Charlie Hebdo, un anno dopo

Uno stato democratico ha il dovere di affermare i principi della laicità che garantiscono tutti senza preoccuparsi  degli orientamenti religiosi, ha il dovere di non considerare i dogmi religiosi  elevandoli ad esempio per le regole della società civile, ha il dovere di non permettere che la religione invada ambiti dai quali deve stare fuori, ad esempio la politica.  Lo stato democratico non deve condizionare l’espressione dei pensieri, anche fossero i più irriverenti finché non diventano un reato.

Non c’è fanatismo nel pensiero e nell’azione laici mentre nella religione continua ad esserci, non solo in quella fondamentalista che ha ucciso la libertà di poter ridere anche di chi  crede che un Dio che nessuno ha mai visto né sentito parlare abbia davvero il potere che gli è stato conferito da uomini e donne in carne ed ossa. Al punto in cui siamo oggi a salvare il mondo non saranno la bellezza né l’amore ma la laicità, ovvero la libertà di ognuno di poter essere quel che è, il diritto di ognuno di decidere della sua vita,  non essere parte di un insieme di cui non vuole far parte senza che qualcuno che ha scelto di essere altro si debba offendere per questo.

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Charbonnier

Ancora nessun attentato in Francia. Aspettate, abbiamo fino alla fine di gennaio per farvi gli auguri”.  “Charb”

L’EDITORIALE DI MARCO TRAVAGLIO – “J’ETAIS CHARLIE”, PERCHE’ TUTTO E’ TORNATO COME PRIMA

Charlie Hebdo, un anno dopo la strage  
‘Rassegnatevi, noi atei non siamo morti’

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Se ancora oggi bisogna mordersi la lingua per non essere “inopportuni” verso le religioni, per non turbare le sensibilità dei credenti, se in un paese civilizzato come il nostro la bestemmia che passa su un nastro in sovraimpressione durante uno show costa il posto di lavoro al responsabile della messa in onda, se, sempre in quel paese le notizie dal vaticano sovrastano per eco, enfasi, quantità e importanza quelle che riguardano tutti, non solo i cattolici, una fetta di popolazione sempre più risicata che non dovrebbe rappresentare tutto il paese né avere più diritti degli atei, dei tifosi di una squadra di calcio o degli amanti della letteratura, del cinema, di un’arte qualsiasi.
Se, sempre qui, vengono prese per cose serie idiozie dette in relazione alle allegorie natalizie quando se ne parla come di tradizioni da imporre perfino nella scuola di tutti: il presepio alla stregua della pietanza tipica, cose che vengono dette da ipocriti che non hanno niente di cristiano di cui potersi vantare visto che molti – vaticano compreso – sono fra quelli che non trovano orripilanti gli accordi dell’occidente con l’Arabia delle decapitazioni di massa, dell’annullamento dei diritti umani.
Se ancora oggi bisogna spiegare la funzione della satira che in quanto tale non si pone dei limiti né è tenuta a farlo direi che non è servita a niente la lezione di Charlie Hebdo, della strage per ammutolire la libertà della satira di poter irridere non Dio ma l’idea tutta terrena che ha chi lo usa per comandare, dividere, guerreggiare, violentare i diritti umani offendendo fino all’annientamento e all’eliminazione fisica di chi non ha bisogno di Dio per tirare a campare.  Chi perseguita, obbliga, impone, vieta, censura, nega le libertà personali e uccide in nome di un dio è un malato mentale oltreché un criminale socialmente pericoloso, quindi nessuna comprensione, giustificazione né tanto meno l’abbassamento dei toni con gente così, quale che sia il suo dio di riferimento.

 

Aspettando il “severo provvedimento” di alfano. Che non arriverà

Il 25 aprile andrebbe sospeso fino a data da destinarsi, ripristinato solo quando si riuscirà a ricostruire una democrazia degna di quella Resistenza antifascista che molti ipocritamente commemorano ma poi non le riconoscono nessun valore. 

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Dell’uso sconsiderato del web e della leggenda della zona franca dove tutto è permesso io ne scrivo da molto prima di facebook.  Sono in Rete ormai da una ventina d’anni praticamente tutti i giorni e il modus, l’atteggiamento, il modo di porsi della maggioranza dei suoi frequentatori se possibile è perfino peggiorato dal suo esordio quando almeno ci si poteva giustificare con la curiosità del nuovo strumento di comunicazione.

In Rete non bisogna farsi “belli” raccontando balle ma nemmeno mostrare la parte peggiore di sé, quella che ci si vergognerebbe di esibire nel proprio quotidiano o costruita appositamente a beneficio della propria identità virtuale. 
Non si capisce, invece,  perché questo accada puntualmente, tutti i giorni e ovunque, non solo su facebook  dove almeno la maggior parte dell’utenza ci mette faccia e nome perché obbligata da un regolamento che altrove non c’è ma ovunque dove  in troppi approfittano [ancora!] dell’anonimato per scrivere quello che vogliono. 
Basterebbe considerare il web non un mondo a parte ma una parte del proprio mondo, esattamente come i contesti familiari, amicali, lavorativi, comportarsi nello stesso modo.
Ma evidentemente le frustrazioni, il bisogno di trovarsi il nemico da abbattere quotidianamente a parole perché probabilmente chi agisce così non riesce a liberarsi di quelli reali coi gesti concreti hanno il sopravvento anche sul semplice buon senso che dovrebbe appartenere a persone adulte non solo per data di nascita.

Un idiota è un idiota sempre e ovunque, un deficiente, un deficiente anche se pensa di essere simpatico, un violento fascista resta un violento fascista anche sotto mentite spoglie e in quel caso fa bene a nascondersi.

Non è il posto che fa la gente ma il contrario.  Basterebbe ricordarsi di essere persone serie sempre, ovunque e dimostrarlo. La Rete non è il salotto privato di nessuno, è una casa comune e il rispetto deve diventare obbligatorio e necessario come nella vita di tutti i giorni.  La provocazione tout court, le volgarità anche violente espresse contro le persone alla fine diventano noiose e non dovrebbero piacere a nessuno di quelli che si reputano intelligenti e ben disposti al dialogo e al confronto.  I diritti vanno conquistati, quando dietro l’alibi del diritto alla libera espressione si nascondono altre intenzioni, quando ci si fa scudo del diritto di parola per usare la violenza nel linguaggio, quando si esercita la violenza su chi non può difendersi,  quando  si zittisce l’opinione sana  lasciando spazio all’insulto, agli oltraggi, alle apologie fasciste e razziste con la censura come si fa  nei siti dei quotidiani che si dichiarano liberi  ma poi anche loro agiscono per interesse lasciando spazio alla rissa verbale perché “fa clic” quello non è più un diritto: è un abuso.

Se lo stato per primo premia i metodi fascisti utilizzati dalle forze dell’ordine, non punisce i mandanti ma anzi li premia con promozioni e carriere favolose, agli esecutori dà un’amichevole pacca sulla spalla, non gli toglie nemmeno la divisa, permette senza fare un plissè che un sindacato di polizia dopo aver minacciato e diffamato le famiglie di Federico Aldrovandi e di Stefano Cucchi faccia anche l’applauso a quattro assassini, se la politica stessa che nella figura di giovanardi e la santanchè è sempre lì  a dire che le forze dell’ordine svolgono correttamente e onestamente il loro mestiere “nel rispetto dei diritti umani e civili”  come si può pretendere il semplice rispetto delle persone che passa anche per la parola?

Presidente Boldrini,  forse c’è qualcosa di più urgente da fare prima di pensare di tradurre al femminile gli aggettivi che descrivono mestieri e professioni, ci sarebbe da cacciare i fascisti dalle istituzioni e dalla subcultura malata e criminale di questo paese. Questo dovrebbero fare la politica e le istituzioni serie  del paese antifascista.

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Diaz, le ‘mille volte’ di Tortosa: io non mi stupisco – Silvia D’Onghia – Il Fatto Quotidiano

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L’insostenibile leggerezza dei social network – Guido Scorza – Il Fatto Quotidiano

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Cos’è, niente “je suis Tortosa” stavolta?

Eppure, se vale il principio col quale molti hanno avvelenato la Rete dopo la strage fondamentalista di Charlie Hebdo scrivendo che “tutti hanno il diritto di esprimere la loro opinione, anche fosse la più spregevole” dovrebbe valere anche per Tortosa, orgoglioso di indossare la divisa e di difendere a mazzate i “nemici” della democrazia, impersonati da chi dormiva per terra una sera di luglio a Genova.
Così come lo stesso principio deve valere per la Saluzzi che deve sentirsi libera di dare dell’imbecille al campione di Formula uno, deve, dovrebbe valere per gasparri che sempre secondo quel principio ha eccome licenza di poter scrivere pubblicamente ad una ragazzina che siccome è grassa dovrebbe mettersi a dieta e di ipotizzare, interrogando i suoi fan, che le ragazze tornate dalla Siria sono due poco serie che la davano a tutti come fa anche salvini quando scrive le sue scemenze razziste sotto forma di domanda.
Così come io che non mi sono mai sentita né definita nient’altro che me sono libera di scrivere che se De Gennaro, il capo della polizia di allora non fosse stato premiato dallo stato probabilmente i suoi uomini in divisa avrebbero perso un po’ di quella sicumera che li autorizza a tutelare l’ordine con le botte, che in un paese dove i responsabili e i mandanti dei pestaggi e degli omicidi di stato pagano davvero non avremmo assistito all’osceno spettacolo dei rappresentanti di un sindacato di polizia che fanno la standing ovation a quattro assassini mai spogliati della divisa e che il segretario del sindacato non si permetterebbe di dire che una legge civile è frutto del furore ideologico. E il presidente del consiglio non si sarebbe mai permesso di ribadire la sua fiducia a De Gennaro mantenendolo al posto che gli è stato regalato in virtù della sua bravura e competenza.

Benché spregevoli quelle di gasparri e salvini sono opinioni proprio come quella di Tortosa che “rientrerebbe mille e mille volte in quella scuola” nonostante una sentenza della Cassazione che tre anni fa stabilì che i fatti accaduti alla Diaz hanno gettato discredito sull’Italia agli occhi del mondo intero, un’altra più importante di qualche giorno fa della Corte dei diritti umani europea che ha messo nero su bianco quello che sapevamo tutti ovvero che lo stato a Genova per mezzo del suo braccio armato fascista non si limitò a far rispettare l’ordine pubblico e tutelare la sicurezza dei cittadini ma esercitò violenze, tortura, ebbe comportamenti criminali e in quella occasione come tante, troppe altre fu lo stato il nemico della democrazia, non la gente che dormiva per terra in una scuola e che era andata a dire che non le piaceva questo paese, il mondo così com’era, come è ancora visto che da allora sono perfino peggiorati entrambi.

