Marco Travaglio è un giornalista, Alessandro Sallusti, no

Ultim’ora [o quasi]: Caso Sallusti, si muove anche il Colle
“Napolitano segue la vicenda”

Il portavoce del presidente della Repubblica scrive su Twitter che il Quirinale “segue il caso e si riserva di acquisire tutti gli elementi utili di valutazione”. Mercoledì prossimo il verdetto dei giudici della Cassazione sulla vicenda che ha coinvolto il direttore de Il Giornale. [Il Fatto Quotidiano]

Ultimamente il quirinale sembra l’ufficio reclami, vanno tutti a frignare da Napolitano.

Sottotitolo: Nessuno,  nelle istituzioni si è occupato di questo povero caso umano, eppure, guardaunpo’, ai convegni tutti quando parlano fra loro lo fanno per difendere il malcapitato di turno, per lui, pover’uomo  non si è scomodato nessuno, manco il ministro per una revisione del codice piccola piccola, una leggina ad Sallusti, ecco. Si tratta proprio di una persecuzione, prima un magistrato e poi addirittura un altro hanno stabilito che fra libertà di espressione e diiffamazione qualche differenza c’è.

Che chi ha la responsabilità di scrivere su un giornale non può usarlo per scriverci tutte le stronzate che passano in certi cervelli bacati o, peggio ancora, pagati per esserlo.  E farlo poi sotto pseudonimo non mettendoci un nome né una faccia.

Colpirne uno per educarne cento? eppure questa teoria dovrebbe essere gradita a tutta la pattuglia dei diffamatori che lavorano in nome e per conto di berlusconi visto che è la più applicata da chi si  si spaccia per giornalista ma in realtà fa tutt’altro quando c’è da mettere in moto la macchina del fango. 
Uno era Boffo, una la Boccassini, uno Vendola, uno Fini, uno il giudice Mesiano e i suoi ormai leggendari calzini azzurri, e via via per tutti quelli che sono stati  manganellati in tutti questi anni per conto terzi e cioè di berlusconi. 
La libertà di espressione non ha niente a che fare col lavoro che si fa nelle redazioni di Libero e Il Giornale, ma siccome in questo blog la libertà si difende sempre perché le questioni di principio e la libertà  non hanno colori politici né editori né tanto meno padroni da servire,  perché tanta gente è morta per difendere i principi di libertà,  ma soprattutto perché l’Italia è l’unico paese europeo dove un giornalista rischia il carcere – i primati in negativo ce li abbiamo tutti –  punire  col carcere un pensiero è roba da regime cileno, noi dovremmo essere se non sbaglio una democrazia,  anche le punizioni devono essere all’altezza di una democrazia,  e in un paese civile  e democratico nessuno deve rischiare il carcere per aver espresso anche la più becera delle opinioni,  dunque anch’io mi associo all’appello di Marco Travaglio: salviamo il soldato Sallusti.

Liberainformazione: Sallusti rischia il carcere

Travaglio è un giornalista, Sallusti no, e non per colpa di Travaglio ma la sua che ha rinunciato alla sua dignità di uomo, prim’ancora che a quella professionale per servire il suo padrone.

E quando si sceglie di servire un padrone, quale che sia, e lo si fa da giornalisti  rinunciando a difendere quei principi indispensabili da rispettare quando si svolge il mestiere di informare non si può poi attaccare ogni giorno chi fa scelte diverse, scelte di libertà.

I principi come dice Marco Travaglio si difendono SEMPRE.

A parti inverse Sallusti NON avrebbe difeso Travaglio, anzi, come è già accaduto avrebbe approfittato dell’occasione per infierire, per scrivere e dire quello che dicono tutte le persone in malafede a proposito di Marco Travaglio.

Salvate il soldato Sallusti
Marco Travaglio, 22 settembre


Che cosa pensiamo di Alessandro Sallusti (non dell’ex bravo cronista del Corriere, ma del direttore di Libero e poi del Giornale), i nostri lettori lo sanno benissimo perché l’abbiamo scritto mille volte e mille volte lo scriveremo. Ma non oggi. Perché Alessandro Sallusti rischia di finire in galera o agli arresti domiciliari o ai servizi sociali, per scontare una condanna a 1 anno e 2 mesi senza condizionale: gliel’ha inflitta la Corte d’appello di Milano, aggravando il verdetto del Tribunale che gli aveva appioppato 5 mila euro di multa e 30 mila di risarcimento. Sentenza che la settimana prossima la Cassazione dovrà confermare o annullare. 

