Le grandi mazzette

Expo, Mose, a quando una bella retata anche per il Tav? Così almeno capiscono tutti, si spera in modo definitivo, che le grandi opere italiane servono soltanto a far ingrassare i grandi delinquenti di tutti i colori politici. Va bene che l’onestà non è più e da tempo la “condicio sine qua non” per fare politica, ad occhio però pare che qualcuno se ne sia approfittato oltremodo.   Il dramma è che ancora ci illudiamo che si possa fare una qualche differenza. Stiamo sempre ad insistere e a convincerci che no, non sono tutti uguali, ma la diversità purtroppo non la fa il nome.

La verità è che la politica dovrebbe stare lontana anni luce dai soldi di tutti.
Io non sono più garantista verso la politica, spiacente, ho terminato i bonus.
Noi gente un motivo per fare schifo lo abbiamo sempre, tutti dicono sempre che la colpa è nostra, di tutti, nessun distinguo così come si fa puntualmente per i politici: loro non sono tutti uguali ma noi sì.
E se quel motivo non c’è lo si inventa, ipotizza, un po’ come nella barzelletta del cinese che quando rientra la sera a casa picchia la moglie che sicuramente qualcosa per meritare la punizione l’ha fatta.
Ma va tutto bene. Dio salvi le regine e pure i re.

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L’INCHIESTA SUL MOSE: 35 ARRESTI, 100 INDAGATI, 40 MILIONI SEQUESTRATI
LE CARTE/1 – DOMICILIARI PER IL SINDACO DI VENEZIA ORSONI. “500MILA EURO PER LE ELEZIONI”
LE CARTE/2 – RICHIESTA DI CUSTODIA PER GALAN: ‘PER LUI UNO ‘STIPENDIO’ DI UN MILIONE ALL’ANNO’

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Ci dicono che i politici che rubano sono poche mele marce, la stessa cosa ce la raccontano a proposito delle forze dell’ordine violente. 
Non sono tutti ma sono tanti,  corruzione, ladrocini, anzi  “distrazioni”, come si dice ai piani alti e violenze si sono ripetuti con una cadenza pericolosamente frequente.
Digitando su google le parole pestaggio e polizia esce fuori un intero mercato di mele marce. 
Per conoscere il peso e la quantità delle mele marce in politica invece basta leggere i quotidiani tutti i giorni.
In entrambi i casi quelle mele non smetteranno di marcire finché non verrà curata la pianta, non verrà usato l’opportuno veleno che si chiama legge, giustizia, certezza della pena, lo stesso trattamento che si riserva al criminale quando è solo un cittadino. 
Ma finché il politico ladro sarà considerato come uno che non ha rubato e al poliziotto, al carabiniere violento si lascerà la divisa addosso come a chi violento non è, quegli alberi non guariranno. 
Chi tradisce lo stato, da politico o da funzionario va radiato, dal parlamento come da una caserma, da una questura, messo in condizioni di non nuocere e non tradire più.

Fassino, quello che “aveva una banca?” che garantisce per Orsoni, il sindaco di Venezia arrestato ma prontamente spedito ai domiciliari – ché non sia mai le eccellenze possano constatare “de visu” quali sono le condizioni delle carceri in Italia, per loro l’arresto è una semplice toccata e fuga da parte dello stato – è lo specchio della malattia endemica e virale di questo paese dove nella politica non si è delinquenti mai: nemmeno con le prove. berlusconi è la prova provata di uno stato che in materia di applicazione di legalità, giustizia e uguaglianza ha fallito, ceduto le armi democratiche alla disonestà e alla delinquenza nelle istituzioni.

Per tutte le altre categorie, invece, non ci sono Fassini garanti pronti a sputtanarsi per il collega che viene beccato a fare quello che non si fa.

Ed è anche la prova che quella casta che doveva modificare il suo assetto, mettersi al servizio del paese, abbassare la testa come da richieste napolitane di un paio d’anni fa non ci pensa minimamente a farlo. Da quando Napolitano sprecò un 25 aprile per illuminarci sui pericoli del populismo anziché riflettere sui motivi che hanno eroso e corroso fino ad annullarlo l’interesse dei cittadini per la politica. Come se il voltafaccia della gente fosse il frutto, il risultato di piccoli sgarbi e non di una politica che da quando esiste questa repubblica ha sempre messo l’interesse personale davanti a quello pubblico.

Inutile spiegare che se Renzi “non c’entra” è comunque la faccia di un partito che non può vantarsi di essere migliore di altri, e quando si entra a far parte di un’organizzazione così malconcia se non si è responsabili in prima persona delle malefatte avvenute prima un po’ complici lo si è.