Dai che prima o poi ci arriviamo tutti alla semplice considerazione che no, non esiste quel diritto di poter dire quello che si pensa sempre, soprattutto se chi pensa di poter esercitare quel diritto è gente che per ruolo e mestiere rappresenta lo stato, quello democratico e dovrebbe dare l’esempio, non mettersi sotto il livello di ciò che dovrebbe contrastare.
Prima o poi capiremo tutti quanti che libertà e diritti non hanno niente a che fare con l’espressione della violenza, fosse anche solo scritta e detta a voce.

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Quando la mela è “sana” come minimo è omertosa, c’è una puntata di Presa diretta sui morti di stato che andrebbe trasmessa nella scuole già dalle medie inferiori.
Perché in questo paese la polizia che picchia è stata sempre autorizzata dai governi di tutti i colori, quando a Napoli durante il vertice Osce ci fu il preludio di quello che sarebbe accaduto quattro mesi dopo a Genova, quando i manifestanti furono portati nella caserma Raniero per essere pestati lontano da occhi indiscreti a palazzo Chigi c’era D’Alema: l’indignato de’ sinistra.
Quindi è inutile nascondersi dietro i propri paraventi dicendo che certe cose possono succedere solo coi governi di destra, ci sono metodi condivisi da tutta la politica che ha sempre autorizzato l’uso violento della forza anche quando non c’è nessun pericolo per la sicurezza nazionale come fu proprio a Genova dove la polizia si comportò come il peggiore dei vigliacchi e infami che colpisce alle spalle.
Ora la politica – nemmeno tutta – arriccia il naso perché dopo i processi farsa, le finte condanne e le promozioni vere, la sentenza della Cassazione che ha raccontato di una polizia che ha svergognato l’Italia agli occhi del mondo è arrivata l’ultima davanti alla quale non ci si può più nascondere, ma l’Italia delle istituzioni non si è indignata nello stesso modo quando a subire la tortura di stato sono stati cittadini singoli, fermati o trattenuti come Stefano Cucchi, Riccardo Magherini morti di botte e di sistemi coercitivi fuori dalle regole e da qualsiasi diritto, pestati a sangue perché si sentivano male come Federico Aldrovandi e come tutti coloro che nelle questure di tutta Italia da Bolzano a Palermo ricevono il benvenuto dai funzionari di stato in divisa a forza di botte, e quelli che non picchiano ma tacciono e non denunciano i colleghi criminali sono colpevoli esattamente come loro se non peggio.

 

Di bambini “sintetici”, di libertà di espressione and so on

Sottotitolo: “bambini sintetici, semi scelti da un catalogo”, chissà dov’è l’opinione in questa schifezza che rimanda all’eugenetica nazista degli esperimenti di Mengele.

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La mia generazione è quella dei figli di madri che rimanevano incinte la prima notte di nozze: posso immaginare il grado di responsabilità col quale al tempo si decideva di diventare genitori, di mettere al mondo persone nuove. Oggi che per fortuna una relazione di coppia si vive senza l’angoscia della maternità quale trofeo da mostrare ad amici e parenti, che quasi tutti hanno preso atto che i rapporti sessuali non sono finalizzati solo alla procreazione che è solo uno dei vari motivi per cui si fa sesso bisognava trovare un’altra scusa per favorire lo scontro su quella che è e dovrebbe restare una scelta personale. 

Gli uteri in affitto non li ha inventati Elton John, da che esiste il mondo ci sono sempre  state donne che hanno partorito figli per poi darli in adozione, dentro ma soprattutto fuori dalla legalità; madri che hanno prestato i loro organi riproduttivi a figlie sterili: un gesto d’amore più grande, di altruismo disinteressato è difficile anche da immaginare.

Se la natura [Dio] ha previsto che non si possano avere figli col metodo tradizionale, se un figlio non è un diritto quando si desidera e se dipendesse dagli oltranzisti del no a tutto quello che non piace a loro non sarebbe un diritto della donna nemmeno poter decidere di interrompere una gravidanza: chi si oppone alle tecniche scientifiche di riproduzione sono gli stessi che dicono no anche all’aborto sempre per la solita questione dell’etica personale, allora non deve essere un diritto nemmeno farsi curare le malattie, visto che la natura [Dio] ha previsto anche quelle. 

Però la scienza ci piace quando fa progressi per i nostri interessi personali, quando ci viene incontro per farci stare meglio, bene; quando trova nuovi strumenti e metodi di cure, cento anni fa si moriva di broncopolmonite, oggi si può guarire perfino dal cancro.

  Quando si concepiscono dei figli col metodo naturale si tiene forse conto della loro volontà di persone, adulti futuri? Noi mettiamo al mondo dei figli perché lo decidiamo ispirati dai nostri desideri, non quelli di chi verrà, quali diritti ha a disposizione una “non persona” che potrebbe anche maledire tutti i giorni della sua vita il giorno che è stata concepita?
I figli voluti sono solo il frutto degli egoismi degli adulti, dei desideri di proiezione nel futuro di persone perfettamente in grado di scegliere se averli o non averli, e lo sono sempre, non solo quando per averli si usufruisce della scienza.
Il bambino che nasce non sa in che modo è stato concepito, quando vengono al mondo lo fanno nello stesso modo sia i figli concepiti con l’atto sessuale che con la tecnica della fecondazione, il problema è a monte, ovvero se quei figli sono entrambi voluti e desiderati per amore. Cosa molto più probabile che accada al figlio cercato anche per mezzo della scienza anziché a quello che “può capitare” magari perché ha fallito l’anticoncezionale.
Un bambino non ha mai la possibilità di scegliere dove nascere e chi saranno i suoi genitori. Due adulti però hanno la possibilità di cercare di avere dei figli solo se li vogliono davvero.

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buonanno, ha potuto dire, da parlamentare tutelato più del normale cittadino anche se dice cazzate che i Rom sono la feccia dell’umanità: “ha avuto il coraggio” di dire quello che la maggior parte degli italiani pensa. 

La metà di D&G “ha avuto coraggio” perché ha espresso, da omosessuale miliardario e privilegiato, il sentire di una gran parte degli italiani contrari ad un’idea di felicità personale e che ritengono un’onta imperdonabile la scelta di avere dei figli fatta da persone, non solo omosessuali, impossibilitate ad averne col metodo naturale.
Si può quindi tranquillamente dire che c’è una gran parte di italiani che ha un concetto semplicemente aberrante del coraggio che, storicamente, non è mai servito a promuovere discriminazioni e razzismi: chi ha dimostrato nei fatti di averlo e l’ha messo a disposizione del bene comune ha sempre combattuto per sconfiggerli.

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Forza nuova manda due tessere ai filosofi della mutanda in evidenza per complimentarsi del coraggio avuto nel sostenere la famiglia tradizionale.E questo chiude qualsiasi discorso sul fascismo/totalitarismo del pensiero,  accusa mossa a chi come me non pensa che tutto ciò che si pensa possa e debba essere candeggiato dietro il diritto alla libera espressione, alla libertà di discriminare e offendere persone che fanno delle scelte che non danneggiano nessuno e che non tolgono a nessuno la possibilità di comportarsi come vogliono. Perché quando un pensiero è approvato e premiato da forza nuova non dovrebbe essere condiviso da nessuno di quelli che hanno a cuore la vera libertà, non solo quella del pensiero, che non dovrebbero avere niente in comune con le ideologie di forza nuova.

Il pensiero discriminante, omofobo, razzista non fa parte di nessuna libertà di opinione/espressione/pensiero ma, soprattutto poterlo esprimere non rientra affatto in quel diritto inalienabile, intoccabile col quale va protetta la vera libertà di espressione: quella che non discrimina e non offende chi fa semplicemente delle scelte diverse da quelle di altri. Maggiore è il pubblico a cui ci si rivolge e maggiore è la responsabilità di misurare quello che si dice in previsione dell’impatto che avrà in chi ascolta e legge. Questo nascondere ogni sconcezza, istigazione, apologia dietro la libertà di opinione è sintomatico della consapevolezza che hanno tutti quelli che sanno perfettamente che non tutto è opinione, pensiero libero da accogliere con rispetto.   

I morti di Charlie non ci ricordano la difesa della libertà totale di parola ma la difesa del diritto di poter smontare, semplicemente ridicolizzandole, teorie basate sulla suggestione e la seduzione che poi diventano un intralcio e un pericolo al vivere civile.

I liberi pensatori non hanno mai difeso la libertà di oltraggio e ingiuria, Giordano Bruno non è andato a finire sul rogo per difendere la libertà di dire scemenze offensive, menzogne, falsità ma proprio per il motivo contrario: per impedire che si continuassero a dire. Il signor Barilla ha dovuto chiedere scusa e fare un’opportuna quanto salutare marcia indietro per il bene della ditta quando disse che mai avrebbe permesso a degli omosessuali di interpretare gli spot dei suoi prodotti. Taormina, l’avvocato delle cause perse è stato addirittura condannato da un tribunale per aver affermato che non avrebbe mai assunto degli omosessuali a lavorare con lui. Quindi è evidente che fra la chiacchiera dei quattro amici al bar e la dichiarazione pubblica di personaggi famosi, in grado di fare tendenza nell’opinione pubblica qualche differenza c’è. Se Dolce come Taormina avessero detto quelle cose mentre erano a cena con gli amici nessuno avrebbe montato la polemica né ci sarebbe stato l’intervento di un giudice. Il problema quindi non è tanto quello che si dice ma in quale contesto lo si dice.  Io sono contraria ad una discreta quantità di cose che però nella società vanno accettate, anche obtorto collo, perché non danneggiano nessuno, il signor Dolce avrebbe potuto semplicemente dire che lui non farebbe, non avrebbe fatto quello che invece fanno altri. E allora sì, sarebbe stata libertà di pensiero. Lui invece ha giudicato e con disprezzo, tant’è che la sua dichiarazione è stata premiata da forza nuova.