Ma l’annullamento, si sa, può avvenire solo per questioni giuridiche e non di merito (che si risolvono nei primi due gradi di giudizio). Si dirà: i giornalisti sono cittadini come gli altri (eccetto i politici, si capisce) e non c’è nulla di strano se, in caso di condanna, la scontano. Vero: ma questo dovrebbe valere per delitti dolosi. Cioè per reati gravi e intenzionali. Sallusti è stato condannato per aver diffamato su Libero un giudice tutelare di Torino, Giuseppe Cocilovo, in un articolo del 2007 scritto da un altro sotto pseudonimo, ma di cui gli è stato attribuito l'”omesso controllo” in veste di direttore responsabile. Non so cosa fosse scritto in quell’articolo, ma non dubito che fosse diffamatorio, vista la normale linea Sallusti. Però ora non m’interessa, perché ciò che conta è il principio. E i principi vanno difesi quando riguardano gli altri,possibilmente i più lontani da noi, per sfuggire ai conflitti d’interessi (parolaccia che Sallusti non pronuncerebbe mai, ma noi sì). Personalmente, sono incappato quattro anni fa in un incidente simile: nel 2001 avevo sintetizzato, in un articolo troppo breve sull’Espresso, un lunghissimo verbale che citava anche Previti. Questi mi querelò. Il Tribunale di Roma condannò me a 8 mesi di carcere con la condizionale e la direttrice Daniela Hamaui a 4, più 20mila euro di risarcimento (sentenza spazzata via dalla Corte d’appello, che la ridusse a due multe di 1.000 e di 800 euro, poi prescritte). Naturalmente i giornali di B., su cui scriveva Sallusti, presentarono la notizia come la prova che ero un delinquente matricolato e non fecero alcuna campagna contro il carcere ai giornalisti. Ora che tocca a Sallusti, la fanno eccome. Ma, ripeto, contano i princìpi. Che non si possono cambiare ogni mattina come le camicie, gli slip e i calzini. Il principio, peraltro ovvio in tutti i paesi civili, è che nessun giornalista può rischiare in prima battuta il carcere (anche se finto, come da noi) per quello che scrive. Nemmeno se è sbagliato o impreciso, e neanche se è dolosamente diffamatorio (come purtroppo sono le campagne degli house organ berlusconiani contro chiunque si metta sulla strada di B., anzi contro chiunque indossi una toga). Da vent’anni, da quando in Parlamento si dicono tutti “liberali” e “garantisti”, non si contano le promesse di riformare il codice penale sulla diffamazione. La soluzione è una regoletta che imponga a chi sbaglia di ristabilire la verità e riparare all’offesa in forme e spazi proporzionati al danno arrecato, e solo in caso di rifiuto preveda la possibilità di adire le vie legali (anche, nei casi più gravi e dolosi, col carcere). Così, fra l’altro, si distingue chi sbaglia in buona fede (e rettifica) da chi lo fa in malafede (e insiste). Sappiamo come sono finite quelle promesse: come i tagli ai “costi della politica”. E sappiamo anche perché: a questa classe politica fa comodo ricattare la stampa con denunce penali e civili milionarie. In attesa di trovare, magari nel quarto millennio, una maggioranza davvero liberale, c’è un solo modo per evitare che Sallusti diventi un detenuto: il buonsenso. 
Sallusti chieda scusa e rifonda il danno al giudice diffamato. E questi ritiri la querela: dimostrerebbe fra l’altro che, con tutte le magagne, i magistrati sono ancora molto meglio dei politici.

Compleanno

Sottotitolo: la mia stella continua ad essere rossa. Ed è dentro di me, non ho bisogno che qualcuno me ne dia una scolorita su una pagina web per potermene vantare con degli sconosciuti.

Oggi è l’anniversario del mio ban da quella ridicola piattaforma che si fa chiamare Libero.

