In fila per sei col resto di due

Mauro Biani

E’ colpa nostra.
Abbiamo capito male noi.
Lui non diceva di voler rottamare ma che voleva i rottamati.
La prossima volta, se ce la concederanno, cerchiamo di stare più attenti.
Soprattutto chi per votare #Renzi ha perfino pagato.

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Il numero due alla giustizia del governo del matt’attore è Costa, il relatore del lodo alfano poi cassato dalla Consulta. Sottosegretario un ex di forza Italia: Ferri.
Forse adesso è più chiaro perché il numero uno non poteva essere Gratteri. Che birichino, il Napo Capo, e che riform’attore, Matteo Renzi.  Povero silvio, chissà dove lo manderanno a scontare le 48 ore residue dei servizi sociali che gli spettano.

I nuovi che avanzano, anzi, che sono avanzati. Una, Francesca Barracciu ritirata al fotofinish proprio da Renzi alle regionali in Sardegna perché indagata per peculato e dunque sottosegretaria del governo di Renzi: alla cultura, e non è uno scherzo.

Sono bastati tre giorni per smascherare definitivamente il bluff di uno che per mesi è andato in giro per l’Italia a raccontare di fantasmagoriche iniziative di rinnovamenti, rottamazioni, di effetti speciali nella politica e nel governo ma nei fatti ha agito e agisce come un vecchio mestierante della politica: la solita, quella del sistema, dei mezzucci che ha consentito a Matteo Renzi questa scalata al potere prim’ancora di aver potuto dimostrare di averlo meritato.
Un giorno qualcuno ci spiegherà, o lo farà ai posteri, come mai una persona ritenuta inadatta e indegna di far parte di un governo regionale per motivi di incompatibilità col rispetto della legge, è stata invece ritenuta adatta e affidabile per far parte del governo nazionale. Quattro inquisiti su dieci nel governo di Renzi e sono tutti del piddì: il partito che si era presentato come quello del cambiamento, che si tiene in casa gli indagati e caccia chi si oppone a progetti scellerati come il NoTav e poi si mette sul pulpito come fosse l’associazione delle anime candide a giudicare i comportamenti degli altri. Ecco: questo sarebbe un bell’argomento di conversazione per i servi e servetti di regime che scrivono sui giornali e vanno in tv a recitare la parte dei filosofi e degli intellettuali come Cacciari che è sempre, insopportabilmente e inutilmente in televisione.
Magari al posto di incensare e magnificare il bel governo del giovane e rampante Matteo Renzi.

Continueranno a definire disfattista, populista, qualunquista tutta la gente che si oppone all’idea di un mondo che cambia in peggio perché cambia la politica, se possibile ancora in peggio, abbandona la sua funzione di servizio utile ai paesi per mettersi al servizio dei vari poteri che ormai gestiscono la vita della gente senza nemmeno nasconderlo: un nome su tutti quella Trilateral che non è una fantasia di cui si parla come  di un’entità astratta ma un’associazione, definita impropriamente “gruppo di studio”  che agisce su scala mondiale composta da uomini e donne in grado di influenzare e sovvertire i governi nazionali, di condizionare gli eventi.  Qualcuno continuerà a raccontarci la balla che destra e sinistra non contano ma che bisogna guardare alle persone [e che persone!]. Continueranno a dirci che per salvare il salvabile sono necessari accordi che solitamente non si fanno, compromessi al ribasso. Io invece mi riservo di continuare a far parte orgogliosamente di quella minoranza di gente che della politica e di quelle persone non si fida, perché non hanno fatto nulla e continuano a non fare nulla per conquistare la mia fiducia.

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Un sottogoverno di impresentabili – L’Espresso

Ex berlusconiani di ferro, inquisiti, incompetenti. Fra i 44 sottosegretari e i 9 vice-ministri spunta di tutto. Col rischio che, per accontentare partiti e correnti, l’esecutivo si dimostri una truppa allo sbaraglio. [http://espresso.repubblica.it/palazzo/2014/02/28/news/quanti-impresentabili-nel-sottogoverno-di-matteo-renzi-1.155386]di Paolo Fantauzzi e Michele Sasso

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IL PM NO, GLI INQUISITI SÌ – Marco Travaglio, 1 marzo

Un giorno, forse, scopriremo che cos’abbia indotto il giovane Renzi a bruciarsi la carriera e a giocarsi la faccia con il colpo di palazzo che ha detronizzato il bollito Letta senza passare dal voto, poi con la nomina di un governicchio di riciclati, lottizzati, lobbisti e mezze tacche, infine ieri con una lista di 44 fra viceministri e sottosegretari che c’è da sporcarsi soltanto a sollevarla con una canna da pesca.

Per intanto, è caduta la maschera: la rottamazione era un bluff, una trovata propagandistica per prendere il potere, raggiunto il quale il rottamatore si comporta come il più decrepito dei partitocrati Ancien Regime. Magari – chissà, speriamo – farà qualcosa di buono, ma se il buongiorno si vede dal mattino c’è poco da stare allegri. E, se la lista dei ministri l’ha sbianchettata Napolitano, quella dei sottosegretari è tutta roba sua.

Gli inquisiti sono addirittura quattro: il 10 per cento, un’ottima media che fa impallidire quella di Letta. Tutti e quattro sono targati Pd: Francesca Barracciu, Umberto del Basso de Caro, Vito De Filippo e Filippo Bubbico. I primi tre rispondono di peculato per le ruberie sui rimborsi regionali. La sarda Barracciu, in quanto indagata, non poteva essere candidata a governatore di Sardegna, ma fare il sottosegretario può eccome. Alla Cultura, ovviamente. Il campano del Basso de Caro, che è pure l’avvocato di Mancino al processo Trattativa, gestirà le Infrastrutture con l’ottimo ministro Lupi (anche lui inquisito da ieri per abuso a Tempio Pausania) e altri due vice scelti con sopraffina meritocratizia: il sottosegretario Ncd Antonio Gentile, celebre per aver candidato B. al Nobel per la Pace e per aver bloccato le rotative de L’Ora della Calabria per occultare la notizia del figlio indagato; e il viceministro socialista Riccardo Nencini, amicone di Riccardo Fusi asso pigliatutto della cricca della Protezione civile. L’ex governatore lucano De Filippo dovette dimettersi l’anno scorso con tutta la giunta indagata in blocco, dunque ora si divide fra l’inchiesta per peculato e il ministero della Salute. Il quarto indagato, anzi imputato è il suo predecessore Filippo Bubbico: essendo sotto processo a Potenza per abuso d’ufficio, rimane a pie’ fermo viceministro dell’Interno.