A me preoccupa molto di più la vita di bambini fatti e finiti col metodo tradizionale, non la tecnica con cui si permette a chi non può di avere dei figli. Bambini soldato, che muoiono di fame e di stenti, di malattie curabili se il mondo fosse più giusto per tutt*, bambini  sfruttati anche sessualmente, e di cosa ci dovremmo preoccupare? Di ciò che la legge, evidentemente, ha permesso di fare a Elton John e a suo marito alla luce del sole: avere dei figli, non far mancare loro nulla e potergli garantire un futuro senza problemi.  

Il sogno di tutti i genitori, praticamente.

Dolce e Gabbana e la finta famiglia naturale di Chiara Lalli, bioeticista

[…] 

Il secondo passaggio degno di nota è quello in risposta alla domanda “Avreste voluto essere padri?”. Ecco di nuovo Dolce: “Sono gay, non posso avere un figlio. Credo che non si possa avere tutto dalla vita, se non c’è vuol dire che non ci deve essere. È anche bello privarsi di qualcosa. La vita ha un suo percorso naturale, ci sono cose che non vanno modificate. E una di queste è la famiglia”.

“Se non c’è vuol dire che non ci deve essere”: immagino che valga anche per la salute o per la vista. I due stilisti portano entrambi gli occhiali: se uno non ci vede bene vuol dire che non ci deve vedere, perché questa hybris dell’indossare un paio di occhiali? E se vi rompete una gamba? O se vi viene qualche naturalissima malattia? Ognuno si priva di quello che vuole, ma sarebbe apprezzabile evitare queste fallacie grossolane. La natura, poi, andrebbe rispettata sempre, non solo quando fa comodo. Buttate gli occhiali, sputate le aspirine, e pure quel computer non va tanto bene. Per non parlare dei vestiti dorati. Tutte cose innaturali! Tornate nelle caverne, in quell’arcadia allucinata e piena di parassiti e bestie feroci. Non pretendete però di portarci lì insieme a voi. Preferiamo la chimica – o almeno preferiamo avere la possibilità di scegliere se e quando farvi ricorso – e i divani imbottiti.

Di influenze, propaganda e libertà di espressione

Sottotitolo: potenzialmente tutti possono diventare un punto di riferimento per il proprio settore, potenzialmente tutti possono crearsi uno spazio in cui sparare cazzate. [Veronica Gentili]

Preambolo: anch’io, in misura piccolissima, minima rispetto ai grandi opinion makers del web ho una piccola cerchia di persone che mi legge, mi segue e che sulle cose importanti è d’accordo con me, perché se è vero che il contraddittorio non prevede l’assenso sempre e comunque è  normale ed inevitabile che relazionarsi ogni giorno con continuità da una pagina web permette che si crei un’affinità, che le persone poi si ritrovino in quei concetti che dovrebbero essere universalmente riconosciuti come l’antifascismo, l’antirazzismo, il contrasto ad ogni forma di discriminazioni e violenze anche verbali. Ecco perché so di avere una responsabilità circa le cose che scrivo, che non posso mettermi davanti al mio computer e impiastrare questo blog e la mia pagina facebook di sciocchezze,  non posso istigare le persone che mi leggono con la persuasione malsana finalizzata a dirottare il  pensiero e incentivare reazioni violente e volgari. So che è mio dovere mettermi sempre di traverso davanti a chi nascost* dietro un nick ma anche disinvoltamente con nome e cognome usa la Rete per esprimere violenza e volgarità gratuite. Non sono mai stata d’accordo sulla teoria che in Rete è come fuori. Nella vita di tutti i giorni non ci si pone verso gli altri con la disinvoltura con cui molti lo fanno qui potendo contare sull’immunità. Prima di dire “puttanella succhiacazzi” in faccia a una ragazzina che per età potrebbe essere una figlia ci penserebbero. Non sarebbe possibile rovesciare le proprie frustrazioni sui colleghi di lavoro, in famiglia e con gli amici senza pagarne le conseguenze. E quello che manca qui è proprio la conseguenza,  l’assunzione di responsabilità, tutto diventa permesso in virtù della libera espressione del pensiero anche quando diventa oltraggio e  violenza. Una violenza da cui non sempre è possibile difendersi, non tutti abbiamo gli strumenti che può avere ad esempio il personaggio politico e quello pubblico, non per evitare di subire l’aggressione virtuale ma per obbligare all’assunzione di responsabilità quelli che pensano di avere un diritto all’offesa e all’oltraggio.

In un mondo sempre più dipendente dalla Rete è molto più facile orientare le opinioni di quanto lo sia stato quando le informazioni circolavano solo attraverso la carta stampata; l’opinionista, il giornalista oggi hanno meno potere di quanto ne abbia chi ogni giorno si esprime nei social e riesce ad acquistare una considerevole quota di consensi. 

Mille, duemila, cinquemila persone che fanno parte di liste di chi apre un account nei social e che ogni giorno si connettono a facebook, a twitter non solo per seguire quei siti che divulgano l’informazione ufficiale, quella che poi leggiamo anche nelle versioni cartacee dei quotidiani ma anche per andare a vedere cosa ha scritto quell’utente che, perché ha un sacco di gente che lo o la segue deve essere sicuramente affidabile.
Tutto questo fa sì che quell’utente diventi nel tempo un riferimento, le sue parole vengono condivise, fatte proprie, acquistano un’autorevolezza.
Molto spesso poi l’utente famoso, quello delle bacheche dei 5000 è la stessa persona che leggiamo in blog seguitissimi o in rubriche radiofoniche e televisive che trattano l’informazione riuscendo così ad ampliare il suo raggio di “influenza”.
Nella maggior parte dei casi queste persone agiscono in buona fede, ovvero fanno quello che fa qualche miliardo di persone ogni giorno in Rete: esprime i suoi punti di vista che si possono condividere o meno, confutare o prendere per buoni così come sono, ma c’è un sottobosco di “influencers” che non opera affatto in questo senso.
C’è una consistente presenza fissa nei siti online dei quotidiani e nei social, persone che scrivono sulla pagina pubblica del politico e del giornalista e che lo fanno su commissione, scendono ogni giorno nell’arena del web con lo scopo preciso di orientare le opinioni, fanno propaganda.
E questo costituisce un pericolo sì ma fino a un certo punto, chi conosce un po’ le dinamiche web sa benissimo dove andare ad attingere per informarsi e quali utenze meritano considerazione e attenzione. Impara a leggere e a selezionare. Io ho un contenzioso aperto da anni con la moderazione del Fatto Quotidiano on line dove si lasciano passare commenti violenti, offensivi e si censurano quelli che provano a restituire un livello civile alla discussione. L’influencer lo fa lo stesso media che poi ricava dei guadagni. Più gente entra in un sito e più il sito guadagna. Una discussione civile in Rete non “acchiappa”, è noiosa, mentre lo scontro, il botta e risposta attirano e invogliano a partecipare.
Ma che succede quando l’influencer è il segretario di un partito politico?
Prendiamo ad esempio il caso della liberazione di Greta e Vanessa ma anche la strage di Parigi: senza l’ossessionante martellamento di salvini circa le paure per “i milioni di tagliagole pronti ad ammazzarci tutti” e “lo schifo per il pagamento del riscatto” ci sarebbe stata lo stesso l’escalation di commenti violenti e incivili verso i musulmani che non sono terroristi e le ragazze colpevoli al massimo di ingenuità?
Io dico di no, perché il pericolo non è costituito soltanto dalle parole irresponsabili di salvini che mirano a fare cassa nel suo elettorato, sono parole che poi anche a fin di bene e col solo scopo di contrastarle e dissociarsene vengono condivise, riprese, fatte circolare in ogni dove.
Ed è lì che scatta l’influenza in grado di orientare, quando certe parole vengono lette da chi non ha un’opinione precisa su un fatto e leggendo che salvini alla cazzata razzista quotidiana prende due o tremila likes, colleziona migliaia di condivisioni potrebbe avere ragione quando dice e scrive che ai confini dell’Italia sono pronte orde di terroristi che verranno ad ammazzarci tutti, quando apparentemente in buona fede chiede se la gente “ha paura” oppure quando dice, da tutte le ribalte che i media e il mainstream gli mettono ogni giorno a disposizione, scrive nella sua pagina facebook che gli fa schifo che gli italiani abbiano contribuito con una cifra irrisoria a salvare la vita di due ragazze di poco più di vent’anni.
Quindi attenzione a vantarsi di “essere Charlie” e libertari tout court pensando che sia giusto e doveroso lasciare la libertà anche al segretario di partito che diventa un troll per opportunismi suoi di poter istigare alla violenza e procurare allarmi in un paese intero.
Io, rispetto a salvini e quelli come lui non sarò mai Charlie, non per censura ma per autodifesa.

La parola vigliacca – Massimo Gramellini

Quando i messaggi in Rete divennero di uso comune, noi fanatici della scrittura vivemmo un momento di rivalsa. L’oralità trionfante cedeva sorprendentemente il passo a una comunicazione meno spudorata, che avrebbe consentito anche ai timidi e ai riflessivi di fare sentire la propria voce nella piazza dell’umanità. Mai previsione è stata più stropicciata dalla realtà. Che si parli della malattia di Emma Bonino o della liberazione delle ragazze rapite in Siria – per limitarsi agli ultimi giorni – sul web si concentra un tasso insostenibile di volgarità e di grettezza. Una grettezza cupa, oltretutto, raramente attraversata da un refolo di ironia. 

Non mi riferisco al merito dei commenti. Nell’Occidente di Charlie ciascuno è libero di esprimere le opinioni più urticanti, purché rispettose della legge. No, è la forma dei messaggi che corrompe qualsiasi contenuto. Una radiografia di budella, una macedonia di miasmi, una collezione di frasi impronunciabili persino con se stessi. Nessuna di queste oscenità pigiate sui tasti troverebbe la strada per le corde vocali. Nessuno di quelli che per iscritto augurano dolori atroci alla Bonino e rimpiangono il mancato stupro delle cooperanti liberate avrebbe la forza di ripetere le sue bestialità davanti a un microfono o anche solo a uno specchio. La solitudine anonima della tastiera produce il microclima ideale per estrarre dalle viscere un orrore che forse neppure esiste. Non in una dimensione così allucinata, almeno. Per noi innamorati della parola scritta è una sconfitta sanguinosa che mette in crisi antiche certezze. Per la prima volta guardo il tasto «invio» del mio computer come un nemico.  

