Punito per non aver commesso il fatto

Napolitano, un paio di giorni fa: “non si tratta coi facinorosi violenti”.
Coi delinquenti socialmente pericolosi però sì.
Se po’ ffà’.

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Quello che ha punito Gennaro De Tommaso detto Genny [le carogne vere sono altre, come ci ricorda stamattina Marco Travaglio]  è un provvedimento discriminatorio e fascista fondato sul nulla, deciso da un ministro dell’interno che è andato per due volte, commettendo il reato di eversione, davanti e dentro i tribunali a chiedere libertà per berlusconi. In Italia circola ancora a piede libero un diffamatore seriale che ha messo a rischio l’incolumità fisica e la reputazione umana e professionale di un giudice oltraggiandolo con la menzogna per sei anni dalle pagine di un giornale che è stato graziato da Napolitano, lo stesso che due giorni fa invocava la legalità allo stadio. Alfano dovrebbe spiegare in base a quale reato ha interdetto gli stadi per cinque anni a De Tommaso. Quale sarebbe il reato e l’istigazione  nella frase “Speziale libero”.  In quale paese libero, democratico e con una Costituzione che chiede, ordina la libertà di espressione si può limitare la libertà di un cittadino solo per aver espresso un’opinione discutibile, odiosa quanto si vuole ma che non istiga a nessuna violenza, non richiama ad atti violenti con cui chiede la libertà di un detenuto condannato fra l’altro dopo un processo e una sentenza con molti punti oscuri tant’è che la Cassazione ha stabilito che il processo che ha condannato Speziale per l’omicidio Raciti è da rifare da capo.

De Tommaso, che ha mantenuto l’ordine dentro uno stadio evitando il peggio, ovvero si è sostituito allo stato che non lo sa fare,  ha pagato la figura di merda di uno stato che coi criminali di ogni ordine e grado ci ha sempre trattato salvo poi blaterare di lotte alle varie criminalità, organizzate e non.

Gennaro De Tommaso, alias Genny, è stato inibito per cinque anni dagli stadi mentre un criminale socialmente pericoloso se ne va ancora in giro a piede quasi libero, fatta eccezione che per poche ore di notte e può imperversare nelle televisioni a dire quello che gli pare. 
Francantonio Genovese non viene ancora estromesso dal parlamento perché non si riesce a trovare un attimo di tempo per decidere il destino di uno che dovrebbe stare in galera, altroché Daspo per cinque anni.
Io credo che finché non si metterà fine a questo corto circuito di inciviltà, di disuguaglianza nel metodo non ci saranno proprio gli estremi, gli ingredienti per qualsiasi discussione che abbia un senso.
Cinque anni di limitazione di libertà a De Tommaso, condannato per il reato di checazzoneso e berlusconi condannato alla galera vera invitato nei palazzi a fare le leggi e le riforme della Costituzione. Questo non è un paese, è un’arena in cui tanta gente vuole vedere il sangue degli ultimi.  A me non frega niente se De Tommaso va allo stadio o no ma m’interessa e molto che un criminale possa ancora decidere della vita di mio figlio.

In Italia e da sempre abbiamo la classe politica e dirigente peggiore al mondo ma anche una buona parte di cittadini peggiori del mondo se, per soddisfare l’esigenza di giustizia gli basta la punizione al tifoso violento, che poi mi piacerebbe sapere quale violenza avrebbe esercitato Gennaro De Tommaso detto Genny nei fatti di sabato sera all’Olimpico.
La maglietta con la scritta? E’ un’opinione, per molti discutibile, inaccettabile ma nessuno dovrebbe vietare a nessun altro di poter esprimere con una provocazione un proprio pensiero. In Italia, paese antifascista per Costituzione e dove il fascismo è stato messo al bando, fuori legge, si dà ancora la possibilità a gruppi di nazifascisti di riunirsi – occupando pezzi d’Italia, il paese antifascista – in simpatiche manifestazioni; ci sono esercizi commerciali, banchetti al mercato che possono esporre e vendere vessilli fascisti, bottiglie di vino e altre chincaglierie con frasi e immagini inneggianti al duce, a Predappio ogni anno va in scena l’orrido teatrino della commemorazione del capoccione ma nessuno ha mai pensato di fare una legge che lo vieti, di sanzionare l’amministrazione politica di Predappio né di far chiudere per cinque anni il negoziante che vende quegli oggetti.
Eppure, si potrebbe e si dovrebbe.

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Lo Stato Carogna
Marco Travaglio, 7 maggio