Il pd è sempre quello delle larghe intese con Alfano [ancora e incredibilmente ministro dell’interno] che ieri si congratulava con la correttezza della procura di Venezia perché “gli arresti sono avvenuti dopo le elezioni”, verrebbe da chiedersi se anche gli elettori sono d’accordo con Alfano, se gli è andato bene votare “a babbo morto” un partito che ha dimostrato ampiamente di essere tal quale a quello che ha sempre fatto finta di ostacolare in parlamento, Renzi è quello che discute di legge elettorale e di riforme costituzionali con Verdini, indagato, inquisito varie volte sempre per gli stessi reati legati a truffe e corruzione e Renzi è sempre quello della profonda sintonia con un criminale, il magnifico rassemblement benedetto dall’anziano monitore che poi si commuove nelle occasioni importanti.

La Moretti, una delle vestali giovani del pd di Renzi che ieri sera dalla Gruber magnificava l’avventura di questa classe politica nuova è la stessa che un paio di giorni prima delle elezioni diceva che si potevano votare tutti, “anche Ncd e forza Italia ma non i 5stelle”.

Nardella, neo sindaco di Firenze mette già le mani avanti dicendo che “i sindaci sono persone sempre esposte”, come se l’esposizione dovesse comprendere per forza anche i legami con la criminalità e il malaffare. Non si può fare il sindaco di una grande città senza esimersi, evidentemente.

A margine di tutto c’è una grande percentuale di cittadini/elettori a cui le vicende di corruzione e tangenti non interessano. Il pd ha preso il 40,8% alle elezioni europee nonostante lo scandalo e gli arresti di Milano, l’arresto del ras di Messina Francantonio Genovese, cose accadute non un anno o dieci fa ma solo qualche giorno prima di votare, e l’IPSOS ci ha fatto sapere che il governo di Renzi gode del 68% dei consensi fra la gente.

Raffaele Fitto, ex presidente di regione in Puglia ed ex ministro di berlusconi, dunque condannato in primo grado a quattro anni ridotti ad uno grazie all’indulto per corruzione, finanziamento illecito ai partiti e abuso d’ufficio è stato l’eletto più preferito dagli italiani.

Tutto questo perché a margine del margine c’è stato il grande lavoro della cosiddetta informazione che, mentre glorificava gli splendidi scenari che si sarebbero aperti col governo di Renzi parlava d’altro, cosa che continua a fare, che ha sempre fatto da quando salvo rare eccezioni ha scelto di mettersi al servizio della politica, quale essa sia, dei governi, anziché svolgere quella funzione educativa e pedagogica qual è quella di informare correttamente i cittadini su cosa fa realmente la politica e come si comportano i politici.

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Idea, non punire più i delinquenti: lo dice la legge  – Beatrice Borromeo, Il Fatto Quotidiano

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#mazzettastaiSerenissima – Marco Travaglio, 5 giugno

Se esistesse ancora un minimo di decenza, milioni di persone perbene – elettori, giornalisti, intellettuali, eventuali politici e imprenditori – dovrebbero leggersi l’ordinanza dei giudici di Venezia sul caso Mose e poi chiedere umilmente scusa a Beppe Grillo e ai suoi ragazzi. Anni e anni sprecati ad analizzare il suo linguaggio, a spaccare in quattro ogni sua battuta, a deplorare il suo populismo, autoritarismo, giustizialismo, a domandarsi se fosse di destra o di centro o di sinistra, a indignarsi per le sue parolacce, a scandalizzarsi per le sue espulsioni, ad argomentare sui boccoli di Casaleggio e sul colore del suo trench, a irridere le gaffes dei suoi parlamentari, a denunciare l’alleanza con l’improbabile Farage (l’abbiamo fatto anche noi, ed era giusto farlo, ma in un paese normale: dunque non in Italia). Intanto destra, sinistra e centro – quelli che parlano forbito e non hanno i boccoli – rubavano. Rubavano e rubano tutti, e insieme, sempre, regolarmente, scientificamente, indefessamente, su ogni grande e piccola opera, grande e piccolo evento, appalto, consulenza, incarico.