Poi c’è il ministero della Giustizia (si fa per dire), che segna anche ufficialmente il ritorno di Silvio Berlusconi al governo per interposti viceministro Enrico Costa (ora Ncd) e sottosegretario Cosimo Ferri. Quest’ultimo, detto spiritosamente “tecnico”, è il magistrato, ras di Magistratura Indipendente, che entrò al governo con Letta in quota Forza Italia, poi all’uscita del Caimano s’imbullonò alla poltrona fischiettando come nulla fosse. Il suo nome salta fuori dalle intercettazioni di alcuni fra gli scandali più vergognosi degli ultimi anni: Calciopoli, loggia P3 e caso Agcom-Annozero. Nessun reato, nessun avviso, ma quanto basterebbe almeno per tenerlo lontano dalla Giustizia. Invece rieccolo sottosegretario al fianco del ministro Orlando (a cui va la nostra piena solidarietà) e al neo-viceministro Costa, che nella scorsa legislatura, da capogruppo Pdl in commissione Giustizia, firmò come autore o promotore o addirittura relatore tutte le peggiori leggi vergogna approvate o tentate dalla banda B: lodo Alfano 1 e 2, legittimo impedimento, processo breve, processo lungo, prescrizione breve, bavaglio-intercettazioni e altre porcate. Insomma: due nomi, una garanzia. Soprattutto per il Cainano.

Saranno contenti quei gran geni dell’Anm che, per coprire le spalle a Re Giorgio, avevano storto il naso all’idea di magistrato come Nicola Gratteri ministro della Giustizia (invece il generale Rossi sottosegretario alla Difesa, come nelle repubbliche delle banane, va benissimo). Ma in fondo è stata una fortuna che Gratteri sia stato stoppato dal Colle proprio sull’uscio di Via Arenula: vista la compagnia, avrebbe dovuto dimettersi nel giro di una settimana. O, in alternativa, fare una retata.

Il vizio della memoria

Sottotitolo: che destino può avere un paese dove si bluffa, si improvvisa perfino sulle previsioni del tempo? Secondo gli illustri previsori preventivi, quelli che non prevedono ma ormai sono costretti ad ipotizzare per rispondere alla richiesta di un’utenza sempre più numerosa, quella  che non si accontenta di sapere che tempo farà domani ma vuole sapere se fra due settimane dovrà uscire con l’ombrello o lo spolverino, oggi a Roma sarebbe dovuto nevicare, mentre la temperatura esterna alle otto di stamattina era di dodici gradi. Le previsioni possono intercettare le perturbazioni e avere quindi un’attendibilità attendibile al massimo nei due, tre giorni prossimi venturi, oltre questo periodo è fantasiosa creatività. La realtà è che ci trattano come vogliamo essere trattati, in politica come in tutti gli ambiti. Perché non ce ne dovrebbe fregare nulla di che tempo farà fra dieci giorni, anche se abbiamo programmato una cosa particolare e importante. Perché nulla si può fare per impedire l’evento inevitabile.Nella politica però non esiste l’inevitabile: tutto si sarebbe potuto, e dovuto evitare. Anche berlusconi.

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Come faceva giustamente notare Oliviero Beha l’altra sera da Paragone, la vergogna non passa per le sentenze di un tribunale.
Così come non dovrebbero passarci la dignità e il senso personale della decenza. Paolo Borsellino diceva che conoscere persone disoneste, ancorché mafiose non costituisce di per sé un reato, ma se a conoscerle, frequentarle, avere rapporti stretti con loro, farci affari insieme e magari anche un partito politico, mettersele in casa in qualità di “stallieri eroi” è un politico dovrebbe essere un motivo più che sufficiente a rendere quel politico non solo inaffidabile “professionalmente” ma proprio umanamente. Nel paese del garantismo tout court, invece, quello dove non si è colpevoli nemmeno dopo un terzo grado di giudizio che non c’è in nessun altro paese al mondo, dove il desiderio di uguaglianza e di una giustizia uguale per tutti viene definito giustizialismo, essere stati raccomandati e accompagnati nella carriera politica dal frequentatore di mafiosi fa curriculum. E il risultato sono le persone come la De Girolamo che, invece di incassare il suo fallimento cerca un’assoluzione per un comportamento che non costituisce di per sé un reato ma che la rende di sicuro inaffidabile.

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Mauro Biani - The great biutifullLe larghe intese che Renzi rinfaccia oggi al pd che gli rinfaccia di andare a parlare con l'”evasore fiscale” berlusconi che poi è un frodatore, reato ben più grave dell’evasione, piacevano anche a Renzi, anzi, le auspicava.
Questo è un paese senza memoria, ecco perché vincono i berlusconi e i Renzi.
“Matteo Renzi, ospite di Ballarò, ammette che secondo lui in un altro paese che non sia l’Italia, PD e PDL avrebbero già trovato un accordo per governare.” [5 marzo 2013]

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La cosa importante che va ribadita e ripetuta è che l’indignazione del pd, nemmeno tutto verso Renzi che va a parlare con berlusconi è una paraculata ipocrita per prendere in giro i loro elettori che adesso vedono quelli che s’indignano ma non si ricordano, per amnesia vera o per opportunismo, del passato, quello meno recente e quello più attuale. 
Ha ragione Travaglio sulla memoria dei pesci rossi. 
Sembrano tutti i nati ieri che si stupiscono, si meravigliano e poi votano Renzi dopo vent’anni di berlusconi: come se non fosse stato sufficiente il sopportato subito e i pazzi, gli antipolitici siamo noi che invece abbiamo il vizio della memoria.

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Il ruolo dell’intellettuale, del filosofo, della persona in possesso di una cultura superiore all’interno delle società è sempre stato quello di indurre al ragionamento, alla riflessione profonda, di spiegare attraverso il suo grado di conoscenza quello che accade, i cambiamenti, aiutare la gente semplice, quella che non “ci arriva” per una cultura insufficiente o quella che si arrocca sulle sue certezze pensando che non esista un diverso modo di vedere, quindi di comprendere le cose. 