Chi pensava che i peggiori pericoli per i magistrati antimafia venissero dalla mafia, soprattutto dopo le condanne a morte pronunciate da Riina, si sbagliava. Le minacce più insidiose arrivano sempre dal Palazzo. Il Csm – l’organo di autogoverno della magistratura che dovrebbe garantirne l’autonomia e l’indipendenza – ha inviato una circolare a tutte le Dda, cioè ai pool antimafia delle varie procure per raccomandare che ai pm che si sono occupati per 10 anni di mafia, camorra e ‘ndrangheta non vengano assegnate nuove inchieste in materia. Il diktat calza a pennello sulla Dda di Palermo, dove i principali pm titolari delle nuove indagini sulla trattativa Stato-mafia (rivolte al ruolo dei servizi segreti e della Falange Armata) hanno potuto finora occuparsene perché “applicati” dal procuratore Messineo. Nino Di Matteo è “scaduto” dopo i 10 anni canonici nel 2010, trasferito dalla Dda al pool “abusi edilizi” e da allora “applicato” per proseguire il lavoro sulla trattativa; Roberto Tartaglia l’ha seguito qualche tempo dopo; fra un mese scadrà anche Francesco Del Bene. La norma demenziale è contenuta nell’ordinamento giudiziario Castelli-Mastella del 2007, che appiccica ai pool specializzati delle procure (mafia, reati fiscali e finanziari, ambientali, contro la Pubblica amministrazione, contro le donne e i minori, ecc.) un bollino di scadenza come agli yogurt: appena raggiungono 10 anni di esperienza, cioè diventano davvero capaci ed esperti su una materia, devono smettere e occuparsi d’altro. Una mossa geniale: come se un’azienda, dopo aver impiegato tempo e risorse per formare un dirigente, lo spedisse a fare altre cose perché è diventato troppo bravo. Vale sempre il detto di Amurri e Verde: “La criminalità è organizzata e noi no”. Se la legge fosse stata già in vigore nel 1992, Cosa Nostra avrebbe potuto risparmiare sul tritolo evitando le stragi di Capaci e via D’Amelio, visto che quando furono uccisi Falcone e Borsellino indagavano sulla mafia da ben più di due lustri. Negli anni scorsi il bollino di scadenza ha falcidiato i pool antimafia di Palermo, Bari e Napoli, quello torinese creato da Raffaele Guariniello sulla sicurezza, la salute e l’ambiente (processi Thyssen, Eternit, doping…), quello milanese coordinato da Francesco Greco sui crimini economici (Parmalat, scalate bancarie, Enel, Eni, San Raffaele, grandi evasori). P
er non disperdere enormi bagagli di esperienza e memoria storica, i procuratori capi tentavano di limitare i danni “applicando” i pm scaduti a singole indagini. Ora, con la circolare del Csm, cala la mannaia anche su quella possibilità. Col risultato che una materia delicata e intricata come la trattativa, che richiede conoscenze ed esperienze approfondite, sarà affidata a pm che mai se ne sono occupati, privi dunque di qualunque nozione sul tema e magari ammaestrati da tutti gli attacchi (mafiosi e istituzionali) subìti dai colleghi che hanno osato scoperchiarla. Il fatto che Di Matteo sia il nemico pubblico numero uno tanto di Riina quanto del Quirinale non lascerà insensibile chi dovrà raccoglierne l’eredità. Magari toccherà a qualcuno dei neomagistrati che Napolitano ha arringato l’altroieri col solito fervorino alla “pacatezza”, al “rispetto”, addirittura all’“equidistanza” (testuale), contro il “protagonismo” e gli “arroccamenti”, per “chiudere i due decenni di scontro permanente” e “tensione” (fra guardie e ladri, fra onesti e mafiosi).
Non contento, il presidente più incensato e leccato del mondo (dopo Mugabe) ha poi evocato fantomatiche “aggressioni faziose” ai suoi danni, che il Corriere – sempre ispirato – attribuisce proprio a Di Matteo&C. per “intercettazioni illegali nell’inchiesta sulla trattativa”. Naturalmente le intercettazioni erano perfettamente legali, disposte da un giudice sui telefoni dell’indagato Mancino che parlava con il Quirinale. Ma anche questa ignobile calunnia sortirà prima o poi l’effetto sperato. Nessuno s’azzarderà mai più a intercettare un indagato per la trattativa: potrebbe parlare con il capo dello Stato.

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Il legale degli ultrà: “Legittime le magliette” 

«Da sempre tifoso della Roma e frequentatore della curva dell’Olimpico», Lorenzo Contucci ha cominciato a occuparsi di Daspo per caso, sollecitato da conoscenti. Dopo centinaia di casi seguiti in tutta Italia, è diventato l’avvocato italiano più esperto in materia, tanto che una nota casa editrice gli ha chiesto di scrivere un compendio giurisprudenziale con i ricorsi che ha trattato. 

 

Quale fu il primo caso?  

«Un tifoso aveva ricevuto un avviso di procedimento per un Daspo alquanto vago, senza alcuna indicazione su quando, come, perché… Andammo al Tar, che lo annullò, stabilendo un primo principio di garanzia». 

 

Il caso più strano?  

«Quello dei tifosi della Roma a cui arrivò un Daspo per non aver pagato il biglietto del treno. Naturalmente il Tar annullò». 

 

Che cosa pensa dell’evocazione del modello inglese, che ha sconfitto gli hooligans?  

«Magari! In Inghilterra il Daspo viene deciso da un giudice, non dalla polizia. È un modello molto più garantistico». 

 

Quali sono i punti più critici in Italia?  

«Si sono succedute molte modifiche legislative pessime. La peggiore quella del governo Prodi nel 2007: prima il Daspo richiedeva una condanna o almeno una denuncia, ora si può fare anche senza». 

 

Qual è la conseguenza?  