Un anno fa più o meno a quest’ora entravo nel blog per rispondere ad un commento e sorpresa delle sorprese, il blog non c’era più.
La Locanda Almayer, di cui si parla ancora in Rete dopo un anno dalla chiusura forzata che ha dovuto subire non è stato chiuso perché violasse davvero le regole ma semplicemente  perché un gruppuscolo di decerebrati si era organizzato per segnalarlo ad oltranza.  Una brutta storia di squadrismo virtuale avvenuta in un posto chiamato LIBERO. Un blog dove si fa qualcosa di serio, piacevole e intelligente  non può essere ospitato dove la serietà non è prevista; dove le linee editoriali le dettano il gossip, i glitter,  tette e culi, argomentoni come la cellulite delle attricette o l’ultima storia di corna che riguarda l’ambiente cosiddetto ‘vip’.
Il blog dove è stato organizzato il tutto è ancora on line proprio in quella  piattaforma.

Centinaia di persone si erano accorte di tutto meno i preposti al controllo, dunque dopo tre anni di molestie, stalking, persecuzioni ai miei danni e a quelli dei miei ex ospiti, tre anni di imitazioni di nick che si ripropongono come le peperonate della sera prima e che continuano ad inseguire gente di dove in dove il premio per chi subisce è il ban anziché le scuse di uno staff di incapaci che non sa riconoscere la vittima dai carnefici a dispetto di quell’uso civile di uno spazio pubblico  dietro al quale la signora responsabile dello staff degl’incapaci di cui sopra  ha dovuto nascondere l’enorme vigliaccata che ho dovuto subire, l’alibi per giustificarsi con chi giustamente per settimane, mesi, ha chiesto spiegazioni sul perché un blog ben fatto, letto e seguito, frequentato da gente perbene fosse sparito così da un minuto all’altro mentre  altri blog che davvero violano regole e decenza, blog dove si fanno apologie di fascismi e razzismi, continuano ad essere ben presenti e visibili in quella piattaforma. 

E insieme al mio ne sono spariti almeno altri quattro colpevoli di aver dimostrato solidarietà,  visto che in un posto chiamato scherzosamente Libero gli utenti non hanno neanche la possibilità di informare i loro conoscenti del perché un blog  all’improvviso non sia più visibile e leggibile. E per tacere anche degl’innumerevoli [decine e decine in giro per altri blog] post fatti sparire prudentemente affinché nessuno potesse ricostruire la storia dell’infamità più disgustosa che sia mai avvenuta in una piattaforma virtuale compiuta da gentaglia che  mentre io mi occupavo dei fatti miei,  ero in vacanza in Costa Smeralda era davanti ad un computer a trafficare con un tasto abuse giorno e notte per settimane.

Malati mentali, rifiuti subumani che non dovrebbero trovare residenza in nessun contesto, figuriamoci in un contesto “Libero” e civile.

 Gente cattiva, arida, miserabile che accusa gli altri di non avere una vita fuori di qui e poi sta in Rete giorno e notte, per anni, a controllare la vita degli altri, cosa fanno, cosa scrivono, come.

E invece di imparare da chi sa fare qualcosa meglio di loro si ammalano e fanno azioni di questo tipo. 

 Ma il tempo è galantuomo, anche in Rete, uscire da lì è stata una liberazione, c’è voluto un po’ per capirlo ma quando accade è meraviglioso pensare di non avere più niente a che fare con gente del genere.

Di censure, censurati, libertà di espressione, fatti, quotidiani, varie ed eventuali

In questo paese fare informazione è difficile, non solo per colpa del conflitto di interessi di berlusconi  che ha avuto solo “il merito” di peggiorare una situazione già complicata in precedenza ma  perché nonostante e malgrado quello che riguarda berlusconi sia il più gigantesco e insopportabile per una democrazia i conflitti di interessi sono molteplici, ed ecco spiegato il motivo per cui una legge per regolare controllati e controllori in questo paese non la pensano i governi di destra ma nemmeno quelli (cosiddetti) di sinistra.

Perché non è conveniente alla destra ma nemmeno alla (cosiddetta) sinistra.