 

Il coraggio di essere Raif l’ha avuto solo Raif

Abbiano almeno il coraggio di farlo in nome di “IO”, di ammettere una volta e per tutte che di libertà di parola, di espressione, di risata non si offenderebbe nessuna entità trascendentale ma che la trasformazione in offesa, oltraggio, vilipendio da punire con leggi terrene, tutt’altro che spirituali, avviene solo nei piccoli cervelli di chi ha avuto bisogno di costruire il suo edificio mistico e divino per meglio sopportare la vita di questo mondo. Quella che si vive da vivi.
Abbiano il coraggio di ammettere che la religione è il pretesto per poter dare sfogo alla bestialità violenta, la stessa di chi è disposto a uccidere per una squadra di calcio, perché il coglione gli ha fregato il posto nel parcheggio e per un amore finito.

 

Sottotitolo: con che faccia manifestano contro il terrorismo quelli che in nome della loro idea di democrazia vanno a bombardare i paesi ammazzando gente innocente, bambini?
Quelli che affamano metà del pianeta mentre spendono miliardi per le guerre?
Fanno schifo, fa schifo la loro ipocrisia, fa schifo la loro idea di controllo del mondo imposto con la violenza della guerra e la negazione dei diritti, umani e civili . In prima fila  ieri a Parigi a manifestare per la libertà e contro tutti i terrorismi, a favore di telecamere e obiettivi, gente che nei propri paesi manda in galera i giornalisti e che arma le mani al terrorismo globale.

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Doudi tiene fra le mani la foto di suo papà Raif Badawi.

Raif Badawi ha trent’anni, è in carcere dal 2012 ritenuto colpevole di aver offeso l’Islam attraverso il suo blog: “Liberali dell’Arabia Saudita”. Condannato a dieci anni, venerdì scorso dopo la preghiera alla moschea di Al-Jafali a Gedda in Arabia Saudita davanti ad un pubblico festante ha ricevuto la prima razione della pena accessoria che consiste in 1000 frustate che gli verranno date in comode rate ogni venerdì, sempre dopo la preghiera e sempre davanti alla folla plaudente per diciannove settimane. 

L’Arabia Saudita fa parte del cosiddetto Islam moderato che ha condannato il massacro di ‪Charlie Hebd‬. Amnesty International ricorda che le frustate, così come altre forme di sanzione corporale, sono vietate dal diritto internazionale.
Dov’è la comunità internazionale, quella dei pacifinti che ieri hanno manifestato per la libertà di opinione, quella del ‪#‎siamotutticharlie‬?
Perché si fa presto a stare con Charlie dopo che è morto, la vera impresa, la sfida del futuro, è stare con chi è ancora vivo e difenderla davvero, la libertà di opinione.

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Per i morti del Charlie Hebdo: aboliamo ogni tutela legale del sacro

Troppo deboli le reazioni del mondo musulmano a questo atto di guerra compiuto in nome della religione. Non può esserci civiltà democratica laddove la critica alla religione non è libera. Le comunità religiose abbiano dunque il coraggio di rinunciare per prime a ogni protezione legale riservata al “sacro”. Dio, se esiste, non ha certo bisogno di qualche legge per proteggersi.

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I dieci anni di carcere e le mille frustate a cui è stato condannato Raif Badawi, blogger e attivista saudita, l’Arabia fa parte del cosiddetto Islam moderato che ha condannato il massacro di Parigi, sono la risposta migliore a chi in questi giorni ha detto e sta ancora dicendo che la satira si deve adeguare al sentire comune, non deve essere offensiva, non deve istigare il fondamentalismo.
Perché Raif non faceva satira nel suo blog, si limitava a fare quello che noi facciamo ogni giorno qui: esprimeva le sue opinioni circa la politica e anche la religione.
Qualcosa che nel mondo civile deve essere permesso fare.
E se oggi io non difendessi anche la possibilità di irridere le religioni domani potrei non trovare chi difende la mia libertà di poter scrivere su un blog e una pagina facebook quello che penso della politica e anche delle religioni. Troppo facile “essere Charlie” – ipocritamente come tutti quelli che hanno sfilato ieri da capi di stato e di governi di paesi, compreso questo,  dove si attua la censura, si mandano in galera i giornalisti.

Porre dei limiti fino a stabilire per legge piegando la pubblica opinione ad una forma di censura preventiva circa quello che è pubblicabile e quello che no significa regalare al fondamentalismo di ogni genere la possibilità di costruire un mondo basato sull’idea di etica fondamentalista: quella dei dieci anni di galera, delle frustate al blogger arabo, dei massacri di gente innocente la cui unica colpa era quella di disegnare per ridere e far ridere.
Significa consegnare all’integralismo violento di qualsiasi matrice la libertà di scegliere, decidere in che modo la gente del mondo deve pensare, cosa può esprimere e come.
Significa dare a chiunque la possibilità di ritenere offensivo ciò che personalmente non gradisce, non condivide. Di poterlo eliminare con la censura e il gesto violento.
Oggi è la satira, domani è il libro [è già successo], dopodomani il film [è già successo], dopodomani ancora tutti quelli che si vestono di blu, chi preferisce la carne al pesce, chi l’amatriciana alla carbonara, solo perché tutto questo non è gradito al fondamentalista/integralista che pretende di avere delle forme di tutela speciali per sé pur negando ad altri di essere tutelati nel loro diritto all’espressione libera.
La stessa identica dinamica che ha ispirato le teorie naziste di hitler.
Democrazia è invece avere la possibilità di pensare quello che si vuole e di poterlo esprimere, attraverso parole, immagini, musica, lasciare che a stabilire cosa sia offensivo, oltraggioso, diffamante, calunnioso e cosa no siano le leggi e le autorità di tutte le società che regolano attraverso il diritto civile, non secondo il dogma, il comandamento religioso, quello che si può fare e quello che non si deve fare.
Il mondo civile si vieta qualcosa per legge non perché sia brutto, indecente, inguardabile, offensivo, moralmente sbagliato ma perché costituisce un pericolo e un danno per la collettività: cose che, anche fosse la più becera, non è mai stata la satira. Io non consegno la mia libertà, quella di mio figlio, all’integralismo violento di tutte le religioni, non sarò mai complice di chi in nome di un dio, qualsiasi dio vuole imporre, negare, vietare, decidere cosa si può fare e cosa no né di chi per paura, perché ha scelto di non esporsi, pensa che la censura totale e globale sia la soluzione.  

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Charlie Hebdo, il tweetstorm che svela la sfilata degli ipocriti a Parigi – Fabio Chiusi

Il Guardian ha diffuso una lista dei capi di Stato e delle autorità presenti a Parigi per la marcia per la libertà di espressione dopo il massacro di Charlie Hebdo. Al suo interno ci sono figure che non hanno alcuna legittimità a ergersi a difensori della causa, come dimostrano le loro storie personali e la cronaca politica. Su Twitter, Daniel Wickham della MiddleEast Society della LSE ne ha riassunto alcuni passaggi eclatanti in un tweetstorm che andrebbe letto da chiunque voglia separare i genuinamente addolorati per l’attentato ai diritti civili – oltre che alle persone – dai puri e semplici ipocriti che avrebbero dovuto restarsene a casa, a meditare sui propri errori invece di proporre nuove misure per regolamentare Internet in funzione antiterrorismo.

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La campana suona anche per noi – Alessandro Gilioli, L’Espresso

Alla fine, da tutta questa terribile vicenda, usciremo migliori o peggiori? Usciranno migliori o peggiori le nostre democrazie, le nostre culture, le nostre libertà?

Non ci si poteva non chiederselo ieri, vedendo due milioni di persone in piazza – una piazza bellissima – per la tolleranza, per la libertà, per la biodiversità culturale. Eppure in prima fila, eterna ambivalenza di ogni manifestazione umana, alcuni dei peggiori rappresentanti dei governi, in termini di violazione del diritto d’espressione.

Appunto: da questa terrificante esperienza e da questo sangue che si è sparso, alla fine usciremo più feroci e incattiviti o più libertari e tolleranti? Avremo più o meno leggi che soffocano la libertà di espressione di comunicazione? Avremo più o meno mostre artistiche censurate, più o meno minacce di querele dal sapore intimidatorio, più o meno norme burocratiche che disincentivano la rete, più o meno autorità amministrative che ne rimuovono i contenuti, più o meno multe per chi esercita anche smisuratamente la sua libertà, più o meno pagine cancellate dal web per nascondere fatti avvenuti anni fa, più o meno ‘oltraggi al capo dello Stato’ e ‘vilipendi alla religione’ eccetera eccetera?

Anche perché, lo sappiamo, la campana suona anche per noi, noi italiani: che nella cartina siamo color giallo scuro e nella classifica al 49° posto, dopo il Niger e il Botswana, lontanissimi dalla bianca Finlandia, ecco.

 

 

#‎iosonocharlie‬. Purché la satira non disturbi i manovratori, di terra e di cielo

#iosonocharlie, purché resti a casa sua.

Sono tutti Charlie ma pochi hanno rischiato la vita e l’hanno persa per esserlo fino in fondo, senza ipocrisie, pregiudizi, senza preoccuparsi se fosse opportuno e conveniente.

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Le immagini del terrorista che spara in testa al poliziotto,  gli dà il colpo di grazia hanno fatto il giro del mondo a tutte le ore. Ugualmente quelle di ieri che lo scrupoloso Mentana ha mandato in onda fuori dall’orario di fascia protetta in cui vengono mostrate le immagini dell’irruzione delle teste di cuoio francesi nel supermercato con tanto di cadavere in primo piano. Nessuno ha chiesto di non mostrare al mondo queste immagini violente per non urtare la sensibilità dei familiari dei coinvolti nella strage di Parigi. Ad un presunto diritto di cronaca si può e si deve sacrificare tutto,  la questione si rovescia, si riempie di suggerimenti, consigli, pretese, strumenti legali come il reato di “vilipendio alla religione” che costò a vauro una condanna a tre mesi  quando si tratta di satira che deve essere in linea col sentire personale. Ma la satira non tiene conto delle miserabili regole dettate dall’ignoranza di chi rifiuta tutto quello che non riesce a capire e impone per legge che lo facciano anche gli altri. E’ libera, nuda e per questo bellissima. I parametri dell’offesa non li stabilisce il sentire comune o quello personale ma il codice penale, e se ci sono stati in cui il culto non viene considerato una specie protetta da tutelare con leggi apposite la satira agisce di conseguenza, ovvero senza considerare i turbamenti e le opportunità.