«A me non è mai capitato un Daspo successivo a condanna. In genere arriva dopo una denuncia. Nel 50 per cento dei casi, il tifoso viene poi assolto nel processo, ma nel frattempo ha già scontato il Daspo: un’ingiustizia. Ma se non c’è nemmeno una denuncia alla base del Daspo, il tifoso non può sperare di ottenere un’assoluzione da un giudice penale. Il Daspo gli resta addosso senza possibilità di difendersi: un’ingiustizia al quadrato». 

 

E la durata?  

«All’inizio il limite massimo era un anno, poi fu portato a tre, ora sono cinque anni. Nei processi a rapinatori e spacciatori non mi è mai capitato un obbligo di firma così lungo. Ma evidentemente la pericolosità dei tifosi è ritenuta dal Parlamento superiore».  

 

Che ne pensa dell’idea di Alfano del Daspo a vita? 

«Incostituzionale. Le misure di prevenzione si basano su un giudizio di pericolosità attuale. Non è ammissibile una presunzione di pericolosità a vita, tanto è vero che non esiste la sorveglianza speciale a vita nemmeno per i mafiosi».

E della proposta di Daspo collettivo? 

«Non capisco che cosa voglia dire, ma forse è il caso di riparlarne dopo le elezioni. I politici italiani, anche con responsabilità di governo, parlano spesso di cose che non conoscono. Compresa la Costituzione».

Che cosa pensa del Daspo per chi indossa la maglietta pro Speziale? 

«Appunto che non si conosce la Costituzione. La libertà di manifestazione del pensiero, quando non diventa apologia di reato, è protetta dall’ombrello dell’articolo 21. Quella maglietta non inneggia all’uccisione di Raciti, ma sostiene l’innocenza di Speziale. Cosa che è legittimo fare anche se c’è una sentenza contraria. Ci sono già diverse pronunce di Tar e giudici ordinari che affermano questo principio, annullando Daspo a tifosi per striscioni di solidarietà a Speziale, ma si finge di ignorarle».

Perché, secondo lei? 
«Perché io difendo il quisque de populo. Ma se si stabilisse il principio che chi contesta una sentenza merita un Daspo, come farebbe Berlusconi ad andare ancora allo stadio?».

 

 

La pillola del giorno dopo

Benedico la mia influenza che mi ha tenuta lontana dalla retorica ipocrita ottomarzesca. Otto marzo sempre? Ma figuriamoci, nel mondo normale sarebbe otto marzo MAI.

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Mentre berlusconi istituzionalizzava il sessismo Napolitano dov’era, a fare il presidente da un’altra parte? Perché non risulta che abbia  mai detto mezza parola su un delinquente pervertito che ha trasformato l’Italia nel suo bordello a cielo aperto riducendo la figura femminile a qualche buco con la ciccia intorno. Solo adesso c’è un problema di sessismo in Italia? Napolitano che s’indigna per il sessismo 2.0 era già in politica quando alle donne si negava il voto, quando quelli della sua parte politica negavano il diritto di voto alle donne. Una forma più violenta di sessismo di quella è difficile anche da immaginare e inventare. Questo signore, in politica da sessanta anni e sette mesi non ha contribuito a spostare di una virgola un nulla in politica, al contrario si è reso protagonista e responsabile  di faccende piuttosto disdicevoli  ma nonostante questo è considerato – chissà perché –   talmente autorevole da essersi meritato perfino la seconda chance per la prima volta nella storia della repubblica italiana. Sessanta anni di repubblica e stiamo ancora alla quota rosa, a dover stabilire col contentino che una donna ha gli stessi diritti degli uomini. E qualcuno la chiama democrazia.

Ognuno ha la sua grande bellezza; ce l’ha Napolitano che approfitta dell’otto marzo per esibirsi nell’ennesima performance volta a difendere la casta. Napolitano che qualche anno fa temendo i rigurgiti del populismo aveva chiesto alla politica un diverso atteggiamento in maniera tale che i cittadini si riavvicinassero alla politica ma poi, chissà perché ha cambiato idea, e invece di essere l’ultimo difensore dei cittadini è quello che li tiene fermi mentre la politica li picchia e si arrabbia pure se qualcuno si ribella alle bacchettate date, che lo dico a fare, per il nostro bene.

Ha una sua grande bellezza anche alfano che l’otto marzo, pensando di dire qualcosa di intelligente ha affermato che “in Italia calano gli omicidi ma aumentano i femminicidi”. Un termine demenziale che separa le donne dagli uomini perfino nella morte violenta. Le donne, storicamente, si sono meritate sempre un trattamento a parte, diverso anche nell’uso delle parole a loro rivolte. E allora è inutile lamentarsi quando poi la diversità diventa inferiorità. Chi ha tirato fuori la prima volta il termine “femminicidio” per fare moda, pensando che fosse determinante e necessario stabilire una differenza di genere anche nell’omicidio andrebbe incriminato per vilipendio alla lingua italiana e al significato delle parole.