Come ho scritto varie volte amo leggere i quotidiani in versione cartacea,  e – a malincuore – ho sempre detto che il finanziamento pubblico è una garanzia di libertà, perché finanziando anche cartaccia come Libero e Il Giornale ad esempio possiamo però avere la possibilità di leggere anche quei quotidiani che, sebbene con fatica (e infatti sono sempre meno) cercano di non perdere di vista che il dovere del giornalismo sarebbe, è, quello di informare, di raccontare le cose che accadono in modo corretto, preciso,  in maniera tale da poter consentire ai lettori (che poi saremmo noi cittadini che paghiamo) di formarsi delle opinioni il più possibile attinenti ai fatti, al modo in cui si fa politica, al pensiero dei politici circa tutto quello che la politica ha il dovere di regolare.

Scrivere, come hanno  fatto Il Giornale e Libero ieri che i PM e Il Fatto Quotidiano sono assassini in riferimento alla scomparsa del dottor D’Ambrosio non è solo una porcata ma un crimine, contro il quale tutta l’altra stampa, quella cosiddetta liberale (Repubblica, Unità, Stampa, Corriere) si sarebbe dovuta mettere di traverso anziché metterci il carico da undici. Il Giornale e Libero non sono nuovi a queste campagne denominate “macchina del fango”, si sono sempre distinti – nel senso peggiore – per aver diffamato chiunque fosse contrario e si sia opposto al progetto di distruzione etica, morale, democratica e civile voluta dal padrone di quello e molti (troppi) altri quotidiani, riviste, padrone di case editrici, tv private e, come se non bastasse avendo piazzato i suoi yesmen nella tv di stato (che nessuno ha rimosso, anzi il ministro Passera ha pensato di fargli un ulteriore regalo a proposito di frequenze televisive nel silenzio complice della presunta opposizione)  quando era presidente del consiglio ed è quindi in grado più di altri, più di tutti in questo paese, di orientare le opinioni comuni in tutti i modi che vuole. E nessuno, del Giornale né di Libero, ha mai pagato concretamente in sede civile e penale il modo mostruoso con cui credono di fare informazione.

Io difendo e difenderò sempre chi alle porcate e ai crimini, non solo intellettuali si oppone. L’ho sempre fatto anche in tempi meno sospetti di questo, quando ad esempio l’Unità metteva a disposizione dei suoi lettori un forum on line che un bel giorno venne chiuso dopo che i moderatori, sempre assenti quando c’era da dirimere risse che spesso oltrepassavano il limite della denuncia penale, operarono un “ban” collettivo che colpì, vado a memoria, una sessantina di utenti e ovviamente me compresa. Tutto questo perché sul forum di un giornale di sinistra qualcuno si era permesso di scrivere un post su papa Wojtyla considerato evidentemente irricevibile anche in un contesto come quello.

In quel periodo Marco Travaglio scriveva le sue dieci righe di “Bananas” proprio su l’Unità e spesso ci ritrovavamo a parlare di lui nel forum, anche allora, malgrado fosse meno presente di oggi era molto criticato, ed io mi ricordo che spesso scrivevo che sì, nessuno è incriticabile, cosa che penso anche oggi e anche a proposito di Travaglio ma che comunque andasse in qualche modo protetto e difeso perché era già allora una spanna sopra a molti suoi colleghi molto più famosi e conosciuti di lui.

Ed io continuo a pensare che un giornalista che si pone con lealtà va rispettato, e criticato sì ma SEMPRE  nel merito di quello che dice o scrive, cioè del suo lavoro, invece, e questo capita SOLO con Travaglio,  le critiche e i giudizi cui viene fatto oggetto sono di tutt’altro genere: “è antipatico, è di destra”, e queste sono le cose più banali che mi vengono in mente – perché spesso è davvero difficile poter confutare quello che scrive –  come se il dovere di un giornalista fosse quello di essere simpatico a tutti e di nascondere il suo orientamento politico invece di dare notizie.