Più o meno la stessa funzione che hanno i libri, la letteratura, che hanno la capacità di aprirci la mente verso nuovi orizzonti, spiegandoci che non ci si deve fermare all’evidenza ma andare sempre oltre, perfino oltre quel che si vede e si legge. 

Solo in questo modo si può sviluppare quel senso critico che non si ferma al semplice giudizio sommario ma che si fonda su delle argomentazioni solide.

Cacciari, che viene invitato ovunque proprio in virtù del suo ruolo di filosofo ieri sera da Santoro, davanti a Salvini, ha detto che la lega non è razzista, che si muove e agisce secondo quello spirito che ha sempre animato quel movimento, dunque è legittimo pensare che faccia parte di quello spirito non violento, secondo il Cacciari pensiero, anche lo stalking reiterato, gli insulti, aver paragonato ad un orango il ministro Kyenge, averle lanciato banane su un palco. 
Episodi, ormai praticamente quotidiani, che non dovrebbero far preoccupare nessuno. 
Cacciari, da filosofo, divulgatore delle belle teorie, quelle che dovrebbero aiutare nella comprensione, invece di contrastare il pensiero leghista mettendo in evidenza lo spirito della lega, quello violento e discriminante gli riconosce una sua dignità e da oggi in poi Salvini e tutti quelli come lui potranno avvalersi, oltre che del loro spirito “animato” anche dell’autorevole parere di Cacciari – il filosofo intellettuale – per giustificare tutte le loro porcherie razziste.

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LA VOGLIA D’INCIUCIO (Curzio Maltese)

La parte del Pd che ha governato per due anni e fino all’altro giorno con Berlusconi si scandalizza se il nuovo segretario Matteo Renzi vuole discutere con il capo della destra la legge elettorale. All’improvviso i bersaniani, i dalemiani e altri correntisti del Pd hanno scoperto dopo vent’anni che Berlusconi è inaffidabile, ha un sacco di problemi con la giustizia, processi in corso, condanne, e insomma non è una persona con cui trattare. Cristianamente, si dovrebbe festeggiare questo ritorno a casa dei figlioli prodighi uccidendo il vitello grasso. È dai tempi della Bicamerale che scriviamo questo su Repubblica, spesso accusati dai vertici del centrosinistra di antiberlusconismo viscerale, estremismo ideologico e impolitico. Ora si sono convinti: evviva. Ma sui pentiti della sinistra è lecito avere qualche sospetto.

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LA RESURREZIONE DI LAZZARO – Marco Travaglio, 17 gennaio

Per la serie “senti chi parla”, ovvero “il bue che dà del cornuto all’asino”, va in scena la pantomima della sinistra Pd che chiede a Renzi di non incontrare B. “perché è un evasore fiscale”. A parte il fatto che è molto peggio di un evasore (la condanna è per frode fiscale), il nostro ometto ha una sfilza di sentenze di prescrizione e amnistia che lo dichiarano corruttore di giudici, pagatore occulto di politici, falsificatore di bilanci, testimone mendace e così via. Eppure questi sepolcri imbiancati, pur conoscendone il curriculum penale, o forse proprio per questo, ci han fatto insieme una Bicamerale, vari inciuci su tv, giustizia e conflitto d’interessi, un governo tecnico (Monti) e un governo politico (Letta), dopo avergli servito sul piatto d’argento le teste mozzate di Prodi e Rodotà, fatto scegliere il “nuovo” presidente della Repubblica (Napolitano) e il nuovo premier (il nipote di zio Gianni) in nome della “pacificazione” dopo la “guerra civile dei 20 anni”, tentato di “riformare” con lui la giustizia e la Costituzione.

Se le ultime porcate non sono andate in porto non è merito del Pd, che ci ha provato fino all’ultimo, tentando per mesi di trattenere B.. È merito (involontario, si capisce) di B., che s’è divincolato dai loro appiccicosi abbracci e li ha mollati perché non hanno mantenuto le promesse di pacificazione e, incalzati dagli elettori inferociti e dai 5Stelle, non gli hanno garantito il salvacondotto nonostante i generosi tentativi di Violante & C. Se alla sinistra Pd faceva schifo il pregiudicato, il 1° agosto – giorno della condanna – poteva cacciarlo. Invece i ministri bersaniani e dalemiani sono rimasti a pie’ fermo sulle poltrone di combattimento, del governo e della maggioranza, fino a due mesi fa quando, fuggito e decaduto il Cainano, hanno preso a fingere di non averlo mai conosciuto. E subito han digerito, senza l’ombra di un ruttino, la compagnia dei poltronisti dell’Ncd, da Alfano a Schifani, da Cicchitto a Quagliariello, da Formigoni a Lupi, da De Girolamo ad Azzollini, da Bonsignore a D’Alì, che avevano sempre difeso il condannato e continuano a difenderlo, anche perché vantano una percentuale di inquisiti da far impallidire Forza Italia.

E ora questi stomaci di ghisa e queste facce di bronzo intimano a Renzi di non parlare con B. di legge elettorale e l’accusano di resuscitarlo, sfoderando una questione morale messa sotto i tacchi per vent’anni? Sentite Danilo Leva, il geniale responsabile Giustizia di Bersani che fino a due mesi fa voleva riformare la giustizia col pregiudicato: “Un conto è Forza Italia, un conto è Berlusconi condannato in via definitiva. Non vorrei una sua riabilitazione attraverso gratuiti atti simbolici”. Sentite il capogruppo bersaniano Roberto Speranza, che dirigeva alla Camera la truppa alleata di B. fino a due mesi fa: “È poco opportuno il confronto con un condannato in terzo grado”.