Molti drammi si sarebbero potuti evitare e si potrebbero evitare se tanta gente non fosse costretta dalle ristrettezze economiche  a convivere sotto lo stesso tetto anche quando vengono meno tutte le condizioni che giustificano quella convivenza. Mogli e mariti che si detestano ma che non si possono separare perché non possono pagarsi un secondo affitto, l’arredamento di un’altra casa. Oppure  figli e figlie di mezza età, frustrati perché non hanno più un lavoro e costretti a tornare ad abitare nella casa dei genitori anziani sono  potenziali pericoli che possono manifestarsi in qualsiasi momento e per qualsiasi motivo: non è colpa del televisore troppo alto se un padre ammazza il figlio o viceversa, ecco. E la violenza non è un fattore di genere ma un fatto umano che riguarda e coinvolge indistintamente tutti: uomini e donne. Obbligo della politica non è inventarsi nuove ed inutili leggi, altre terminologie per definire le violenze ma di intervenire  per rimuovere fino  a farle sparire le cause che possono scatenare la violenza; agire sui problemi economici, dare la  possibilità a chi ne ha necessità di potersi allontanare da un luogo dove sa di essere in pericolo, anche quando quel luogo è la propria casa. Invece alla politica, tutta, piace molto chiacchierare, molto meno agire e quando lo fa l’unica forma che conosce è quella repressiva: la più sbagliata di tutte. Ricordiamo a Laura Boldrini che non tutte le donne possono contare su una scorta personale.

Se una madre ammazza il figlio a forbiciate, se una moglie accoltella suo marito e la figlia che se ne accorge anziché sottrarre il padre dalla violenza lo finisce a martellate se ne parla per mezz’ora e poi mai più: gli uomini ammazzati non vanno a far parte di nessuna statistica né si meritano parole “a parte”, così la prossima volta imparano e nascono donne. Ho smesso anni fa di guardare Amore criminale proprio per la rabbia che mi suscitavano i casi descritti dal programma. Nove volte su dieci quelle donne potevano sottrarsi alle violenze ma non lo hanno fatto. E io non crederò mai che ci si possa abituare alle violenze come nella metafora della rana nell’acqua bollente. Alle violenze non ci si abitua né ci si rassegna. Perché questo sarà anche un paese che non offre molte tutele ma è un paese nel quale è ancora possibile denunciare un crimine e sottrarsi alla violenza.

Hanno una loro bellezza i siti e le sezioni dei quotidiani dedicati all’esaltazione del vittimismo femminile; ieri era tutto un proliferare di articoli, consigli e suggerimenti circa il sesso svolto a tutte le età. Apro “abbatto i muri”, il blog, aspettandomi di trovare un bel post dedicato a tutte le donne e invece le prime dieci righe del post sull’otto marzo sono dedicate alle povere pornoattrici costrette a misurarsi in amplessi artificiali in riva al mare al freddo del mattino. In catena di montaggio il tepore è assicurato, qualcuno lo dica al team delle femministe del terzo millennio. Idem in Donne di Fatto nel Fatto Quotidiano dove Eretica pensando di liberarle da chissà quale stigma invita ragazzine, minorenni, a non sentirsi in colpa anche se la danno a sconosciuti nei bagni delle scuole e delle discoteche: tutto quello che piace è lecito. Insegnare a figlie e figli a non sprecarsi, a non buttarsi via sarebbe un’operazione di troppo buon senso.
Trovo allucinante che la vita delle femmine debba ruotare esclusivamente intorno al sesso, che si dia tutta questa importanza/rilevanza a questioni che, fino a prova contraria dovrebbero rimanere confinate nel privato, non usate e sbandierate come simboli di libertà di chissà cosa. L’emancipazione, la libertà, si misurano dal numero di esperienze sessuali che si collezionano nella vita? E queste scemenze le scrivono donne che hanno superato da un pezzo l’età della tempesta ormonale: quindi se la cultura è questa è inutile lamentarsi poi se figlie e figli sono costretti a vivere in una società costruita a misura di “grandi bellezze”.

Di cazzate, cazzari e kazake

Secondo Laura Boldrini solo il 2% delle donne trova spazio in televisione per parlare.

L’1, 99 se lo prende lei dicendo, fra cose di buon senso anche un mucchio di sciocchezze, ad esempio quando dice di rallegrarsi perché la Rai ha eliminato dal palinsesto Miss Italia come se la scelta dell’azienda fosse stata dettata da chissà quale rivoluzione culturale o magari perché in Rai qualcuno abbia improvvisamente riscoperto il significato di fare servizio pubblico. 

Niente di più falso: l’azienda ha semplicemente eliminato una zavorra che costava molto e rendeva niente, non c’entra niente la questione di genere e del rispetto per le donne. 

In tutto il mondo si fanno concorsi e sfilate di bellezza che non entrano nel dibattito politico ma rimangono negli ambiti in cui devono restare, sarebbe il caso di smetterla di usare questi argomenti come paradigma della condizione delle donne in Italia per rispolverare un puritanesimo di facciata di cui nessuno ha nostalgia.

Il fatto che in questo paese le donne non abbiano gli stessi riconoscimenti, posizioni sociali degli uomini non è un problema legato ai concorsi di bellezza o alla scelta spontanea di quelle donne e ragazze di sfruttare la loro bellezza per guadagnarsi da vivere con le pubblicità ad esempio. Il problema è esclusivamente POLITICO, e visto che adesso la signora Boldrini fa parte delle istituzioni e della politica dovrebbe smettere di condurre quest’assurda battaglia sui centimetri di pelle che le donne hanno voglia di scoprire e attivarsi per collaborare al raggiungimento di quegli obiettivi che in altri paesi sono già e da tempo  solide realtà.