Ad esempio io non tollero la violenza nemmeno quando è finzione. Non riesco più a vedere film d’epoca sul nazifascismo, mi vengono il mal di stomaco e la nausee perché so che quegli orrori sono stati commessi davvero, quando mio marito vuole vedersi un film d’azione dove si spara e si ammazza  me ne vado altrove dalla televisione. Nello stesso modo mi piacerebbe vivere in un paese e in generale in un mondo dove quelli che “la satira deve essere opportuna per non offendere” andassero altrove da immagini che non condividono soprattutto perché non le capiscono, in perfetta armonia con la libertà di poter vedere o non vedere quello che interessa, perché se oggi il pericolo è la satira domani potrebbe essere un film, un libro. Un tempo c’è stato chi bruciava persone che si ponevano delle domande, che mettevano il dubbio nella testa di chi si accontentava di quello che gli veniva detto senza guardare oltre, senza incuriosirsi, lo faceva in nome del suo dio, poi abbiamo avuto il nazismo che sul rogo ci metteva ancora persone e anche i libri e lo faceva in virtù di una superiorità di razza. Oggi qualcuno ci vuole mettere la satira perché disturba, questa è una follia pari a quella di chi si arma per uccidere.  Chiedere che la satira si adegui al sentire comune vuol dire arrendersi all’imbecillità criminale di chi non accetta che TUTTO si possa ridicolizzare, anche dio che se esistesse lo farebbe lui per primo.

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Mostrare le immagini di corpi dilaniati dalle bombe non aggiunge e non dà nessun contributo utile a far sì che le guerre smettano di essere.

 Eppure qui in Rete ci sono state discussioni ferocissime con gente che pretende che sia nel suo diritto postare corpi e corpicini spezzettati fregandosene bellamente se questo può dare fastidio a chi preferirebbe non vederle perché solo in questo modo, dicono, si può capire l’orrore della guerra. 

Per la satira, invece, bisogna essere “opportuni”, perché, dicono, non è giusto offendere e urtare la sensibilità di chi crede nel suo dio.
Io sono fra quelle persone che non pensa affatto che la visione di corpi massacrati nelle guerre serva da deterrente, che abbia una qualche funzione “educativa”, al contrario ho sempre pensato che mettere violenza su violenza faccia abbassare sensibilmente la soglia della percezione della violenza, ci si abitua a quelle immagini e poi comunque tutti sanno che in guerra si muore, vedere come non è necessario. Non per tutti, almeno.
La satira invece una funzione educativa ce l’ha, l’ha sempre avuta, è nata per questo.
Ai tempi dello stracitato Voltaire per qualcosa poi che non si è mai sognato di affermare come il morire per dare a tutti la possibilità di esprimersi, la satira prendeva già di mira la casta di allora, l’aristocrazia sullo stile “mangino brioches”, per mezzo della satira si cercava di illuminare le menti di chi accettava la sua condizione di sottomissione al potere senza reagire.
E la religione è esattamente questo: una forma di potere che sottomette, secondo me la peggiore perché quel potere viene esercitato per mezzo della seduzione, esige una fedeltà incondizionata imposta dal volere di entità che nessuno ha mai visto, sentito parlare ma che si esprimono attraverso il pensiero di uomini in carne ed ossa, testi, parole che poi vengono letti e interpretati in base a quello che si desidera ottenere a vantaggio di quel potere.
Non dubita, il credente, e guai a chi osasse mettere in discussione l’esistenza del suo dio.
Mentre il dubbio è il nutrimento essenziale dell’evoluzione umana sul piano culturale, senza il dubbio oggi la terra sarebbe ancora quadrata.
Le vignette di ‪#‎CharlieHebd‬ avevano e spero avranno ancora per lungo tempo la funzione di instillare il dubbio nelle menti, ecco perché se nessuna immagine di corpi insanguinati farà mai desistere l’umanità dal farsi la guerra, soprattutto in nome di quel dio rappresentato come buono, giusto al quale però si fanno dire un sacco di sciocchezze che poi gli uomini mettono in pratica il linguaggio della satira può servire eccome ad eccitare quel dubbio, smontare quelle teorie, quei dogmi che non servono affatto a vivere meglio ma che contribuiscono alla divisione e a tutte le forme di ostilità, come abbiamo visto anche le più violente.

Non serve essere Charlie ora per condannare l’imbecillità criminale

Noi atei crediamo di dover agire secondo coscienza per un principio morale, non perché ci aspettiamo una ricompensa in Paradiso.

Dio è il tappabuchi per quando l’uomo non riesce a trovare le risposte.
*** Margherita Hack ***

La mediocrità è pericolosa quanto la stupidità, entrambe racchiuse nell’arroganza ignorante e spesso espressa con violenza di chi non fa il benché minimo sforzo per capire quello che non è alla sua portata, e allora lo rifiuta, rifiutando anche chi trasmette messaggi, pensieri che non comprende non per colpa di chi li esprime ma la sua, dei suoi disastri mentali.  Se io sono convinta di qualcosa, credo in qualcuno, non ho bisogno di vedermelo rappresentato ovunque, e non mi fa nessun effetto se qualcuno ci ricama sopra, anche la satira. Questi integralisti di tutte le religioni no, vogliono imporre e far subire, i crocefissi non si toccano nemmeno dai luoghi dove non devono stare: scuole, ospedali, i tribunali, la banca e il ristorante dove si va a mangiare, Maometto non si disegna perché è blasfemia. Basta.

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Hollande definisce – giustamente – eroi della libertà i morti di‪ ‎Charlie Hebdo‬Qui da noi il presidente della repubblica eleva ad eroi che hanno dato onore all’Italia due persone sotto inchiesta per duplice omicidio. Queste sono le differenze che fanno la civiltà di un paese.

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La vera satira non fa ridere, ma in un paese lobotomizzato prima dal Bagaglino e poi da Zelig e Striscia la notizia non stupisce che molti lo ignorino, che non capiscano che quando la battuta, la vignetta, o la gag televisiva fanno ridere e basta, non lasciano il retrogusto amaro della riflessione, quello è tutto fuorché satira.  

La satira è nata col preciso intento di prendere di mira il potere, qualsiasi potere, e se è giusto farlo col potere degli uomini sulla terra è fondamentale che si possa e si debba fare con quello che si regge in piedi grazie alla seduzione, alla creduloneria popolare che poi non condiziona solo chi crede ma tutte le società soprattutto in ambiti civili.  Chiunque conosca un po’ la Storia sa benissimo qual è il fine della satira, quali i suoi obiettivi, che è nata libera e che deve restare libera perché non fa male, la vera satira è solo quella a fin di bene, che permette di riflettere sulle scelleratezze, miserie, debolezze  umane che diventano intollerabili quando l’umanità rappresenta quel potere verso il quale storicamente si è sempre scagliata la satira. Se la satira nata come linguaggio del popolo facilmente comprensibile dal popolo ha il diritto ma anche il dovere di irridere il potere terreno depotenziandolo, evidenziandone le contraddizioni, gli errori, a maggior ragione lo può fare, lo deve fare anche con quello che ufficialmente risiede altrove dalla vita reale   ma che è stato sempre inventato da uomini in carne ed ossa al solo scopo di controllare, dividere e che tanti problemi ha creato e continua a creare nel mondo popolato di persone che poi in nome del loro dio sono disposte anche ad ammazzare chi mette in discussione l’esistenza di dio.  Per questo tutti i regimi totalitari vietano la diffusione non solo dell’informazione ma anche della satira. Guai a chi oggi pensasse che la risposta al terrore e alla morte sia silenziare chi usa l’ironia, il sarcasmo, le uniche armi che insieme all’intelligenza e alla cultura di cui la satira fa parte a pieno titolo non hanno mai ucciso nessuno.

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Premesso che, come da copione, la quasi totalità dell’informazione italiana sta spacciando la strage di Parigi come la conseguenza del contenzioso fra‪ ‎Charlie Hebdo‬ e i musulmani e non è così, la rivista ha sempre preso di mira tutte le religioni con buona pace di chi in queste ore nei vari telegiornali sta mostrando le vignette cosiddette anti-islam ma si guarda bene dall’esibire anche quelle sul referente dei cattolici [paura, eh?] che dire di quelli che “c’era proprio bisogno di provocare”?
Perché io penso di sì, penso che c’è sempre bisogno della provocazione, quando è intelligente, mirata a far riflettere, a descrivere la pochezza di una umanità che ha bisogno del tutor invisibile perché non ha mai voluto imparare a fare da sola.

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Skytg24 passa in rassegna le vignette di ‪#‎CharlieHebdo‬, da Mentana allo speciale di ‪#‎Bersagliomobile‬ la solita pletora in versione per fortuna ridotta dei funzionari di regime: il moderato Cazzullo, quello che non si doveva festeggiare l’uscita di berlusconi da palazzo Chigi, purtroppo solo ufficiosa,  per non offendere la sensibilità dei suoi elettori: un po’ come non si deve disegnare Maometto per non turbare gli integralisti islamici, l’Annunziata che da presidente di garanzia della Rai non esitò a cacciare Sabina Guzzanti dopo una sola puntata di Raiot perché aveva osato spiegare il conflitto di interessi di berlusconi ai telespettatori di Raitre.

Mi chiedevo e mi chiedo se quelli che sono tutti Charlie, che da ieri si disperano, scrivono, denunciano, promettono di fare e di mostrare, di non farsi intimorire un po’ come fa Napolitano quando parla di mafia ad ogni commemorazione dei morti di stato sono gli stessi che ieri, un ieri metaforico che dura da una ventina abbondante di anni, hanno speso due parole per le numerose censure nostrane, non solo in materia di satira, che qui da noi non hanno ammazzato le persone con un colpo solo in testa ma la libertà sì. Mi chiedo dov’erano quelli che oggi lacrimano sulla libertà di espressione mentre molti loro colleghi, attori, conduttori, giornalisti, comici sparivano dai palinsesti ma loro no: erano e sono ancora tutti al loro posto.
In materia di libertà di espressione, di giornalismo libero, di attacchi alla libertà di stampa e informazione non si prendono lezioni da chi si fa condizionare da sempre dal vaticano e poi va a straparlare in tivvù dei fondamentalisti “altri”, da chi apre i telegiornali con le notizie sul papa come se fossero fatti di rilevanza e importanza nazionale e non qualcosa che dovrebbe riguardare solo i diretti interessati, e a cui dedicare il giusto spazio che meritano le notizie di attualità e politica estera; nessuna lezione da chi dedica le prime pagine dei quotidiani all’ultima affermazione/dichiarazione del papa e dell’eminenza; da un servizio pubblico che non manca mai di infarcire il palinsesto della televisione di stato con la propaganda pro chiesa sotto forma di filmetti, fiction, speciali su santi e papi in prima serata. Nessuna lezione da chi per non alimentare i vari turbamenti e sturbamenti nei telegiornaletti di regime del cosiddetto servizio pubblico ha passato solo le vignette su Maometto e l’islam e nessuna sul Dio nazionale.