Anzi, ogni grande e piccola opera, grande e piccolo evento, appalto, consulenza, incarico servono soltanto a far girare soldi per poterli rubare. Tutti i più vieti luoghi comuni del qualunquismo bar – sono tutti d’accordo, è tutto un magnamagna – diventano esercizi di minimalismo davanti alla Cloaca Massima che si spalanca non appena si intercetta un telefono, si pedina un vip, si interroga un imprenditore. Basta sollevare un sasso a caso per veder fuggire sorci, pantegane, blatte e bacherozzi maleodoranti con i nostri soldi in bocca, o in pancia (il Mose doveva costare 2 miliardi, ne costerà 6 e ora sappiamo perché). La Grande Razzia che ha divorato l’Italia e continua a ingoiarsene le ultime spoglie superstiti è sopravvissuta a Mani Pulite, agli scandali degli ultimi vent’anni e alla crisi finanziaria, nutrendosi dell’impunità legalizzata, dell’illegalità sdoganata e dell’ipocrisia politichese di chi vorrebbe ancora convincerci che esistono i partiti, le idee, i valori della destra, del centro e della sinistra. 

   Invece esiste soltanto una gigantesca, trasversale, post-ideologica associazione per delinquere che si avventa famelica su ogni occasione per rubare, grassare e ingrassare a spese di quei pochi fessi che ancora si ostinano a pagare le tasse. A ogni scandalo ci raccontano la favola delle mele marce, la frottola della lotta alla corruzione, l’annuncio di regole più severe, la promessa del rinnovamento, della rottamazione. E intanto continuano a rubare, secondo un sistema oliato e collaudato di larghe intese del furto che precede e spiega le larghe intese di governo. E la totale mancanza di opposizione a sinistra negli anni del berlusconismo rampante e rubante. Anche l’art.27 della Costituzione, quello della presunzione di non colpevolezza, diventa una barzelletta se si leggono le carte delle indagini su Expo e sul Mose, dove i protagonisti delinquono in diretta telefonica, o a favore di telecamera: non c’è bisogno della Cassazione, e nemmeno della sentenza di primo grado, per capire che rubavano davvero. Politici, imprenditori, funzionari, generali della Finanza, giudici amministrativi e contabili. Il solito presepe di sempre, che avvera un’altra celebre battuta da bar: a certi livelli “non esistono innocenti, solo colpevoli non ancora presi”. Renzi non ruba, e i suoi fedelissimi sono lì da troppo poco tempo. Ma rischia di diventare il belletto per mascherare un partito marcio con cui – per prenderne il controllo – ha accettato troppi compromessi. Marcio nella testa prim’ancora che nelle tasche. Ieri, senz’aver letto un rigo dell’ordinanza, l’ineffabile Piero Fassino già giurava sulla leggendaria probità del sindaco Orsoni appena arrestato (“chi lo conosce non può dubitare della sua onestà e correttezza”), invitando i giudici ad appurarne al più presto l’innocenza per “consentirgli di tornare alla funzione di sindaco”. Perché, se ne appurassero la colpevolezza cosa cambierebbe? Fassino lo promuoverebbe a suo braccio destro, come ha fatto con Quagliotti pregiudicato per tangenti?

O il Pd gli restituirebbe la tessera, come ha fatto con Greganti pregiudicato per tangenti? La Cloaca Massima è così pervasiva che ogni strumento ordinario per combatterla diventa favoreggiamento. Ma davvero Renzi pensa di affrontarla con il povero Cantone e la sua “task force” di 25 (diconsi 25) collaboratori? O con qualche presunta riforma? A mali estremi, estremi rimedi: cancellare le grandi opere inutili ancora in fase embrionale, dal Tav Torino-Lione al Terzo Valico; cacciare ogni inquisito dai governi locali e nazionali; radiare dai contratti pubblici tutte le imprese coinvolte in storie di tangenti; introdurre gli agenti provocatori per saggiare la correttezza dei pubblici amministratori (come negli Usa); imporre a chi vuole concorrere ad appalti una dichiarazione in cui accettano di essere intercettati, a prescindere da ipotesi di reato (come fece Rudy Giuliani sindaco di New York); piantarla con le “svuotacarceri” (l’ultima è a pag. 7), costruire nuovi penitenziari e, nell’attesa, riattare caserme dismesse per ospitare i delinquenti che devono stare dentro; radere al suolo tutte le leggi contro la giustizia targate destra, centro e sinistra degli ultimi 20 anni. Tutto il resto non è inutile: è complice.

 

Un paese a sua insaputa

Sottotitolo: Vorrei solo ricordare a tutti quelli che “la repubblica va celebrata anche – anzi soprattutto – nei momenti di difficoltà”, secondo l’autorevole opinione del Monitore della Repubblica,  che la polemica sull’inutilità offensiva di festeggiare il 2 giugno con una parata MILITARE non è nata ieri né ieri l’altro ma si ripete puntualmente da svariati anni.
E allora se io dico che il pistacchio non mi piace ma poi qualcuno insiste nel propormi il pistacchio nel gelato le cose sono due: o quando parlo non mi sta a sentire oppure non gliene frega nulla di continuare a reiterare un torto nei miei confronti.
A me il pistacchio non piace, e non me lo farei piacere nemmeno se venisse Johnny Depp in persona a dirmi che posso, devo  mangiarlo perché piace a lui che, a differenza di Napolitano piace molto a me.