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Kazakistan, Scajola: “A sua insaputa?
No, Alfano non poteva non saperne nulla”

L’ex ministro dell’Interno: “Vedevo tre volte al giorno il mio capo gabinetto e mi aggiornava
su qualsiasi cosa. Procaccini era il vice”. E sul caso Ablyazov: “L’Eni ha tanti interessi nel Paese”.

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LETTA: “CHI HA SBAGLIATO PAGHI”. RISCHIANO QUATTRO FUNZIONARI (DI MARCO LILLO)
L’UNIONE SARDA RIVELA: “INCONTRO BERLUSCONI-NAZARBAYEV IN SARDEGNA A INIZIO LUGLIO”

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Ma fra quei “vertici” [se questi sono i migliori m’immagino chi c’è dopo] della polizia che rischiano il posto per salvare quello di alfano ci sarà qualcuno a cui non va di fare la figura del pirla a beneficio dell’accozzaglia indegnamente definita governo?

Qualcuno che smentisca tutti questi sterili annunci a base di “io non sapevo” e “io non volevo” dicendo una volta e per tutte come si sono svolti i fatti?

E ci sarà in questo paese un Magistrato che abbia voglia di fare un po’ di chiarezza circa le amicizie pericolose di silvio berlusconi con dittatori di tutte le risme – coi quali lui non s’intrattiene solo a livello personale ma ci fa affari e per il buon esito di quegli affari è disposto a fare qualsiasi cosa e la fa a discapito non della sua sicurezza, quella dei suoi figli ma della nostra e di tutta l’Italia?

E il presidente Napolitano quando si sarà riavuto dallo choc calderoliano ce la farà a dire due parole su una delle vicende più scandalose accadute sotto il suo patrocinato in questo paese RIDICOLO che è l’Italia?

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Kazaki & cazzari  – Marco Travaglio, 16 luglio

Ora ci spiegano che, sul ruolo dei ministri Alfano e Bonino nello scandalo kazako, bisogna attendere fiduciosi il rapporto del capo della Polizia appena nominato dal vicepremier e ministro Alfano a nome del governo Letta per conto del Quirinale. Come se il nuovo capo della Polizia potesse mai sbugiardare il superiore da cui dipende e mettere in crisi il governo che l’ha nominato. Suvvia, sono altre le indagini imparziali che andrebbero fatte. Ci vorrebbe una Procura indipendente dalla politica, quale purtroppo non è mai stata, almeno nei suoi vertici, quella di Roma, che in questi casi si è sempre mossa come una pròtesi del governo di turno. Quindi lasciamo stare le indagini e limitiamoci alle poche cose chiare fin da ora. Se la polizia italiana ha cinto d’assedio con 40 uomini armati fino ai denti il villino di Casal Palocco per sgominare la temibile gang formata da Alma e Aluà, moglie e figlia (6 anni) del dissidente Ablyazov, e spedirle fermo posta nelle grinfie del regime kazako, è per un solo motivo: il dittatore Nazarbayev, che ne reclamava le teste e le ha prontamente ottenute, è uno dei tanti compari d’anello di Berlusconi in giro per il mondo. Da quando Berlusconi è il padrone d’Italia, il nostro Paese viene sistematicamente prostituito ora a questo ora a quel governo straniero, in spregio alla sovranità nazionale, alla Costituzione e alle leggi ordinarie. I compari stranieri ordinano, lui esegue, il funzionario di turno obbedisce e viene promosso, così non parla. Un ingranaggio perfettamente oliato che viaggia col pilota automatico, sul modello Ruby-Questura di Milano. La filiera di comando è tutta privata. Governo e Parlamento non vengono neppure interpellati o, se qualche ministro sa qualcosa, è preventivamente autorizzato a fare il fesso per non andare in guerra, casomai venga beccato. Tanto si decide tutto fra Arcore, Villa Certosa e Palazzo Grazioli. Sia quando lui sta a Palazzo Chigi, sia quando ci mette un altro, tipo il nipote di Letta. Era già accaduto col sequestro di Abu Omar per compiacere Bush (solo che lì una Procura indipendente c’era, Milano, e Napolitano dovette coprire le tracce graziando in tutta fretta il colonnello Usa condannato e latitante). Ora, per carità, è giusto chiedere le dimissioni di Alfano e Bonino, per evitare che volino i soliti stracci e cadano le solite teste di legno: se i due ministri sapevano, devono andarsene perché complici; se non sapevano, devono andarsene a maggior ragione perché fessi. Ma è ipocrita anche prendersela solo con loro. La Bonino è uno dei personaggi politici più sopravvalutati del secolo: difende i diritti umani a distanza di migliaia di chilometri, ma in casa nostra e dei nostri alleati non ha mai mosso un dito (tipo su Abu Omar e su Guantanamo). Alfano basta guardarlo per sospettare che non sappia neppure dov’è il Kazakistan e per capire che conta ancor meno di Frattini, che già contava come il due a briscola: è l’attaccapanni di B. ed è persino possibile che i caporioni della polizia, ricevuto l’ordine dal governo dell’amico kazako, abbiano deciso di non ragguagliarlo sui dettagli del blitz. Tanto non avrebbe capito ma si sarebbe adeguato, visto che non comanda neppure a casa sua. Il conto però va presentato a chi ha nominato Alfano vicepremier e ministro dell’Interno e la Bonino ministro degli Esteri. Cioè a chi tre mesi fa decise di riportare al governo B. nascosto dietro alcuni prestanome. E poi iniziò a tartufeggiare sul Pdl buono (Alfano, Lupi e Quagliariello) e il Pdl cattivo (Santanchè, Brunetta e Nitto Palma). Il Pdl è uno solo e si chiama Berlusconi, con tutto il cucuzzaro dei Putin, Nazarbayev, Erdogan & C. Per questo l’antiberlusconismo, anche a prescindere dai processi, è un valore. Chi – dai terzisti al Pd – lo accomuna al berlusconismo e invoca la “pacificazione” dopo la “guerra dei vent’anni”, non ha alcun diritto di scandalizzarsi né di lamentarsi per gli effetti collaterali dell’inciucio. Inclusi i sequestri di donne e bambine. Avete voluto pacificarvi con lui? Adesso ciucciatevelo.

