sfiduciato: “Ha una personalità doppia, tripla, forse anche quadrupla. Il suo mandato diventa carta straccia. Una grande rapina elettorale”. Il 2 agosto ’95 lancia la sua riforma costituzional- presidenzialista. L’anno seguente, per oliare l’inciucio della Bicamerale, ottiene dal solito Violante una seduta straordinaria della Camera per denunciare lo scandalo del “cimicione”: “Onorevoli colleghi, il fatto è grave. Un’attività spionistica ai danni del leader dell’opposizione, da chiunque ordita, rientra perfettamente nel panorama non limpido della vita nazionale. Mai, nella storia repubblicana, sono gravate sulla libera attività politica tante ombre e tanto minacciose. Nella giustizia malata di questo Paese siamo alle intercettazioni virtuali” (16.10.96).
Si scoprirà poi che l’aggeggio trovato a Palazzo Grazioli è un ferrovecchio scassato e inservibile, piazzato lì non dalle toghe rosse, ma dalla stessa ditta da lui incaricata di “disinfestare” la casa. Nel ’97 Berlusconi vota con l’Ulivo per la missione militare in Albania, mentre Lega e Rifondazione sono contro. Il leghista Luigi Roscia lo canzona: “Bravo, inciucione!”. E lui: “Bravo tu, furbacchione: votate con Rifondazione, avete proprio delle facce di cazzo!”. Poi cade Prodi e arriva il governo D’Alema-Cossiga-Mastella.
Il Cavaliere, alla Camera, torna a strillare al ribaltone: “Continua con D’Alema la maledizione dei partiti comunisti: mai riusciti ad andare al governo con un libero voto popolare… Questo è uno sciagurato mix fra vecchi gladiatori e vecchie guardie rosse… Moro fu assassinato dalle Br, i cui volti spuntavano dall’album di famiglia del comunismo italiano. Il suo, onorevole D’Alema, è un governo senza legittimità democratica, ha solo il 28% dei consensi”. Fabio Mussi lo fulmina: “Quando arriva al 100 per cento, Cavaliere, ci faccia un fischio” (24.10.98). NEL 2001 torna al governo, ma non in Parlamento. Un giorno i Ds gli chiedono di riferire alle Camere sul Medio Oriente, e lui: “Sono richieste ridicole! Basta leggere i giornali, anche l’Unità, e tutti possono sapere la situazione in Medio Oriente” (6.3.2002). L’Italia entra in guerra contro l’Iraq. Scalfaro denuncia in Senato il “servilismo” di B. verso Bush. Lui sibila: “Ma vaffanculo!”. L’ulti – ma impresa parlamentare degna di nota è in Senato, all’approvazione della Devolution: “Chi non salta comunista è!” (16.11.05). Poi più nulla fino al 22 aprile 2013, dopo l’ultimo capolavoro: la rielezione di Napolitano. Il Re esalta l’inciu – cio prossimo venturo e lui magnifica “il discorso più straordinario che io abbia mai sentito nei vent’anni di vita politica”. Ergo, “meno male che Giorgio c’è”. Segue abbraccio affettuoso. Sette mesi fa, e pare già un secolo. Il 2 ottobre, mentre Bondi alla Camera tuona contro Letta Nipote (“vergogna vergogna!”), Berlusconi in Senato annuncia la fiducia.
Oggi – salvo colpi di scena, o di coda, o di mano, o di testa, o di sonno – Palazzo Madama voterà la sua decadenza. E, se sarà presente, i commessi lo accompagneranno all’uscita. Potrà rientrare fra sei anni, quando ne avrà 83. E l’ordine lo darà il presidente Piero Grasso, lo stesso che l’anno scorso voleva premiarlo per il suo indefesso impegno antimafia. A quel punto, al Caimano, verrà da ridere. O forse da piangere.