Se questi tartufi avessero davvero a cuore la questione morale, si potrebbe almeno starli a sentire. Invece è chiarissimo quel che temono, in sintonia con l’impiccione del Colle: che Renzi trovi i numeri per cambiare la legge elettorale con una maggioranza diversa da quella di governo, mettendo ai margini i partitucoli e in crisi il Napoletta. Ma una legge elettorale decente non potrà mai nascere accontentando alfanidi, montiani e casinisti, noti frequentatori di se stessi. Per farla occorre un accordo fra il Pd e uno dei due partiti maggiori: o M5S o FI. Renzi s’è rivolto anzitutto a Grillo, che però s’è chiamato fuori, rinunciando a influenzare la riforma elettorale e rinviando tutto al web-referendum di fine febbraio, troppo tardi. A questo punto a Renzi non resta che FI, talmente mal messa da accettare qualunque diktat pur di rientrare in gioco. Se però B. tornerà in partita, la colpa andrà attribuita a chi ci ha sprofondati in questo incubo. Non l’altroieri: l’anno scorso, quando i pidini che ora gridano alla resurrezione di Lazzaro seppellirono Prodi e Rodotà e riesumarono la salma di B. dalle urne. Anzi, dall’urna.

Amato, da chi?

 

Come dice un mio caro amico è vero che in Italia abbiamo un problema culturale enorme da cui scaturiscono limiti intellettuali altrettanto enormi, ma la colpa non è solo nostra, della gggente, è soprattutto di chi da pulpiti autorevoli, da ribalte pubbliche, maggiormente nella politica e nelle istituzioni stimola certe reazioni, riflessioni.
C’è un sacco di gente, me compresa, che quando si alza al mattino vorrebbe pensare ad altro, occuparsi serenamente delle sue cose, ma non ce lo fanno fare.
Nel dibattito pubblico non cambia una virgola da vent’anni; berlusconi, i reati di berlusconi, le condanne di berlusconi, i salvataggi in extremis di berlusconi, i papi, gli anatemi sulla famiglia uomo + donna = figli, la negazione dei diritti civili, la politica che non si occupa più di niente se non di stessa, chiusa nella sua autorefenzialità di casta e inginocchiata davanti a poteri più dannosi e devastanti di quanto possa esserlo la politica stessa.

L’Italia è un paese per schizofrenici, non per persone normali, sane, che vogliono essere libere di vivere, respirare e farlo possibilmente in un un paese sano, non corrotto, non nelle mani dei soliti ignobili personaggi.

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Nuovo ricatto dei Riva “Dopo sequestro di ieri chiudiamo le aziende” 

In un paese normale una volta stabilito che un imprenditore è un criminale gli si toglie la possibilità di nuocere ancora, come anche al politico criminale.
Qui no, si preferisce il sadomaso.
Ce piace soffrì.

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Se una gigantessa come Barbara Spinelli scrive che un’eventuale caduta di governo non comporterebbe nessun’aggiunta alla catastrofe in corso da una ventina d’anni [per tacere sui precedenti] io le credo: istintivamente sono più propensa ad avere fiducia in lei che in Napolitano, Letta e in tutti quelli che dalle loro tribune, specialmente quelle “repubblicane” [ogni riferimento a Scalfari non è puramente casuale] minacciano miseria, terrore e morte se il capolavoro napoletano delle larghe intese dovesse si dovesse guastare.

Barbara Spinelli: “Lo stravolgimento dell’art.138 è un colpo di mano”

“Si parla di deroga, ma la parola giusta è violazione della Costituzione: finché non è modificato, l’articolo 138 è legge da osservare. Tanto più è un colpo di mano se pensiamo alla presente congiuntura storica: un Parlamento di nominati, un governo di larghe intese che gli elettori non volevano e che distorce la democrazia”.

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Papa Francesco: “Fecondità dalla differenza. Matrimonio uomo-donna nella Costituzione”.

Ennò, purtroppo non c’è.
Quegli sbadati dei padri costituenti hanno dimenticato di precisare che il matrimonio è quello previsto solo fra donne e uomini. L’articolo 29 parla genericamente di CONIUGI ma non specifica che debbano essere specificamente moglie e marito, ovvero ‘n omo e ‘na donna [cit. Carlo Verdone].

Perché il papa non va a dire a Francia e Inghilterra che hanno appena approvato la legge sui matrimoni omosessuali che “la fecondità sta nella differenza”?

E chi non vuole figli? chi non li può avere? 

Ma basta con questa storiaccia che l’unico matrimonio è quello finalizzato a far nascere dei figli.

 

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Quando è stata approvata la legge che trasforma gli arresti domiciliari in un specie di telelavoro, uno di quelli che si facevano una volta da casa  tipo fare le collanine, imbustare documenti eccetera?

Perché sentir ripetere la storiella che berlusconi non avrebbe problemi a lasciare il parlamento perché potrebbe poi continuare a fare politica “da fuori” a me pare l’ennesima presa per i fondelli in quanto berlusconi più che avere la possibilità di fare politica da fuori dovrebbe smettere di farla, semmai l’abbia mai fatta, in quanto il suo posto sarebbe “dentro”.

I cosiddetti ladri di polli quando sono ai domiciliari devono rispettare anche il confine fra la porta di casa e il pianerottolo, se si azzardano a superarlo e li beccano li riportano direttamente in galera per evasione, qui invece abbiamo avuto alessandro sallusti che in qualità di detenuto ai domiciliari, sebbene per poche ore, ha avuto la possibilità di usare un computer, connettersi alla rete e twittare tutta la sua disperazione di persona deprivata ingiustamente della libertà di poter diffamare ancora e ancora, tant’è che Napolitano alla fine si è commosso e lo ha messo nella condizione di poter continuare a farlo da persona libera.

Perché finché certe cose le dicono i soliti, quelli che sulle balle, sulla disinformazione hanno creato la loro fortuna e il loro potere è una cosa, ma se una minchiata come la politica svolta per videoconferenza mentre si scontano gli arresti domiciliari la dice anche Cacciari in televisione la questione diventa seria.

Avere a disposizione un computer per connettersi ad internet è molto di più che avere la possibilità di uscire di casa, significa poter continuare a comunicare con l’esterno con chi si vuole e quando si vuole, qualcosa che ai detenuti normali, sia che scontino la pena in carcere o a casa non è concessa.

Avvertite Cacciari.

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Napolitano piazza Amato alla Consulta

L’ennesima poltrona per il signore della Casta, Giorgio Meletti

 

Napolitano ha nominato Giuliano Amato giudice della Corte costituzionale

Presidente del Consiglio, ministro della Repubblica in tre diversi governi (Goria, Prodi, D’Alema), già senatore e deputato, giurista e docente universitario. Con questo curriculum l’ex socialista (e braccio destro di Craxi) e poi democratico diventa nuovo componente della Consulta. Il centrodestra lo ha candidato due volte al Quirinale.