Piovono bombe, anzi no: rimbalzano

Sottotitolo: ‎”Bisogna guardare le due facce della medaglia, ci sono anche tanti poliziotti che si sono comportati in modo egregio”. [Anna Maria Cancellieri]

Ecco, appunto, e se chiediamo di poter individuare più in fretta chi invece NON si comporta in modo egregio ed eccellente è proprio perché vogliamo vedere SOLO eccellenze nel corpo di polizia e nelle forze dell’ordine in generale. Non siamo così miserabili da non capire che lì in mezzo ci sono padri e madri di famiglia, ragazzi che potrebbero essere i figli di tanti di noi. Iniziamo a dare a queste persone uno stipendio ADEGUATO al rischio e alla responsabilità, magari dando una sforbiciata a tanti emolumenti percepiti indegnamente da politici e manager che hanno condotto l’Italia al fallimento.

O magari  al posto di dare tre milioni di euro al figlio della signora ministro dell’interno come buona uscita per UN ANNO di “lavoro”. Si può fare? sì, no, non è abbastanza tecnico, sobrio, non è politica buona, questa?

ALESSANDRO ROBECCHI – Lacrimogeni, balle e rimbalzi

Alla lettera, il rapporto dei carabinieri dice che la polizia ha tirato un lacrimogeno contro le finestre del ministero della Giustizia e per puro caso non ha fatto lacrimare la ministra e tutto il personale che stava lavorando.

In ogni caso, la toppa è peggiore del buco. [Il Manifesto]

ANNAMARIA RIVERA – I cecchini di via Arenula

Scontri e proteste, il Governo Monti è sotto assedio

Dopo Fornero, Passera e Profumo, la contestazione colpisce a Milano il premier [in visita alla Bocconi] e a Rimini il ministro Cancellieri, che sconta il comportamento della polizia negli incidenti di Roma. I sondaggi mostrano un Paese stremato e con i nervi a fior di pelle, che ai tecnici crede sempre meno [solo il 32%] – Il Fatto Quotidiano

Neanche questi eccellenti e sobri ministri, i migliori che ci potessero capitare secondo il presidente  Napolitano, conoscono la parola DIMISSIONI, è un virus che colpisce tutti quelli che mettono piede nel parlamento italiano.
Una residenza da sfruttare ad libitum, a proprio piacimento, Dio o chi per lui gliel’ha dato e guai a chi glielo tocca.
Un ministro dell’interno che invece di dimettersi dopo le scene da regime cileno a cui abbiamo dovuto assistere per l’ennesima volta va a impartire nientemeno che lezioni di legalità.
Come se Falcone e Borsellino non avessero di che rigirarsi nelle tombe già abbastanza.
La prima responsabile, o l’ultima, dipende da come si guardano le gerarchie, la persona che dunque sull’operato delle forze dell’ordine ci mette la sua faccia e purtroppo anche la nostra di cittadini, visto che rappresenta lo stato [ loro il manganello], che prima fa eseguire il lavoro e poi va a parlare di squadrismo e fascismo ai ragazzi.

Più che una lezione una minaccia.
La signora ministro poteva avere almeno il buon gusto di evitare di parlare di squadrismo e fascismo, considerato che sono proprio lì le origini storiche di un certo sentire ma soprattutto del modo di fare delle nostre forze dell’ordine.
Lo squadrismo è accanirsi in tanti contro uno, se non sbaglio, proprio come usano fare agenti e carabinieri durante le manifestazioni così come di solito si usa fare in tutte quelle occasioni in cui ci scappa il morto per sbaglio per caso e per eccesso, nelle questure come nei sotterranei di un carcere, in uno stadio, nelle strade e nelle piazze.

Purtroppo in questo paese fare il poliziotto o il carabiniere è spesso l’extrema ratio per chi avrebbe come alternativa il nulla, mentre invece una professione così delicata dovrebbe avere motivazioni più alte, fare il poliziotto e il carabiniere dovrebbe significare assumersi la responsabilità di prendersi cura dei cittadini, tutelare con discrezione sulla loro sicurezza.