Ora, evidentemente qualcuno da qualche parte deve avermi ascoltata quando, in altri periodi dicevo che un giornalista come lui anziché essere osteggiato e criticato sul piano personale si meritava la direzione di un quotidiano prestigioso: oggi infatti Travaglio – dopo varie vicissitudini fra cui l’esclusione da l’Unità voluta per lui, Antonio Padellaro e Furio Colombo dal pd, prima di quella più recente che ha riguardato Concita De Gregorio colpevole di non essersi allineata ai desiderata del partito, un giornale, Il Fatto Quotidiano, lo dirige davvero. Un giornale che non riceve finanziamenti pubblici e quindi si presume che possa agire davvero in libertà a beneficio e vantaggio dei suoi lettori/acquirenti. Soprattutto perché quel giornale ha fatto della lotta alle censure e della libertà di espressione le sue bandiere.

Quando però si parla di libertà di espressione bisogna includerci non solo la propria ma anche quella degli altri, e se un giornale che dispone anche di un’edizione on line mette i suoi articoli a disposizione dei lettori per poterli commentare, questa possibilità deve essere estesa a tutti, cosa che purtroppo Il Fatto Quotidiano non fa. I gestori di siti, dei blog, i responsabili delle versioni on line dei quotidiani hanno tutto il diritto di prendere gli opportuni provvedimenti tesi a contrastare chi crede di poter imbrattare ogni sede virtuale coi suoi delirii, apologie, diffamazioni, ingiurie e offese ma non hanno lo stesso diritto  di togliere la parola a chi invece di quelle sedi virtuali ne ha sempre fatto e ne fa buon uso, né tantomeno hanno quello di poter decidere chi – per diritto divino? può scrivere senza passare per le forche caudine di una  moderazione che doveva essere provvisoria e dalla quale gli utenti registrati dovrebbero essere esenti come da avviso e chi no, perché come dico sempre la censura è una cosa molto stupida e danneggia molto di più chi la applica  rispetto a chi suo malgrado, non avendo la possibilità di potersi sottrarre ai censori né ricevendo spiegazione alcuna, la deve subire.  

 A domande, poste sempre con la massima educazione mettendoci una faccia e un nome, si risponde.

Fino a qualche mese fa lo facevano, scusandosi, anche, prendendo a pretesto le solite questione ‘tecniche’.

Ora loro sono liberissimi di non sentirsi obbligati a rispondere ma così facendo non rendono onore alla coerenza con cui dicono di portare avanti le loro battaglie a favore della conoscenza dei fatti. Io per le questioni di principio mi faccio ammazzare piuttosto,  figuriamoci cosa me ne può fregare di sconosciuti maleducati.

Non è affatto una cosa di poco rilievo  un giornale che fa della massima espressione della libertà di espressione la sua bandiera metta in pratica la censura lui per primo. E non si tratta di censure a caso ma di esclusioni circoscritte a determinati utenti, sono mesi che si leggono lamentele, ma nessuno fa niente e nessuno pensa che sia il caso di dare delle spiegazioni sul perché ci siano utenti che possono e altri che NON possono pur non avendo mai mancato di rispetto a nessuno. I principi o si rispettano sempre o mai: il qualche volta non è previsto.

Insulto “Libero”

Silvio Berlusconi, da Verona: “non avevo nessuna mancanza di credibilità in Europa, era un’invenzione dei giornali italiani e di alcuni stranieri che hanno ripreso quelli italiani; con il mio passato da tycoon ero considerato il leader più autorevole agli incontri europei.”
[Eggià, ha ragione il tapino: quelli de l’Economist e del Financial Times prima di andare in stampa aspettavano sempre di leggere Repubblica o Il Fatto.]

Dal profilo facebook ufficiale dell’onorevole (…)  Berlusconi, roba di poco fa: l’ex tizio è in confusione.

Se la soluzione alla crisi consiste nel furto, la rapina, la sottrazione indebita, lo scippo, non serviva mica Monti, bastavano anche quelli di prima che almeno avevano già le physique du rôle adatto, ecco.