AMATO, PIÙ POLTRONE DI DIVANI&DIVANI (DI M. TRAVAGLIO)


BOBO CRAXI DISSE: “PAPÀ CAPO DEI LADRI? AMATO ERA IL VICE” 

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Se il centrodestra che è di berlusconi come un sacco di altre cose, pure troppe, ha candidato due volte Giuliano Amato al Quirinale sarà legittimo dubitare della sua imparzialità quando la Consulta sarà chiamata a decidere su questioni che riguardano berlusconi? io penso di sì.

Fino ad oggi avevamo l’ultimo appiglio, l’ultima speranza che che gli errori, chiamiamoli così, fatti dalla politica trovassero poi una giusta correzione, che i giudici della Corte Costituzionale rendessero nulle le decisioni che la politica prende non in funzione degli interessi di tutti come dovrebbe essere ma solo di qualcuno, spesso solo di uno, il noto pregiudicato delinquente.

E’ grazie alla Consulta che sono state rigettate quelle leggi su cui Napolitano metteva frettolosamente la sua firma senz’accorgersi  che non andavano bene, che non erano in linea con quella Carta che dovrebbe essere il faro nella nebbia della politica e non un fastidioso orpello di cui liberarsi.

Oggi questa certezza non l’abbiamo più, e non perché Giuliano Amato non abbia le competenze per occupare quel ruolo ma perché è un uomo della politica, di quella politica che ha trascinato l’Italia nel baratro, e come scrive Marco Travaglio nel fondo di oggi se a capo di quella Corte così importante, fondamentale per la stabilità della democrazia Napolitano avesse messo una persona “terza” sarebbe stato molto meglio, avrebbe rassicurato tutti circa quell’imparzialità indispensabile con la quale è chiamata a decidere la Consulta.

Invece io ho la sensazione che questa nomina sia  il vero scacco matto alla democrazia, un altro duro colpo inferto alla Costituzione dal bravo presidente, quel garante di tutti ma che in realtà, proprio nei fatti, ha dimostrato di voler garantire solo qualcuno.

Se Amato è il migliore che c’è sulla piazza, e contando gli incarichi che ha avuto, la sua pensione milionaria pare proprio di sì, forse è la risposta del perché questo è un paese da buttare, da radere al suolo e spargerci su il sale, come dopo la battaglia di Cartagine.

E pensare che avere una seconda occupazione per tentare almeno di sopravvivere qui è un reato.
E’ lavoro considerato nero; una truffa allo stato.

E chissà perché chi fa le leggi poi può permettere ai soliti noti di  avere sette, otto, dieci, trenta incarichi tutti pagati [per informazioni citofonare Befera, Abete, Montezemolo, Mastrapasqua, Amato and so on], di fare tutto ciò che vuole tranquillamente, alla luce del sole, lontani dal nero della miseria e della povertà in cui sta sprofondando l’Italia.

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Orgasmo da Rotterdam, Marco Travaglio, 13 settembre

Un giorno o l’altro, magari da qualche casuale intercettazione o ritrovamento di elenchi o liste, scopriremo le doti nascoste di Giuliano Amato, l’uomo che non doveva pensionarsi mai, la salamandra che passava indenne tra le fiamme, il dinosauro sopravvissuto alle glaciazioni, il “sederinodoro” (come diceva Montanelli) che riusciva a occupare contemporaneamente mezza dozzina di cadreghe alla volta. I collezionisti di poltrone e pensioni troveranno a pagina 3 l’elenco completo delle sue. Ma qui c’è di più e di peggio: in un Paese dove nessuno riconosce più alcun arbitro imparziale, figura terza, autorità indipendente, non si sentiva proprio il bisogno di trapiantare un vecchio arnese della politica in quello che dovrebbe essere il massimo presidio della legalità costituzionale: la Consulta. Già negli ultimi anni, spesso a torto e qualche volta a ragione, la Corte è finita nella rissa politica per sentenze o decisioni che puzzavano di compromesso col potere. Specie da quando l’arbitro supremo che sta sul Colle ha smesso la giacchetta nera e s’è messo a giocare le sue partite politiche trasformando la Repubblica in sultanato (vedi bocciatura del referendum elettorale e verdetto sul caso Mancino).

Lo vede anche un bambino che di questi tempi la Consulta e gli altri organi di garanzia hanno bisogno di un surplus di indipendenza e di terzietà. Invece che t’inventa Re Giorgio? Prende un suo amico, ex braccio destro di Craxi, deputato e vicesegretario Psi, vicepremier, due volte premier, ministro del Tesoro (due volte), dell’Interno, delle Riforme, degli Esteri, senatore dell’Ulivo e deputato dell’Unione, candidato al Quirinale nel ’99, nel 2006 e nel 2013, “vicino” (si dice così?) al Montepaschi, consulente Deutsche Bank, insomma ex tutto, e lo promuove giudice costituzionale. Possibile che Napolitano non conosca un giurista meno incistato nel potere politico e finanziario di lui? Gli dicono nulla nomi come Pace, Carlassare, Cordero? Già la Corte è piena di politicanti camuffati da giureconsulti e nominati dal Parlamento, cioè dai partiti. Almeno il Quirinale avrebbe potuto, anzi dovuto scegliere una figura indipendente, fuori dai giochi, magari sotto i 50 anni (e, se non è troppo, donna): invece ha voluto il Poltronissimo. Nonostante certi suoi trascorsi, o forse proprio per quelli.