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Lo scontro di civiltà, quello vero – Alessandro Gilioli, L’Espresso

Charlie Hebdo ecco
le vignette sulle religioni

Queste sono alcune copertine di Charlie Hebdo sulla religione cattolica.

Le ho tratte dalla gallery dell’Espresso (dove ci sono anche quelle su islam ed ebraismo) perché qui si è perfettamente d’accordo con Libernazione.

Il vero scontro di civiltà mondiale oggi è uno solo.

Tra quelli che quelli che anche di fronte a vignette così – quale che sia il Dio rappresentato, quale che sia la religione presa di mira – continuano a dire:

Io sono Charlie.

E quelli che no.

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CHARLIE HEBDO E GLI ISTANTANEI PALADINI DELLA LIBERTÀ DI PAROLA – Dan Marinos,  Libernazione

Cari i miei razzisti del “padroni a casa nostra”, che finalmente avete un motivo per riempire di insulti i musulmani senza che nessuno vi dica nulla perché – forza ragazzi, “siamo tutti Charlie Hebdo!” – vi fate scudo della libertà d’opinione.

Cari i miei bigotti promotori dell’Editto Bulgaro, paladini della libertà di opinione mentre mettavate giù la cornetta dopo una bella telefonata ai vertici AGCOM e che ora vi stracciate le vesti per mostrare sotto la scritta “Siamo tutti Charlie Hebdo”.

Cari i miei giornali e giornalisti, che già ora lanciate appelli “Siamo tutti Charlie Hebdo”, mentre sui vostri schermi e sulle vostre pagine scorrono le vignette di Charlie Hebdo unicamente rivolte all’Islam (qualcuno su RaiNews24 ha detto, mandandomi ai pazzi: “Charlie Hebdo non mancava di fare satira pesante anche sulla religione cristiana, per esempio su Papa Ratzinger” “Si, ma si percepiva sempre la tenerezza nelle vignette.”), quelle stesse immagini che vi cagavate addosso a pubblicare quando fu Calderoli a mostrarle e anzi condannavate chi, tra i media, le ripubblicava.

Ecco, carissimi, se volete un po’ di tenerezza pubblicate sui vostri profili, siti, giornali, televisioni questa vignetta di Charlie Hebdo.

Perché difendere la libertà d’opinione vuol dire accettare i messaggi di cui siamo antagonisti, non dare libero sfogo alla vostra bestialità solitamente frenata dal vostro essere quotidianamente benpensanti.

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Non siamo tutti Charlie Hebdo.

[…]

Che oggi, a piangere i morti e a sfruttare il dolore dei sopravvissuti, ci siano quelli che mai e poi mai avrebbero permesso a Charlie Hebdo di esistere, e se fosse esistito avrebbero fatto carte false per farlo chiudere, non mi sta bene. Voi che vi lamentate se uno scrive cazzo o se non applaude i vostri comici preferiti, che segnalate su Facebook (maestra, quello dice le male parole!), guardatevi bene la copertina di Charlie in cui si vedono Padre, Figlio e Spirito Santo che giocano a incularella, e chiedetevi se l’avreste comprato, quel numero lì. Le parole contano, e almeno davanti alla morte, dovete sapere che la regola del vale tutto non funziona. Ecco perché non tutti possono dire siamo tutti Charlie Hebdo.

Io non posso perché non sono mai stato abbastanza bravo, e perché sarei scappato al minimo accenno di minacce: lo ammetto. Mi sarei rintanato tremando come un sorcio.

Ma voi, voi, non siete Charlie Hebdo perché eravate tutto quello che Charlie Hedbo combatteva.

Piangetevi i vostri, di morti.

 

Non è il posto che fa la gente, è sempre stato il contrario

In fin dei conti i social ricreano in chiave moderna quella che era l’arena di un tempo, il luogo in cui si decideva l’innocenza e la colpevolezza delle persone per mezzo di un gesto molto simile al like di facebook.
Io trovo perfettamente inutile spostare il problema come sempre sullo strumento web, è pieno di casi antecedenti ad internet che si possono paragonare a quello che avviene qui.
Serial killer, assassini di genitori e fratelli che ricevono lettere da ammiratori e ammiratrici, Charles Manson ora ottantenne, più di mezza vita passata in un carcere, satanista, regista e attore fra gli altri dell’omicidio di una donna incinta convolerà a giuste nozze con una ventiseienne che lo ritiene innocente, una vittima.
Pietro Maso, che tolse di mezzo i genitori ha un vero e proprio fan club come pure Angelo Izzo, uno dei responsabili della strage del Circeo, anche lui felicemente coniugato in galera dopo aver commesso altri due omicidi nel paese che un’altra possibilità l’ha sempre data a tutti meno a chi la merita.
L’infermiera di Lugo di Romagna accusata di aver ucciso 38 pazienti riceve regolarmente lettere da ammiratori e ammiratrici in carcere.
Raffaele Sollecito e Amanda Knox hanno ricevuto proposte di matrimonio quando erano in carcere.
Quindi non c’è da interrogarsi sul perché uno che ammazza la sua ex moglie, la madre di sua figlia riceva consensi tramite il web per il gesto criminale, c’è da chiedersi piuttosto come mai ci sia tanta gente incapace di condannare la violenza, di trovare anzi una giustificazione all’atto criminale di sopprimere una o più vite.
Ho letto ieri coi miei occhi in una bacheca di un’ amica un uomo che, relativamente ai problemi di coppia ha scritto: “ci sono situazioni in cui un vaffanculo non basta”. Quindi significa che si legittima il passo successivo, se il vaffanculo non basta ci vuole lo schiaffone, e se non basta nemmeno quello che si fa?
Quante volte di fronte alla violenza, allo stupro ci troviamo di fronte al fatidico “bèh, un po’ se l’è cercata”, perché magari la vittima si veste in un certo modo, ha un fare disinvolto, oppure esce la sera, il che per certi cervelli bacati implica automaticamente dover rischiare la propria incolumità o, peggio ancora, si considerano atteggiamenti che meritano la punizione.
E quando come prima reazione non c’è la condanna ferma e senza ma alla violenza ma si preferisce girare intorno al dramma cercando una motivazione significa che non è la Rete che facilita l’espressione volgare, becera, razzista, violenta ma che tutte queste cose sono dentro chi le manifesta poi col commento e l’apprezzamento. Significa che non dobbiamo considerare nemico il social ma, come sempre, chi lo fa.
Quella stessa gente che poi ci ritroviamo ovunque nella nostra vita quotidiana, non nasce e muore qui dentro.

Quello che è accaduto ieri è solo la conseguenza della fallimentare teoria del “lasciamoli parlare così la gente capisce con chi ha a che fare” da cui si trae ispirazione quando s’invitano nelle pubbliche ribalte persone di cui si conosce esattamente il pensiero. Quando si chiede a giovanardi il parere sugli omosessuali e gli ammazzati di stato o alla santanché sull’Islam. O a salvini sull’immigrazione. Questa perversione di continuare a far esprimere, col solo scopo di aizzare le folle e alzare lo share da radio, tv, social media gente che veicola il pensiero discriminatorio, razzista, violento e che poi viene ripreso e rilanciato da migliaia di imbecilli, le folle, che sanno di poterlo fare perché dopo non succede niente.  I fomentatori della violenza sono i programmi come Piazza Pulita dove si trattano temi delicati e verso i quali servirebbe un grande equilibrio ma che invece si fanno commentare a chi soffia sul fuoco dell’intolleranza violenta. Se un demerito il web ce l’ha consiste nella libertà che offre a tutti di potersi esprimere in tutti i modi,  la possibilità che invece andrebbe un po’ meritata di rendere pubblico quello che un tempo si condivideva in un contesto ristretto, la famiglia, gli amici. La chiacchiera da bar estesa al dibattito, trasformata poi in argomento del quale si parlerà sine die. Cose di una banalità disarmante, tipo di post di Selvaggia Lucarelli che trovano migliaia di adesioni, condivisioni pur non aggiungendo una virgola alla cultura, all’informazione. La Rete una responsabilità ce l’ha in quanto tutti hanno libero accesso alla diffusione dei propri pensieri il più delle volte senza il passaggio essenziale nel filtro della riflessione proprio perché a costo e rischio zero, una volta questo era un’esclusiva di scrittori, giornalisti, gente comunque con un grado di cultura elevato, oggi no. Tutti opinion makers della qualunque. Tutta gente poi che pretende che ogni sua scemenza si possa inserire nella cosiddetta libertà di espressione/opinione sul cui altare viene spesso sacrificata invece la semplice decenza: istigare alle violenze è un reato, non è un’opinione.
Così come non sono opinioni le apologie di razzismo e fascismo.
Quando si capirà questa semplicissima cosa sarà un gran bel giorno.

Ieri si è riproposto lo stesso teatrino del servizio di Chi sulla Madia che mangiava un gelato, un episodio da confinare nell’indifferenza totale che invece è stato oggetto di giorni e giorni di dibattiti,  naturalmente “serissimi”  di tutti quelli che per denunciare uno squallore l’hanno rilanciato migliaia di volte. Un po’ come combattere le volgarità col turpiloquio.

Questo paese è pieno di deficienti, di gente che ha scelto di vivere nella sua ignoranza in cui coinvolge poi tutti gli altri, quelli che s’impegnano a capire,   anche per mezzo delle sue scelte elettorali;  chi ha  cliccato il like all’assassino poi va a votare come anche chi si augura la riapertura dei campi di sterminio per i Rom, l’Italia è profondamente diseducativa per i figli che stanno crescendo adesso.
Non sono solo i crimini il pericolo, la politica disonesta, ma è tutta quella gente che non sa articolare uno straccio di pensiero che sia pulito, anche semplice, non necessariamente di uno spessore culturale elevato ma almeno privo della malvagità ignorante che ogni giorno siamo costretti a leggere qui dentro.
Perché questa non è la Rete, è la vita quotidiana di tutti noi che gente così inquina e avvelena con la sua ignoranza criminale. I complimenti all’assassino sono solo l’ultima conferma di una deriva culturale e sociale difficilmente recuperabile.