Da Libero (stavolta il quotidiano, ci deve essere proprio qualcosa nel nome, altrimenti non si spiega): “Togliete i libri alle donne e torneranno a fare figli”. [Dopo i monologhi della vagina, i soliloqui dei coglioni]

       E chissà se togliere i libri agli uomini, specialmente a quelli sul genere della testa di cazzo che ha scritto l’articolo su quel fogliaccio osceno, li aiuterebbe a fare qualcosa di più e meglio di come lo sanno fare: generalmente al minimo indispensabile. Sarei proprio curiosa di saperlo.
Il minus habens fa finta di ignorare che, se in Italia si fanno sempre meno figli non è perché ci sono donne che trascorrono il loro tempo oziando e
acculturandosi invece di stare davanti ai fornelli e spalancare le gambe come accadeva nel miglior regime fascista che questo paese ha conosciuto prima di quello di queste mezze cartucce che hanno rovinato un paese semplicemente ridicolizzandolo. Il patetico coglione razzista che riporta a modo suo, condividendolo, uno studio di un’università americana ignora che i figli costano, che mettere al mondo un figlio significa avere la sicurezza di fargli trovare tutto quello che gli servirà. Un dibattito no, non se lo merita chi “argomenta” in questo modo. Ma non si possono perdere di vista certe cose, e Libero è comunque un quotidiano finanziato coi soldi dei contribuenti, ha una tiratura di circa 162.000 copie a diffusione nazionale (con prevalenza dei lettori nel nord Italia) anche se la gran parte finisce nelle metropolitane o nelle stazioni completamente gratis perchè invenduta.
Ma intanto loro stampano e si fottono i soldi dello stato, cioè i nostri. In otto anni abbiamo dato a Libero 40 milioni di euro: chissà quante scuole, asili e strutture per la famiglia avrebbero potuto esserci oggi, invece di questo diffusore di lerciume immondo.
Questo è un periodo triste per la cultura, tutto quanto fa spettacolo e purtroppo, tendenza. Soprattutto le cose peggiori.  E questo è ancora un paese con una cultura maschilista prevalente e predominante, anche nelle giovani coppie si nasconde la supremazia dell’uomo, lo svilimento del lavoro e degli impegni femminili che esulano da quelli a cui ci hanno delegato secoli di subcultura. E purtroppo ci sono ancora troppe donne che pensano che la realizzazione femminile debba passare anche per la maternità, che una donna se non è anche madre sia meno donna. Niente di più falso, e dovrebbe essere inutile spiegare che ci sono donne che figli non ne fanno per scelta e che è sempre meglio non averli che essere pessime madri. La profonda ignoranza italiota, quella che poi si riassume benissimo in certi quotidiani, si rifiuta persino di guardare a quei paesi dove le donne sono considerate una risorsa, non semplici portatrici di uteri da fecondare. Donne che non devono scegliere SE avere dei figli oppure intraprendere una carriera qualsiasi perché lì c’è uno stato che offre strutture, sostegno e garanzie per poter fare entrambe le cose. Non c’è per fortuna il luogo comune che dei bambini se ne devono occupare soprattutto le mamme perché sono portate per natura. Gli uomini, i padri, collaborano in egual misura, ecco perché i figli continuano a nascere. E in quei paesi funziona tutto meglio, anche economicamente.
Questo articolo non offende noi donne, che ormai abbiamo imparato benissimo a difenderci ma è insultante principalmente per tutti quegli uomini, e sono per fortuna tanti, che sanno di essere qualcosa di più di un contenitore di seme da distribuire al solo scopo (ops…!) di fecondare uteri ansiosi di essere riempiti.

Dis_velamenti

Non c’è bisogno di firmare accordi precisi quando fra persone si instaurano rapporti di conoscenza – amicizia – confidenza. Una discreta conoscenza del genere umano, dovuta magari all’esperienza che si acquista con un’età  sempre più matura, dovrebbe far sì che si facciano sempre meno errori  quando, incontrando persone nuove si cerca di capire fra  chi merita fiducia e quelle  persone che, invece, è meglio lasciare lì dove le abbiamo trovate. 

Una delle cose più frequenti che tutti quelli che conoscono questo ambiente dicono è che la Rete favorisce il disvelamento delle persone, che qui sia più facile esprimersi rispetto a quanto lo sia nella vita di sempre fra persone che si conoscono, si guardano e si toccano. E’ assolutamente vero. Ci sono cose che non si saprebbero dire a voce nello stesso modo in cui si scrivono. Non basta avere le idee chiare, un patrimonio culturale sufficiente e sapere quello che si vuole dire, nel dialogo face to face subentrano altri fattori – soprattutto emotivi  – che possono rendere difficile dire tutto quello che si ha bisogno di tirar fuori da sé.