Nel 1983, spedito da Craxi e commissariare il Psi travolto dallo scandalo Zampini, Amato rimproverò al sindaco Novelli di aver portato il testimone d’accusa in Procura anziché “risolvere politicamente la questione” (tipo insabbiarla). Nell’84-85 ispirò i vergognosi decreti Berlusconi – le prime leggi ad personam di una lunga serie – donati da Craxi all’amico Silvio quando tre pretori sequestrarono le antenne Fininvest fuorilegge. Infatti nel ’94 il Cavaliere riconoscente lo issò all’Antitrust, dove Amato non si accorse mai del monumentale trust berlusconiano sul mercato della tv e della pubblicità (in compenso sbaragliò impavido un temibile trust nel ramo fiammiferi e accendini). Non riportiamo qui, per carità di patria, i fax di Bettino da Hammamet sul “professionista a contratto” che in tante campagne elettorali non s’era mai accorto delle tangenti al Psi. Molto più interessante è la sua intervista del 2009 a Report. Bernardo Iovene gli ricorda che il decreto Craxi-Berlusconi del-l’85 era “provvisorio” e doveva durare solo 6 mesi, in attesa della legge di sistema sulle tv; ma lui s’inventò che era solo “transitorio”, quindi non andava neppure rinnovato una volta scaduto. Anziché arrossire e nascondersi sotto il tavolo, Amato s’illumina d’incenso: “Sa, noi giuristi viviamo di queste finezze: la distinzione fra transitorio e provvisorio è quasi da orgasmo per un giurista… Quando discuto attorno a un tavolo tecnico e qualcuno dice ‘questa cosa è vietata’, io faccio aggiungere ‘tendenzialmente’…”. Ora che dovrà esaminare la legittimità delle leggi firmate dall’amico Giorgio, sarà tutto un orgasmo. Provvisorio e tendenziale.

Commistioni

Sottotitolo: quando poche settimane fa è morta Margaret Thatcher nessun comitato sportivo ufficiale inglese  ha stabilito che si dovesse osservare il minuto di silenzio, è stato chiesto ai diretti interessati, ovvero ai tifosi, se fossero o meno d’accordo, alla loro risposta negativa il rifiuto è stato rispettato e non c’è stata nessuna commemorazione sui campi di calcio. 

Dunque hanno fatto benissimo all’Olimpico a fischiare il minuto di silenzio per Andreotti, visto che nessuno ha chiesto ai tifosi se fossero o meno d’accordo nell’osservarlo.
Inutile l’ipocrisia degli speakers che hanno parlato del momento di crisi della gente verso la politica. Quei fischi erano proprio e solo per il fu divo.

Se un ex procuratore antimafia promosso alla presidenza del senato va al funerale di un prescritto per mafia, in quale versione ci va: da ex procuratore antimafia, da presidente del senato, da conoscente dispiaciuto, da ipocrita così come c’è andata la maggior parte della gente che era presente ai funerali “in forma privata” di Andreotti o che altro?


E magari fra quindici giorni Grasso andrà anche a Palermo a fare il discorsetto di ordinanza a Capaci?
Ci sono cose che si devono fare e quelle che perfino un’istituzione può evitare di fare se vuole, se pensa che non siano opportune, la politica è fatta soprattutto di gesti simbolici, e malgrado l’avvocatessa Bongiorno ancora ieri parlava di un Andreotti “assoltissimo” così non è. 
E il presidente del senato, se ci teneva così tanto a non far mancare la sua presenza poteva benissimo limitarsi a mandare un telegramma di condoglianze suo personale, visto che non tutta l’Italia che adesso anche Grasso rappresenta è obbligata a commemorare Andreotti e a dispiacersi per la sua dipartita, invece di sedere in prima fila ai funerali del prescritto per mafia.

Andreotti non andò al funerale di mio padre. Preferiva i battesimi di Nando Dalla Chiesa – Il Fatto Quotidiano

Andreotti, Ambrosoli non commemora

Se l’è andata a cercare
Massimo Gramellini, La Stampa

Mentre il consiglio regionale della Lombardia rendeva omaggio al fantasma di Andreotti, il capo dell’opposizione Umberto Ambrosoli è uscito dall’aula. Suo padre, l’avvocato Giorgio, fu ammazzato sotto casa in una notte di luglio per ordine del banchiere andreottiano Sindona: aveva scoperto che costui era un riciclatore di denaro mafioso. Trent’anni dopo Andreotti commentò l’assassinio di Ambrosoli con queste parole: «Se l’è andata a cercare». 

Il perdono è una cosa seria. E’ fatto della stessa sostanza del dolore e si nutre di accettazione e di memoria, non di ipocrisie e rimozioni forzate. La morte livella, ma non cancella. Con buona pace del quotidiano dei vescovi che ieri titolava: «Ora Andreotti è solo luce». Per usare una parola alla moda, Andreotti era divisivo. Lo era da vivo e lo rimane da morto. Purtroppo anche Ambrosoli. Perché esistono due Italie, da sempre. E non è che una sia «buona» e l’altra «cattiva», una di destra e l’altra di sinistra (Giorgio Ambrosoli era un liberale monarchico). Semplicemente c’è un’Italia cinica e accomodante – più che immorale, amorale – che non vuole cambiare il mondo ma usarlo. E un’altra Italia giusta e severa – più che moralista, morale – che cerca di non lasciarsi cambiare e usare dal mondo. Due Italie destinate a non comprendersi mai. Un’esponente lombarda del partito di Berlusconi ha detto che il figlio di Ambrosoli ha mancato di rispetto al morto. Non ricorda, o forse non sa, che anche Andreotti aveva mancato di rispetto a un morto. Quell’uscita dall’aula se l’è andata a cercare.

QUANDO IL DIVO DISSE: “SE L’ANDAVA CERCANDO”

Il dottor Ambrosoli  ha fatto benissimo.  

Le cattive abitudini si correggono solo con azioni educative, con gesti esemplari, e quella di Ambrosoli lo è stata, così come è illuminante l’articolo di Nando Dalla Chiesa.

Oggi non sa solo chi non vuole sapere e nessuno è obbligato a dovere del rispetto ad una persona morta, se quel rispetto non ha saputo conquistarselo da viva.

Uno dei miei punti di riferimento  è una  donna nera che una sera, tornando dal lavoro, rifiutò di cedere il suo posto sull’autobus che a quei tempi era  riservato solo ai bianchi.

Con quel semplicissimo NO diede il via ad una rivoluzione  senza precedenti: il segno che bastano anche i piccoli gesti simbolici a cambiare le cose. 

Qui ci vorrebbero meno politici e più Rose Parks.

 E se sparissero finalmente tutti gl’ ipocriti, corrotti, conniventi con tutte le mafie, opportunisti, invece di essere infilati nelle commissioni preposte al controllo degli apparati dello stato sarebbe una grande conquista di civiltà per l’Italia.