IL FEMMINICIDIO SU FACEBOOK E LA DERIVA DEL “MI PIACE” – Gabriele Romagnoli 

Come la caduta di un albero nella foresta aveva necessità di una ripresa televisiva per essere reale, così un femminicidio ha bisogno di un contorno social per fare (ancora) notizia? I like all’annuncio del delitto da parte dell’ennesimo ex marito incapace di rassegnarsi sono altrettante e ulteriori coltellate o soltanto quel nulla in più che però rende il tutto nuovamente scabroso e inaccettabile?

L’assassino, Cosimo Pagnani, anni 32, della provincia di Salerno, non risponde né a queste né ad altre domande. Arrestato, tace. Ferito, non a morte. Da se stesso, in tutti i possibili sensi. La sua è una storia che si ripete, con un’appendice neppure troppo sorprendente. Gli elementi di realtà sono scarni e consueti: un uomo e una donna si incontrano, si amano e si sposano, hanno una figlia, la passione finisce, a uno dei due quel che resta non basta, si separano, lui non lo accetta (accade anche il contrario, ma le Medea sono una contro dieci), quando lei trova un altro il risentimento esplode, dalle recriminazioni si passa alle minacce, dalle urla ai colpi di qualche arma. A rendere particolare la vicenda è il suo svolgersi, parallelamente, nel mondo di Facebook: è lì che tutto si deposita, lascia tracce, monta. Lì adesso inquirenti e media ricostruiscono personalità dell’omicida, escalation della battaglia tra lui e l’ex moglie, modalità del delitto. E rinvengono, a margine, utili a futura memoria, tracce di diffusa imbecillità.

Per spiegare chi sia quest’uomo vengono messi in fila i suoi selfie. Appare in tenuta da caccia e in costume tirolese, ma non è chiaro in quale delle due immagini volesse realizzare una parodia. Lo pervade quella disperazione che abbassa la soglia del pudore, spingendolo a mostrarsi fiero di un nuovo piercing, sullo sfondo delle piastrelle da doccia, testimone un bagnoschiuma, o in tenuta da superatleta, senza il fisico corrispondente, nel tinello. Esibisce ingenuamente le proprie passioni: il fucile appoggiato a un sasso, il paesello visto dalla collina, il furgone con cui lavora.

Con personaggi così in America ci fanno sit com di successo. Ma Cosimo Pagnani ha perduto ironia e amabilità perché ha perduto un ingrediente indispensabile: la famiglia. Ha sostituito i sentimenti ordinari con dosi straordinarie di affetto (per la figlia) e di rancore (per l’ex moglie). È sempre dai suoi post su Facebook che emergono la devozione per la bambina, “principessa”, e l’odio per la donna, che gliel’ha “rubata”. Per comunicare tra di loro i due non usano né telefono né av- vocati, come avviene in questi casi, ai diversi livelli di ostilità. Di nuovo, tutto avviene su Facebook che si trasforma nel loro teatro. Gli amici comuni sono gli spettatori, hanno accesso ai loro dialoghi, li commentano, applaudono chi l’uno chi l’altro. È lei a dettare tempi e modalità di questa recita e rifiutare ogni altra forma di contatto. C’è chi ammira la sua risolutezza, chi solidarizza con l’amarezza di lui, che si sente defraudato ma ritrova la forza di sperare e giura che tornerà “felice da morire”. Non è questo il messaggio più sinistro, il peggio deve arrivare. Se lui fosse rimasto in Germania dove ha trovato lavoro, se i loro scambi fossero rimasti su Internet non sarebbe successo nulla di irreparabile. Con tutta la sociologia demonizzante la Rete può rendere ridicoli e volgari, ma non uccide. Per quello occorre ancora la vecchia, mai obsoleta, realtà. La rappresentazione però esige un finale nello stesso teatro in cui si è svolta e quindi Cosimo Pagnani, sanguinante, manda dal cellulare un ultimo post annunciando il delitto con un estremo insulto alla vittima. Per come tutto è accaduto è una chiusa che gli sembra, e quasi è, necessaria.

Dopodiché parte la reazione del pubblico, per lo più positiva. Il profilo viene rimosso quando ci si accorge che i like sono oltre 300. Qualcuno pensa che siano giudizi inavvertiti, ma un altro frequentatore della rete controlla: solo 32 sono precedenti alla notizia dell’omicidio, gli altri 265 vengono apposti quando la fine è nota. Parlare per questo di social murder sarebbe una sciocchezza: Facebook è uno strumento come lo è un coltello, utilizzabile da un raffinato chef o da un matto. La caratteristica del giudizio emesso in Rete è l’assenza di mediazione, una specie di intercettazione senza filtro, nemmeno della voce al telefono, peggio: del pensiero nella testa.

Schiacciare like è un gesto da scimmia in laboratorio, si reagisce con un istinto primitivo e, quindi, più bestiale che umano. La cosa veramente esecrabile è che dopo, con tutto il tempo per riflettere e agire di conseguenza, decine di siti abbiano pubblicato il post dell’assassino così com’era, insulto postumo incluso. E giudizi morali a seguire.

A proposito di gogne mediatiche

Sottotitolo: senza Marco Travaglio, ci sarebbe molto buio sulla storia italiana che si sta facendo in questi anni. Molti lo sanno: in Italia, in Europa, negli Stati Uniti. Alcuni non lo sanno ancora: se vogliono una lampada, cominceranno a leggerlo presto. Poi ci sono quelli che lo sanno meglio di tutti gli altri: non c’è da stupirsi se da loro viene oggi – rancorosa, vendicativa – l’accusa di terrorismo mediatico.
Sarebbe bello se tra i giornalisti indipendenti di tutte le testate ci fosse più solidarietà: con Travaglio, con il Fatto Quotidiano, con Repubblica-Espresso. [Barbara Spinelli, 16 dicembre 2009] Questo, in risposta a Le parole vili e sciagurate dell’on. Cicchitto.

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Così ci capiamo. E così magari prendiamo anche posizione, che sarebbe ora. Sono certo che il nuovo gruppo dirigente del Pd lo farà. Perché lo farà, vero? [Giuseppe Civati]

Sul sito dell’Unità c’è un’intera sezione dedicata ad improperi e falsità varie su Travaglio e Il Fatto Quotidiano puntualmente smentiti coi e dai fatti.
Marco Travaglio per anni ha collaborato al fu giornale di Antonio Gramsci ed è stato, insieme a Furio Colombo e Antonio Padellaro CACCIATO dal giornale per volontà del partito di riferimento, la stessa sorte è toccata a Concita de Gregorio.
Ma naturalmente nessuno legge quegli articoli né tanto meno la selva di insulti fra i commenti che vengono rivolti al giornalista e al quotidiano di cui è vicedirettore e men che meno qualcuno si sogna di parlare di gogna, di frasi oltraggiose che mettono a rischio l’incolumità di Marco Travaglio. 

Scalfari invece inaugura la gogna fatta in casa, quella mascherata da ramanzina a Barbara Spinelli che ha la grave, gravissima colpa di apprezzare da sempre il giornalismo di Marco Travaglio e per questo si merita lo sputtanamento di Scalfari sullo stesso giornale in cui scrive, e dove per anni ha scritto anche Travaglio che ancora oggi ha una sua rubrica fissa su L’Espresso. 

E, anche in questo caso nessuno si sogna di dire mezza parola circa l’attacco alla libertà di opinione di Barbara Spinelli colpevole, oltre che di apprezzare Marco Travaglio di non aver mai partecipato all’attacco mediatico sistematico e puntuale di Repubblica ai 5stelle ma di aver sempre espresso opinioni non aggressive che invitano alla riflessione.

Colpevole inoltre di non aver mai paragonato il MoVimento all’alba dorata nazista per il semplice fatto che non è vero. 

Barbara Spinelli è una giornalista di lungo corso, seria, attenta, preparata e non allineata che dunque non può trovare spazio su quella Repubblica che interpreta come una mission il sostegno a tutte le porcherie napolitane perché il suo fondatore, estimatore e amico personale di Giorgio Napolitano, ha deciso che così deve essere e nessuno si deve mettere di traverso, pena le sculacciate di Scalfari che poi pensa di cavarsela semplicemente “dimenticando” le libere opinioni di Barbara Spinelli che lui considera sgradevoli [e ‘sti cazzi non ce li mettiamo?]. Le larghe intese di Repubblica sono iniziate il giorno che Letta dichiarò che era meglio il pdl dei 5stelle in parlamento. Dichiarazione mai riportata da Repubblica, io ho smesso di comprare quel giornale il giorno dopo.

Ma naturalmente questo è giornalismo, financo eccellente, quello di Grillo è squadrismo mediatico.

Barbara Spinelli è una donna.
Come Laura Boldrini che si lamenta sempre dell’attacco sessista, ogni critica su di lei viene letta in chiave misoginica, anche quando sessismo e misoginia non c’entrano niente, e per questo riceve la solidarietà di tanta gente, soprattutto quella d’accatto. Per dire, solo per dire.

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Un paese che perde il senso delle parole di EUGENIO SCALFARI

 [Per chi avesse voglia di leggere l’inevitabile sproloquio del fondatore di Largo Fochetti: guai, se qualcuno togliesse la libertà di parola a Scalfari magari per sopraggiunti limiti di età.]
Risposta a Scalfari di BARBARA SPINELLI

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Dal Fatto Quotidiano, 16 dicembre

Chissà se oggi i giornali e i tg, l’Ordine dei giornalisti e la Federazione della stampa, ma anche il premier Letta e la presidente della Camera Boldrini, denunceranno la nuova “gogna per giornalisti” e solidarizzeranno con la vittima.

L’interrogativo sorge spontaneo, visto che la gogna non l’ha allestita Grillo contro una penna ostile ai 5 Stelle, ma Eugenio Scalfari contro Barbara Spinelli, la più prestigiosa editorialista di Repubblica, cioè del suo stesso giornale. Finora soltanto Gad Lerner, anche lui firma illustre del quotidiano, ha osato criticare sul suo blog la “ramanzina sgradevole, impropria e di pessimo gusto”.

Diversamente dal blog Grillo, che pubblica stralci di articoli menzogneri e poi ne smonta il contenuto (talvolta insultandoli, come con la Oppo, talvolta no, come con Merlo e Battista), Scalfari fa di peggio. Insulta chi si permette di criticare Napolitano (“il fuoco dei cannoni da strapazzo… spara Grillo, spara Travaglio, spara perfino Barbara Spinelli”).