Quando scriviamo invece siamo soli con noi stessi e coi nostri pensieri, non ci dobbiamo preoccupare se  la nostra immagine può essere utile a dare forza alle nostre parole o se invece può essere proprio la causa della loro inutilità.

Ed è per questo che qui può capitare di confidare cose che mai penseremmo di dire con la stessa disinvoltura all’amico di sempre, al fratello o al compagno di una  vita per il semplice motivo che quello che vogliamo esprimere non necessita di un giudizio, di un parere ma si tratta semplicemente di qualcosa che dobbiamo estrapolare da dentro solo per sentirci meglio, più leggeri,  e l’abilità di chi scegliamo come interlocutore consiste proprio nella sua capacità di ascoltare senza giudicare e forse nemmeno  comprendere.

E quello che tutti auspicano, si aspetterebbero che accada è che quel dire, confidare cose che ad altri non si sarebbero mai dette è che restasse lì, dove lo abbiamo depositato con fiducia. Questa è la parte più difficile perché consiste nel rispetto di quel patto di fiducia implicito che due o più persone hanno stretto fra loro non firmando un contratto ma semplicemente  sulla base di affinità reciproche, somiglianza caratteriale e del piacere di condividere gli stessi valori e princìpi.

Tutto questo ovviamente non può avvenire senza quella maturità e senza l’intelligenza di chi capisce che una confidenza fatta in un momento di tristezza, delusione, in momenti nei quali tutto sembra essere contro di noi non può mai e per nessuna ragione essere usata contro chi si è fidato di noi al punto tale di considerarci degni del nostro sentire più intimo.

Ecco perché bisogna selezionare molto bene le persone prima di capire se siano in grado o meno di conservare con cura quello che abbiamo raccontato di noi, della nostra vita, di un nostro momento di debolezza. Io, questo l’ho sempre fatto stando bene attenta a chi dicevo cose e quali, e ricordo molto bene chi sono quelle persone alle quali ho detto cose di me che non avrei detto e non ho detto ad altri.

Ed ecco perché volevo dire che oggi che da molte di queste persone mi sono allontanata dopo aver capito che di quella umanità dimostrata ce ne fosse  in realtà molto meno o per niente, dopo aver visto che tante di quelle persone che in un certo senso hanno approfittato di me  pensando che bastassero due risatine  postate in un blog per ambire a traguardi che diversamente non avrebbero mai raggiunto,  che infatti non sono mai riuscite nell’impresa di raggiungere restando confinate nella loro mediocrità  e che oggi continuano a frequentare un ambiente dove più che in tanti altri lo schifo ha raggiunto livelli difficilmente prevedibili, di stare anche loro molto attente con chi parlano e di cosa, di stare attente a non farsi trascinare nei giochini pericolosi che qualcuno sta portando avanti ormai da troppo tempo. E il troppo, come dicono quelli bravi, storpia, sempre. E anche  che lo “scherzo” è bello ma solo se dura poco. 

Perché vedete? il tempo dello “scherzo” è davvero finito, e quando un giudice si trova a dover fare una constatazione di danni subìti da qualcuno non lo fa sulla base di una confidenza trasformata in  pettegolezzo ma l’unica considerazione che è chiamato a fare è se quel pettegolezzo ha assunto nel tempo e per come è stato utilizzato la dimensione di un reato che si chiama diffamazione.  E a quel giudice non interessa sapere troppe cose quando deve – appunto – giudicare chi è la parte lesa in una diatriba da risolvere.

E fino a prova contraria nella vicenda che riguarda me e il mio blog  sulla piattaforma cosiddetta libera, la prima vittima di quella che è stata una vera e propria  mattanza compiuta da chi invece sarebbe chiamato per ruolo e responsabilità a fare tutt’altre azioni tipo ripulire una cosiddetta community da gente subdola, quella che ha organizzato la vigliaccata più disgustosa e INFAME della storia di quella piattaforma, che senza un’adeguata copertura non si sarebbe mai potuta realizzare e della quale si sono accorti tutti meno chi doveva, sono io. Non bisogna nemmeno avere una laurea in Giurisprudenza per capirlo.