Il cosiddetto tutore dell’ordine dovrebbe essere un punto di riferimento per i cittadini, non qualcuno a cui pensare con timore augurandosi di non dover mai incontrare un poliziotto o un carabiniere troppo da vicino.

Un paese dove il capo della polizia guadagna più del presidente degli Stati Uniti ha il diritto di avere una migliore gestione delle forze dell’ordine. L’Italia dovrebbe essere l’eccellenza nel mondo.

 E un poliziotto e un carabiniere non possono guadagnare 1300 euro al mese.

Il professionismo si paga, e Manganelli lo sa bene visto che il suo stipendio è intoccabile per Costituzione. Le nozze coi fichi sulla pelle degli altri non si possono fare.

I lacrimogeni di ritorno sono una cosa ridicola tanto quanto la teoria dell’insaputa, indice della mediocrità di chi è chiamato ad occuparsi delle cose di tutti e dei tutti, principalmente.

E se il paese bolle, ministro Cancellieri, questo non è un buon motivo per continuare ad accendere micce.
L’unico gesto di vero buon senso, per restituire un minimo di dignità ai cittadini da parte dello stato dopo i fatti di questi giorni sarebbe stato rassegnare le dimissioni,  invece, in perfetto stile italico non solo il ministro dell’interno resta ma trova perfino qualcuno che le offre un pulpito dal quale impartire lezioni: di legalità.
Vergogna su vergogna.

Lo schiaffo del soldato

Sottotitolo da “Repubblica”; “I quattro poliziotti sono ancora in servizio, ma nei loro confronti è aperto un procedimento disciplinare, le frasi ingiuriose sono entrate nel dossier”.

Siamo troppo giustizialisti: aspettarsi che almeno in caso di condanna definitiva per omicidio, si venga automaticamente radiati dalle Forze dell’Ordine, sarebbe davvero eccessivo.

[Michele Cosentini]

Un provvedimento disciplinare, come se avessero rubato le matite dalla scrivania del posto di lavoro. Come se avessero timbrato il cartellino al collega assenteista. A me ‘sta storia manda letteralmente fuori di testa. Ma che cazzo di paese è questo?  bisognerebbe scappare senza fare nemmeno le valigie. Poi si torna a fare i turisti, casomai.

Lo sfogo della madre di Aldrovandi: “Vogliono uccidere mio figlio mille volte”

Per Patrizia Moretti dopo la rabbia è il tempo della denuncia: “I poliziotti negano l’evidenza di una sentenza della Cassazione. Ho paura. Spero che il ministro degli Interni prenda seri provvedimenti”.

Insulti su Facebook alla famiglia Aldrovandi. La Vezzali si dissocia?

Lasciando stare i precedenti mediatici non proprio edificanti della Vezzali (vedi alla voce “sketch con Berlusconi e dintorni”); e sempre premettendo la buona fede o l’eventualità di un fake; ciò detto e ribadito, è troppo auspicare che Valentina Vezzali prenda posizione e, qualora fosse effettivamente iscritta a Prima Difesa, si dissoci risolutamente da un simile consesso?
E’ vero che in Italia siamo abituati a sportivi chiacchierati, ma una portabandiera iscritta a un gruppo simile sarebbe francamente inaccettabile.

P.S. Al momento, al gruppo “Prima Difesa Due” risulta iscritto, da 11 mesi, anche il profilo facebook di Renata Polverini.

Il ministro Cancellieri pensa che una sentenza si può ignorare per tutto il tempo che si vuole, basta non leggerla.
Meno male che è stata messa in  un ministero che non ha niente a che fare con la giustizia.

Insultare morti non è un esercizio di libera espressione. Non lo è nemmeno insultare i vivi, ma almeno i non morti hanno la possibilità di difendersi dalle diffamazioni.

Tutti i morti di stato vengono ammazzati ancora e ancora, dopo la loro morte fisica. E’ già successo, con Falcone e Borsellino, con Carlo Giuliani, non basta l’annientamento totale, bisogna eliminare anche la benché minima traccia,  soprattutto morale,  di quel che un tempo era stata una persona.

Credo che  nella storia di questo paese non ci sia stato nessuno più insultato di Carlo Giuliani, da morto. E adesso tocca a Federico, qualcuno doveva raccogliere il testimone, evidentemente.

Chiunque – da parte debole –  abbia avuto a che fare con le forze dell’ordine sa che abbastanza di frequente  capita che  persone che forse hanno qualche problemino con la giustizia, il ladruncolo, il piccolo spacciatore, oppure chi si tiene due grammi di hashish in tasca per farci i fatti suoi  vengano trattate in modo non corretto né troppo civile

Per queste vale tutto, a cominciare dallo sputtanamento pubblico sui giornali, specialmente poi se il ‘malfattore’ è di un’altra nazionalità, e le botte, il pestaggio “pedagogico, educativo” molto spesso sono il messaggio di benvenuto dello stato nelle caserme da Bolzano a Palermo.

E allo schiaffo del soldato in quel caso non ci si può proprio sottrarre.