Ma non cita mai quelle critiche per contestarle nel merito, forse nel timore che i lettori le condividano. Il peccato mortale della Spinelli è di non aver partecipato alla demonizzazione di Grillo e soprattutto di aver raccontato a Marco Travaglio, per il libro “Viva il Re!”, uno scambio di lettere e un incontro con Napolitano.

Ma questo i lettori di Repubblica non devono saperlo, dunque Scalfari non lo dice. Le scrive invece di aver “ascoltato i tuoi appunti su Napolitano affidati alla ‘recitazione’ di Travaglio”. Allusione all’ultima puntata di Servizio Pubblico, in cui Travaglio non ha mai recitato alcunché: semplicemente Santoro ha affidato a un’attrice la lettura di alcuni brani dell’intervista alla Spinelli contenuta nel libro.

Invece di smentire, casomai ci riuscisse, l’allergia di Napolitano alle critiche della libera stampa descritta e documentata dalla Spinelli, Scalfari attacca personalmente la editorialista dandole dell’ignorante (“conosce poco o nulla la storia d’Italia”). Le ricorda che è “figlia di Altiero Spinelli” perchè questo è il suo “maggior bene”, manco fosse una ragazzina che deve presentarsi accompagnata dai genitori e chiedere il loro permesso per scrivere e per pensare.

Infine la informa di aver “cancellato dalla mia memoria” quanto ha scritto su Grillo e detto su Napolitano. Per molto meno, c’è chi verrebbe accusato di fascismo, squadrismo, gogna, liste di proscrizione, macchina del fango, misoginia e sessismo.

Se Barbara non fosse una signora, potrebbe ricordare a Scalfari – come fece Giorgio Bocca – che è figlio di un croupier del casinò di Sanremo, o – come fanno in pochi – che da giovane era caporedattore di “Roma Fascista”. Si attende comunque con ansia l’intervento del governo, del Parlamento, del Quirinale e possibilmente dell’Onu per il vile attentato alla libertà di stampa.

 

La sai l’ultima? quella di un delinquente condannato ancora a piede libero?

Sottotitolo: da 98 giorni un pregiudicato, condannato con sentenza definitiva a quattro anni per frode fiscale  è ancora a piede libero da senatore della repubblica.

Quel condannato si chiama silvio berlusconi.

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Pensavo: dopo le barzellette sull’olocausto, e mussolini che ha fatto cose buone berlusconi  non dovrebbe avere un’idea così pessima del regime di hitler. Perché i suoi figli dovrebbero temere qualcosa da un regime che, in fin dei conti sempre secondo il suo cervello bacato mandava solo gente in vacanza, a cambiare aria?

Il padre spirituale delle larghe intese ha detto qualcosa di vivo e vibrante a proposito di senso della misura, lui che lo esige perfino dai magistrati col vizio di condannare i criminali ma non lo pretende mai dai criminali? Niente monito sennò cade il governo?

Spero che questa nuova sortita  di berlusconi sia d’aiuto a quanti credono che tutto si possa inserire nella libera espressione dei pensieri. 

Specialmente a quelli che si difendono dietro l’idiozia voltariana, mai pronunciata dal filosofo che era un illuminista, mica uno sprovveduto coglione,   ma che tutti si cuciono addosso in base alle proprie esigenze e alle stronzate che di volta in volta si vogliono dire, circa il morire per consentire a tutti di esprimere le loro opinioni. 

Perché li vorrei proprio conoscere quelli che morirebbero per far parlare berlusconi, non solo lui ma tutti quelli che ci allietano quotidianamente con le loro follie deliranti stile giovanardi ma anche santanchè e miserabilità simili.  Non chiamiamola censura ma più che altro eleganza nell’espressione dei pensieri, il che non vuol dire rinunciare al linguaggio colorito e ci mancherebbe, sarei rovinata pure io, ma eleganza nei concetti. Evitare di far sapere al mondo che si ha la merda nel cervello.

E spero che serva a scoraggiare anche quelli che pensano, ancora e tutt’ora, che certa gente è meglio farla parlare per conoscerla. 
Come se per conoscere berlusconi servisse questa ulteriore odiosità da lui pronunciata di cui si parlerà per settimane e che servirà come da copione a mandare al piano di sotto le altre cose.

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Mauro Biani

Secondo la teoria del tanto – quanto, visto che i libri di vespa che escono sempre sotto natale si cominciano a reclamizzare già a ferragosto, quanta gente c’è che poi li compra? evitando di finanziare la Mondadori di berlusconi da lui ottenuta coi mezzi che sappiamo e che sono gli unici che conosce e cioè il furto previa corruzione, non si fa nessun torto alla cultura. 

Su berlusconi non bisogna ironizzare dopo ogni sua uscita e la relativa e puntuale smentita d’ordinanza: bisogna intervenire nell’unico ambito che gli interessa, e cioè il suo patrimonio. 

berlusconi sembra scemo, uno da interdire e fin qui ci si possono anche fare le battute, ma lui sa sempre quello che dice e perché lo dice e quando va detto, soprattutto. 

In un paese normale il presidente della repubblica ieri sarebbe andato in televisione a reti unificate cinque minuti dopo l’ennesima uscita di quello a cui proprio lui per primo ha offerto garanzie, sostegno, accoglienza e la possibilità di partecipare alla politica e dunque quella di poter ricattare e minacciare lo stato a chiedere scusa agli italiani per aver imposto un governo pensato soprattutto per allungare i tempi di applicazione della sentenza che condanna il delinquente frodatore; si dovrebbe leggere questo oggi sui giornali, non l’ennesimo riassunto delle “gaffes” del criminale. 
Ma ovviamente, nel paese normale non ci sarebbero berlusconi, o, quanto meno non ci sarebbe da cittadino libero nonostante una condanna definitiva, né Napolitano a fare il presidente della repubblica e delle larghe intese con un delinquente pregiudicato.

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LA SOLUZIONE FINALE – Marco Travaglio, 7 novembre

Cos’è il genio? È fantasia, intuizione, colpo d’occhio e velocità d’esecuzione”. Parola dell’architetto Rambaldo Melandri in Amici miei atto II di Mario Monicelli. Anche Berlusconi però non scherza. Dal 13 agosto Napolitano non vede l’ora di dargli la grazia, gli spiega come fare, lo prega almeno di chiedergliela, poi basta che sconti un giorno di servizi sociali ed è fatta. Intanto la maggioranza di larghe intese, ma soprattutto di lunghe attese, ha trasformato il voto sulla decadenza in una telenovela talmente noiosa e a tratti odiosa (vedi il cambio delle regole sul voto palese) che qualcuno potrebbe financo scambiarlo per un perseguitato politico. Insomma, ci eravamo quasi. Poi gli piomba in casa Bruno Vespa per raccogliere le sue ultime volontà da stampare nel nuovo (si fa per dire) libro, che come di consueto esce quotidianamente sui giornali per mesi e mesi, a rate, in ghiotte dispense dette “anticipazioni”. E lui se ne esce con quello strepitoso paragone fra i suoi figli e “le famiglie ebree durante il regime di Hitler”. Così s’incazzano tutti e non se ne fa più nulla. Va detto, a parziale discolpa, che l’uomo dai sette nei ci ha messo del suo, profittando della demenza senile del pover’ometto.

Le cose potrebbero essersi svolte così. Il Cainano, davanti all’insetto, attacca la solita pippa sulla persecuzione e si paragona un’altra volta a Tortora. Vespa fa notare che l’ha già detto mille volte: è un déja vu, non fa notizia, non dà scandalo, nessuno lo riprende. E il libro bisogna pur che qualcuno lo compri: lo vuole lui, ma pure la Mondadori. Ci vorrebbe qualcosa di più forte. “E se paragonassi i miei processi alla Shoah e i miei figli agli ebrei nei forni crematori?”. “Ecco, così va meglio, però sa, presidente, non vorrei che i suoi figli se ne avessero a male”. “Ma figurati, Bruno, sono vent’anni che giuro sulle loro teste certe cazzate da fargli venire la dissenteria cronica. Tranquillo, se dicono qualcosa li diseredo. Allora siamo d’accordo: i giudici come Hitler, il Pd come i nazisti, Marina e Piersilvio come gli ebrei nei lager. Mettila giù bene. Così giornali e tv abboccano, e magari pure qualche lettore. Naturalmente i miei diranno che ho ragione io, che il paragone regge, anzi sono stato troppo buono. E, se qualcuno si dovesse offendere (ma non credo: gli ebrei li hanno gasati tutti, no? ahah), faccio la solita smentita e dico che mi hanno frainteso, così se ne parla due volte e le vendite schizzano”. Cos’è il genio? Appunto.

La scena ne ricorda un’altra, subito dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, mentre l’Occidente preparava l’attacco all’Afghanistan. Per rassicurare gli arabi che non ce l’aveva con l’Islam, ma solo con al Qaeda, Bush abbracciava due o tre imam al giorno e visitava a tappeto tutte le moschee d’America. Poi intervenne il nostro. Il 26 settembre, in visita a Berlino, sparò davanti alle telecamere di tutto il mondo: “Noi dobbiamo essere consapevoli della superiorità della nostra civiltà, che ha dato luogo al benessere e al rispetto dei diritti umani, religiosi e politici. Un rispetto che certamente non esiste nei paesi del-l’Islam. Dobbiamo evitare di mettere le due civiltà, quella islamica e quella nostra, sullo stesso piano. La libertà non è patrimonio della civiltà islamica… La nostra civiltà deve estendere a chi è fermo ad almeno 1400 anni fa i benefìci e le conquiste che l’Occidente conosce… L’Occidente è destinato a occidentalizzare e a conquistare i popoli. L’ha fatto con il mondo comunista e l’ha fatto con una parte del mondo islamico”. Nel giro di cinque minuti presero le distanze tutti i Paesi occidentali, la Lega Araba e tutti i governi islamici dell’orbe terracqueo chiesero le scuse dell’Italia. Fu allora che Stefano Disegni, in una vignetta memorabile, ritrasse la fine del mondo con un paesaggio di rovine fumanti e due soli sopravvissuti: un mostriciattolo verde con due trombe al posto del naso, e il figlio. “Papà, ma come finì il pianeta Terra?”. “Niente, Bin Laden stava trattando, poi Berlusconi per sdrammatizzare raccontò quella dell’araba pompinara…”.