Gratuità fittizie

Ricomincia l’opera di seduzione con la distribuzione forsennata di stelle. Sono tanti gli utenti che in questi giorni stanno ricevendo la proposta di diventare “gold user”, così come è già accaduto in occasione dell’aggregazione con Facebook quando la gente scappava in massa perché non voleva, giustamente, subire un’imposizione, qualcosa di cui non si poteva nemmeno discutere ma solo accettare in virtù di quella gratuità fittizia di cui parlo qui sotto.  A chi mi ha chiesto consiglio ho risposto di rifiutare. Ci sono altri modi per convincere la gente (anche quella che sta scappando di nuovo a causa dei fatti recenti )  a rimanere, ad esempio, non cacciandola in malo modo, non cacciando e censurando  chi si macchia della colpa orribile di esprimere  solidarietà di fronte ad un’ingiustizia subita oppure semplicemente  trattarla come merita e non come, invece, viene trattata da chi è chiamato a far sì che si faccia “un uso civile di uno spazio pubblico”. A chiacchiere, ma non nei fatti.

L’accusa che viene rivolta molto spesso agli utenti delle piattaforme che ospitano spazi come i blog quando si viene cacciati (senz’avviso e senz’appello) è che quello spazio che viene offerto è gratuito e che quindi chi amministra il portale può arrogarsi il diritto di sospendere la “collaborazione reciproca” quando e come vuole.
Niente di più falso, quella è una trappola intimidatoria nella quale cadono i deboli, le persone che hanno paura che quello spazio possa venir loro sottratto da un momento all’altro e senza ragioni serie (succede, eh?) e allora si convincono che tutto sommato valga la pena abbassare la testa e continuare a fare il gioco di chi non mette a disposizione uno spazio per dare la possibilità alla libertà di esprimersi ma esclusivamente perché chi riempie quello spazio riempie, di conseguenza, anche i conti in banca dei signori e padroni di spazi virtuali.
Perché, come spiega benissimo Massimiliano Dona che di mestiere fa il segretario generale dell’Unione Nazionale Consumatori e quindi di leggi e regole se ne intende forse di più di chi ha come unico punto di riferimento delle discutibilissime faq di una piattaforma: “la libertà sulla quale poggia Internet è anche artificiosa, potremmo parlare di «libertà virtuale». A ben vedere, infatti, la Rete, e tutto ciò che su di essa accade, è controllato e condizionato da pochi grandi potentati spesso facenti capo a gruppi economici, collegati a volte da intese commerciali. Questi soggetti imprenditoriali decidono ciò che ciascuno di noi può o non può fare sulla Rete; spesso, in nome di una gratuità fittizia, si appropriano dei nostri dati, dei nostri gusti, delle nostre idee, consentendoci di divulgare le nostre opinioni, ma solo fino a quando lo vorranno. Sul web nessun contraddittorio è dato all’utente, le decisioni sono inappellabili come neppure nel più autoritario dei regimi. Spesso dietro la maschera dell’esigenza tecnologica, dell’automatismo che consegue a un impulso informatico, si nasconde l’arida prepotenza del più forte.”

Perché la Legge, quella vera, dice altro. Dice ad esempio che non si possono sottrarre materiali privati, personali se non in presenza di motivi gravissimi e che per chiudere uno spazio personale ci vuole qualcosa di più di un vaffanculo o di una testa di cazzo. Un blog può venire chiuso d’autorità quando si veicolano e si diffondono apologie, quando i suoi contenuti sono di carattere pedopornografico, quando in quel blog si istiga a violenze di vario genere.
Quando, insomma, in uno spazio personale ma che è però di pubblico dominio perché visibile e leggibile da tutti si commettono dei reati che sono puniti nello stesso modo in cui si sanzionano quelli compiuti da persone fisiche.
Anche la diffamazione è un reato, forse nella piattaforma cosiddetta libera questo non lo sanno visto che continuano ad ospitare chi commette quel reato tutti i giorni senza per questo veder sparire degli spazi aperti unicamente per quello scopo. Ma chi di Legge se ne intende questo lo sa, lo ha visto e poi lo giudicherà.