Diversa è la situazione quando davanti ad un carabiniere o  ad un poliziotto si ritrova (raramente, peraltro) il pre-potente, il politico ladro, colluso con la mafia, corrotto o corruttore, per questi nessun abuso, anzi spesso si esagera con le buone maniere, a cominciare dalla discrezione, ché i panni più sono sporchi e più si devono lavare in famiglia.
Tutto questo anche grazie a quella mentalità ottusa di gente che naturalmente pur di evitare anche il minimo ragionamento si schiera a prescindere dalla parte della legge o, meglio ancora della giustizia ( me viè da ride)  perché  “a chi non fa niente non succede niente” oppure difende le sue ridicole certezze pronunciando  la fatidica frase: “se fosse rimasto a casa sua ora sarebbe ancora vivo”.

Fuori dalla polizia questi quattro criminali, e se si arrivasse ai mandanti sarebbe ancora meglio. Perché i mandanti ci sono, e sono fra quelli che non fanno leggi per porre dei limiti alle violenze di stato, per impedire alle forze dell’ordine di trasformarsi nel braccio armato del potere. E che poi non ne fanno altre per punire seriamente gli assassini di stato.

Perché sto con la mamma di Aldrovandi – 

di Ilaria Cucchi (sorella di Stefano, altro morto ammazzato da “ignoti” mentre si trovava sotto la tutela di funzionari dello stato)

Noi eravamo presenti al momento della pronuncia della sentenza della Corte di Cassazione. Lucia Uva, Domenica Ferrulli ed io. Perché noi in questi anni siamo diventati una famiglia.
Noi sappiamo cosa significa lottare momento dopo momento per una giustizia che si da per scontata ma che molto spesso non lo è.

Noi sappiamo quanto è importante per noi, e per quelli come noi, che finalmente e definitivamente coloro che hanno tolto la vita a un ragazzino che non aveva fatto niente di male siano stati giudicati colpevoli. Questa è la giustizia in cui vogliamo credere. Questo ciò che da a noi la speranza di andare avanti.

Questo ciò che è riuscita a fare, da sola, Patrizia Moretti. Per la sua famiglia, per Federico che ora le sorride da lassù ma che mai nessuna sentenza potrà restituirle. Ma anche per l’intera collettività. E per noi, che senza il suo coraggio non avremmo mai trovato la forza necessaria per intraprendere battaglie di simili dimensioni.

Patrizia lo ha fatto sapendo bene che quanto aveva di più prezioso non le sarebbe stato restituito da una sentenza di condanna. Nella quale ella stessa, pur sapendo benissimo come erano andate le cose, avendo imparato a sue spese a conoscere questa giustizia in tanti momenti non ha sperato.

E lo ha fatto anche nell’illusione di poter cambiare una cultura. Quella terribile per la quale chi indossa una divisa ha ragione a prescindere. Ma contro il pregiudizio e l’ottusità a volte non basta nemmeno questo. Se oggi, di fronte all’evidenza delle atrocità che hanno fatto coloro che hanno ucciso Federico Aldrovandi, c’è ancora chi ha il coraggio di difenderli. E non solo. Purtroppo.

Patrizia ha visto calpestata la vita di suo figlio, appena diciottenne e con tutta la vita davanti, ed oggi dopo tanto dolore aggiunto al dolore, quello di una lotta impari affrontata con lo strazio della consapevolezza che ormai la sua vita era finita nello stesso istante in cui era finita quella di Federico, vede calpestata anche la sua memoria.

Ma che senso ha tutto questo?
E la nostra realtà politica non ci aiuta.
Troppo presi evidentemente a fare leggi su misura per loro. Ignorando quali sono i problemi veri della gente comune.
Gente che per merito della nostra giustizia riesce a fatica a far emergere realtà scomode, grazie solo ed esclusivamente alle pubbliche denunce. Quelle rivolte alla gente normale.

Quelle che fanno indignare il vicino di casa e l’impiegato dell’ufficio postale, che solo in quel momento assumono consapevolezza dei soprusi che avvengono ogni giorno nell’indifferenza generale.
Perché fa comodo a tutti non parlarne.
Così. Come se niente fosse successo.
Perché parlarne vuol dire mettere in discussione l’intero sistema.
Molto meglio chiedere a noi di farcene una ragione.
Sfatiamo questo mito. La giustizia non è uguale per tutti.
Cambiano le persone che comandano questo Paese, ma non cambia la mentalità. Se il ministro degli interni, piuttosto che tacere, ritiene opportuno esprimersi in maniera vaga anziché compiacersi per la vittoria della giustizia, quella vera, una volta tanto.

Cosa dovremmo pensare noi?
Che siamo soli. E ancora una volta qualcuno ce lo ha dimostrato.
Ma niente e nessuno riuscirà a farci desistere dal nostro bisogno di giustizia. I nostri cari non sono morti per un puro caso, ma per colpa di chi avrebbe dovuto tutelarne i diritti.

E nessuno può chiederci di far finta di niente.
Lo sappiamo bene quanto è e sarà dura.
E sappiamo anche bene che possiamo confidare solo su noi stessi, sul nostro avvocato e angelo.

E sul coraggio di Patrizia.
Che ha cresciuto un ragazzo fantastico, che sarebbe stato accanto a lei per tutti i giorni della sua vita, se quattro assassini non avessero deciso di portarlo lontano da lei.

fonte globalist 26 giugno 2012