“Ha una vaga idea la signora della storia di quegli anni? ci sono anche dei libri, s’informi, e si vergogni”.

Bravo Cacciari, quanno ce vo’ ce vo’.


Le lingue di Menelik
Marco Travaglio, 8 maggio

Nel 1889 l’ambasciatore italiano ad Addis Abeba siglò un trattato di amicizia con il negus Menelik, imperatore d’Etiopia, dopo la conquista dell’Eritrea. La firma avvenne nell’accampamento del Negus, a Uccialli. Ma ben presto i due paesi tornarono a litigare, perché il trattato diceva una cosa nella versione in lingua italiana e un’altra in quella in lingua amarica. Nella prima, l’Etiopia diventava un protettorato italiano e il Negus affidava la politica estera etiope al nostro governo. Nella seconda, il Negus poteva delegare la politica estera all’Italia quando voleva, e quando non gli conveniva poteva fare di testa sua. Una furbata all’italiana per consentire a entrambi i governi di presentarsi come vincitori agli occhi dei rispettivi popoli. Naturalmente la magliarata durò pochi mesi: poi Menelik, senz’avvertire Roma, strinse rapporti diplomatici con la Russia e la Francia. E riesplose la guerra. La storia ricorda quel che sta accadendo nel Pd: da quando, non bastandogli il suicidio sulla via del Colle, ha deciso di suicidarsi una seconda volta (impresa che può riuscire solo al Pd) sulla strada di Palazzo Chigi, non passa giorno senza che un dirigente del Pdl lo richiami ai “patti”: sui ministri, sui sottosegretari, sull’Imu, sulla giustizia, sui presidenti di commissione. E pare che quei patti ci siano, senza errori di traduzione. Nulla di strano: quando due partiti decidono di governare insieme, è normale che prendano accordi. Gli elettori del Pdl lo sanno e, se va bene a B., buona camicia a tutti. Viceversa gli elettori del Pd non devono saperlo: questa almeno è l’illusione dei dirigenti che da vent’anni li raggirano, estorcendogli i voti in nome dell’antiberlusconismo e poi usandoli per inciuciare con Berlusconi. Ora però, nel raggiro, c’è un salto di qualità. Due mesi fa la parola d’ordine era “mai con B.”. Un mese fa era “con B. solo per il Quirinale”. Due settimane fa era “con B. solo per un governo di scopo di pochi mesi: legge elettorale e si torna a votare”. Ora è “con B. per un governo di legislatura e la riforma della Costituzione”. Nel timore che domani si passi a “con B. per un partito unico guidato da B.”, la base si sta ribellando in tutt’Italia. Il che spiega perché il Pd resta senza segretario: così i dissidenti non sanno a chi tirare i pesci in faccia.
Ma quali siano i patti stipulati da Letta e B. nel famoso incontro clandestino con lo zio Gianni, l’hanno capito tutti. Il governo Letta — come l’Italia descritta da Corrado Guzzanti nei panni di Rutelli con la voce di Sordi — “non è né di destra né di sinistra: è di Berlusconi”. Lui l’ha voluto, lui ha scelto il Premier Nipote e i ministri che contano, lui decide il programma (anche perché il Pd ne ha diversi, cioè nessuno), lui detta i tempi, lui staccherà la spina quando gli farà comodo. Intanto le questioni che gli stanno a cuore, cioè la giustizia, la tv, le autorizzazioni a procedere e le ineleggibilità sono cosa sua. Dunque il sottosegretario alle Comunicazioni è Catricalà e il presidente della relativa commissione è Matteoli. Il presidente della giunta delle immunità è La Russa. Il presidente della commissione Giustizia sarà Nitto Palma o, se non passa, Ghedini. Il presidente della giunta delle elezioni sarà un leghista. Il tutto, beninteso, coi voti determinanti del Pd. Ora B. vorrebbe anche la Convenzione (“come da accordi”, dice lui), che comunque spetta di diritto al Pdl, visto che il centrosinistra col 29% dei voti ha occupato le prime quattro cariche dello Stato. Ma il Pd si oppone, come se tra B. e qualche suo servo ci fosse qualche differenza. Ragazzi, giù le maschere e via le lingue di Menelik: l’han capito tutti che vi siete messi d’accordo con B. Dategli pure ‘sta Convenzione e non se ne parli più. Dopo la faccia, evitate almeno di perdere tempo.

Ps. Complimenti all’ex procuratore nazionale antimafia Piero Grasso. L’altroieri era ai funerali di Agnese Borsellino, ieri a quelli di Giulio Andreotti.

Il dito, la luna e Battiato

Preambolo: definizione di troiaio: “porcile, luogo molto sudicio, luogo dove si trovano molte prostitute o, più genericamente, molte persone disoneste, depravate”.

Sottotitolo: “abbiamo una legge elettorale che si chiama porcellum e poi ci scandalizziamo se Battiato dice che è un governo di troie”. [Michele Santoro]

Immenso Battiato, questo paese non si merita la sua intelligenza e genialità.
Le vere tre I che corrispondono a questo paese sono: ignoranza, ipocrisia e indecenza, altroché quelle che vaneggiava il buffone delinquente promettendo le sue solite cazzate a proposito di progressi della scienza e della tecnica.

Dice ancora il Maestro: “Se in parlamento ci sono dei fetenti, il parlamento è una fetenzia. E’ così sbagliato dire che questo è un troiaio?”

Secondo me no. Anzi, qualcuno avrebbe dovuto dirlo prima e, tanto per restare in tema di troiai, il  20% dei grandi elettori che sceglieranno il nuovo capo dello stato [nuovo si fa per dire] sono imputati e indagati.

Chi ha criticato Battiato sono più o meno le stesse persone che lo hanno fatto con Strada circa la sua frase su brunetta: gente che ormai non può più guardare la luna al posto del dito perché è la luna stessa a schifarsi di tanta ipocrisia e si gira da un’altra parte.

Dice ancora Battiato: “ognuno è artefice del suo destino, chi ha scelto di fare il cretino, l’assassino, il delinquente lo fa di sua spontanea volontà”. 

E questo è quello che ho sempre pensato anch’io che non arriverò mai alla genialità intellettuale di Battiato ma insomma, qualcosa penso di saperla, capirla e averla imparata.
Perché tutti gli esseri umani, fatta eccezione per chi non ne ha facoltà a causa di malattie o impedimenti fisici possono fare di se stessi quello che vogliono nel bene, se invece preferiscono farlo nel male è una loro responsabilità, non di chi glielo dice e che una tristissima parte di gente ipocrita anziché appezzarne l’onestà, la sincerità considera questi giudizi volgari, inopportuni, come se essere ignoranti, cretini, assassini e delinquenti per scelta fosse il massimo dell’opportunismo; quindi le persone che hanno scelto di essere altro, e altre, quelle che si rifiutano di accettare con indifferenza che siano i cretini e i delinquenti, gl’incapaci a dettare legge, a decidere i destini di un paese escludendo invece chi sarebbe in grado e all’altezza di dare un contributo utile [tipo proprio Franco Battiato], non è giusto che vengano poi infilate in quel frullatore mediatico, disonestamente intellettuale che vuole gl’italiani tutti uguali e tutti meritevoli di subire lo schifo alla stessa stregua di quelli che non si sono mai ribellati allo schifo ma anzi, hanno contribuito a produrlo e ad incentivarlo.
Come scrivevo ieri, io non sono uguale a chi vota e ha votato berlusconi e tutto il suo caravanserraglio di indecenti delinquenti PER SCELTA che qualcuno ha ancora l’ardire di definire onorevoli e senatori della repubblica italiana.
E come me per fortuna c’è anche un sacco di altra gente, quindi i “siamo tutti”, o gli “abbiamo quello che ci meritiamo” e altre cazzate del genere che non fanno il mezzo gaudio di un male comune ma offendono chi non è stat* causa di quel male le respingo, le respingerò sempre molto volentieri, e con fastidio, a tutti i mittenti, chiunque essi siano.

Un po’ di pudore
Marco Travaglio, 12 aprile 

“Dicono che, come al Conclave, anche al Toto Quirinale chi entra papa esce cardinale.”

Nell’editoriale di Marco Travaglio i papabili prossimi Presidenti della Repubblica.

È vero che nei Conclavi soffia lo Spirito Santo, mentre di solito la battaglia per il Quirinale è scossa da ben altre ventilazioni, per non dire flatulenze. Ma la classe politica, quando c’era, ha sempre cercato di cogliere lo spirito del tempo nella scelta di chi per sette anni deve rappresentare la Nazione. Nel 1946, dopo la guerra civile armata tra fascisti e antifascisti e poi referendaria tra monarchici e repubblicani, si optò per una nobile e antica figura di giurista meridionale e monarchico: De Nicola. Due anni dopo, per l’avvio della ricostruzione, fu scelto Einaudi, purissimo intellettuale liberale. Poi toccò a un alfiere dell’apertura al centrosinistra Dc-Psi: Gronchi. E, dopo gli eccessi di quest’ultimo, si passò a un conservatore illuminato, autore della riforma agraria: Segni. Poi fu la volta di un socialista riformista, Saragat. A cui seguì, in una società in tumulto fra contestazione e strategie della tensione, un autorevole giurista fuori dai giochi: Leone. Dopo di lui, nell’Italia dei primi scandali e del terrorismo, i partiti riuscirono a elevarsi sopra se stessi confluendo sul partigiano Pertini, che restituì dignità e popolarità alle istituzioni screditate e attaccate. Cossiga rispondeva grosso modo alla stessa logica, ancora in pieno terrorismo, con le stimmate della dolente sconfitta sul caso Moro e una fama di onesto notaio: il presidente più giovane dell’Italia repubblicana, eletto al primo scrutinio. Scalfaro nel ’92 passò a sorpresa grazie a una felice intuizione di Pannella, nel Paese squassato da Tangentopoli e dalle prime stragi di mafia. Ciampi, nel ’99, fu l’unico frutto sano della stagione malata dell’inciucio bicamerale. E Napolitano fu il tributo storico a un partito, il postcomunista, che non era mai andato al governo con un suo uomo dopo aver vinto le elezioni. Quale spirito del tempo inseguono, oggi, i partiti che si accingono a scegliere il dodicesimo Presidente, quando ormai la politica e le istituzioni sono meno autorevoli di un postribolo? Non si pongono proprio il problema. La selezione delle candidature non parte da un identikit che incarni un progetto, una visione, una speranza. Ma dal piccolissimo cabotaggio degl’interessi di bottega dei due sconfitti alle urne, Ber&Ber, con i loro 10 milioni di voti persi. L’uno ha bisogno di un Presidente che lo salvi dall’irrilevanza, dai processi e da un’ineleggibilità mai sancita, anche se prevista dalla legge che ne fa un parlamentare abusivo da vent’anni. L’altro ha bisogno di un Presidente che gli dia l’incarico pieno per un governo senza numeri né storia e blocchi per qualche altro mese la naturale sepoltura di una classe dirigente, quella del centrosinistra, che in vent’anni ha prodotto solo disfatte e fallimenti. Non occorrono un De Gasperi, un Fanfani, un Moro, un Nenni, un Berlinguer per capire che all’Italia di oggi serve un Presidente fuori dai partiti, un uomo di diritto e di cultura capace di ridare dignità e onore allo Stato, alle Istituzioni, alla Politica, in sintonia con la voglia di cambiamento che sale da molti cittadini. Invece si leggono “rose” di nomi deprimenti, come la sepolcrale cinquina che vedete effigiata qui accanto: Amato, uno che avrebbe dovuto scomparire già nel ’92 col suo amico Bettino, e anche in seguito non gli son mancate le occasioni; Violante, che vent’anni fa passava per il capo del partito dei giudici e oggi raccoglie i meritati elogi del piduista Cicchitto; Marini, un signore di 80 anni che da tempo sfuggiva ai radar e i più credevano sistemato a Villa Arzilla; la Severino, ministra di larghe intese e avvocato di larghe imprese, riuscita nel raro intento di abbassare le pene per la concussione in una legge denominata “anticorruzione”; e infine Grasso, un violantino in sedicesimo che, appena arrivato, già promette bene. Signori dell’inciucio, un po’ di pietà. E, se non è troppo pretendere, di pudore.