Ho sempre avuto disgusto per i nazionalisti. Nazionalismo non vuole dire ideale, vuol dire difesa delle peggiori espressioni della nazione: il clientelismo di stato, la difesa dei burocrati e dell’apparato. Dunque del cosiddetto status quo. Quello che ci ha allegramente condotti nel baratro.
 Non sopporto, trovo di un’estrema disonestà che si chieda ad un popolo di “fare” stato, paese, solo in presenza di tragedie e difficoltà ma poi quando quel popolo chiede allo stato quello che gli spetta viene ignorato.
E’ troppo comodo dire agli italiani: “la parata si farà anche se voi non la volevate [e indipendentemente dall’uso che si potrebbe fare di quei soldi: in questo paese c’è davvero l’imbarazzo della scelta]  ma per ovviare all’emergenza del terremoto vi aumentiamo [per il momento, ché mica finisce qui] di nuovo la benzina”.
Ennò, perché qui non c’è proprio niente di statale né tantomeno niente di democratico, c’è piuttosto qualcosa che riporta vagamente a quei bei regimi dove c’è uno che comanda e tutti che subiscono decisioni da cui non possono sottrarsi.
E così non funziona, non può funzionare, ma questo lo sapete pure voi, carissimi [non foss’altro che per quanto ci costate], politici e tecnici.

E lo sa anche Napolitano, estremo difensore di una pagliacciata di cui nessuno sentirebbe la mancanza.


Finanza, via il colonnello Rapetto

Sua la supermulta ai videopoker

Polemico addio su Twitter del colonnello che ha inflitto 98 miliardi di multa alle concessionarie del gioco d’azzardo di Stato. Sue anche le principali inchieste delle Fiamme gialle sul cyber crime. “Cancellati 37 anni di sacrifici, momento difficile e indesiderato”

Per quel che può valere, tutta la mia solidarietà al Colonnello Rapetto, il cui caso ricorda molto quello di Gioacchino Genchi, esperto di intercettazioni  cacciato dalla polizia di stato quando, collaborando con  De Magistris toccò – inevitabilmente –  perché dove ci sono porcherie c’è sempre l'”eccellenza” di mezzo, quei  personaggi cosiddetti  illustri, dunque intoccabili, che poi non erano (sono) altro che la solita feccia che siede in parlamento.

 Il Colonnello si è evidentemente dimesso a sua insaputa.
Ma chi ha fatto in modo che lo facesse sapeva benissimo perché non doveva o poteva più rimanere al suo posto.
Essì,  è proprio una repubblica da festeggiare questa: con tanto di parata.
E chissà di chi sarà stata la mente brillante che dai piani alti delle istituzioni ha pensato che un funzionario che faceva davvero il suo dovere dovesse essere messo in condizioni di doversene andare.
I migliori si cacciano, o se ne vanno di loro “spontanea volontà”, per tutti gli altri c’è sempre un posto da sottosegretario alla sicurezza della repubblica italiana.
Ma probabilmente è giusto così, è giusto che a rappresentare l’Italia sia l’ambiguità  fatta persona (e più persone).
Se qualcuno avesse ancora dei dubbi sulla lotta all’evasione di questo governo farebbe bene a toglierseli. E’ evidente che ci sono ambiti che non si devono disturbare. 98 miliardi,  l’equivalente di quattro o cinque finanziarie,  a questo stato hanno fatto schifo, molto meglio lasciare che la GdF vada a controllare chi non fa gli scontrini del caffè, e, una tantum, qualche blitz sulle vie dello shopping o nelle località di vacanza; attività meno rischiose, per le quali il posto non lo rischia nessuno e sicuramente più redditizie dal punto di vista mediatico.
Chi pensava che, via berlusconi tolto il dolore, sarà rimasto molto deluso.
Speriamo.

Naturalmente Giorgino tace,  nessun conato di monito per questo: sarà occupato a scegliere il vestito per la festa.

 Un paese a sua insaputa, Marco Travaglio, 31 maggio

Perché un terremoto del quinto-sesto grado Richter, così come un paio di giorni di pioggia, fa strage solo in Italia (oltre, si capisce, al resto del Terzo mondo)? La risposta l’ha data a sua insaputa il neopresidente di Confindustria Giorgio Squinzi, quando ha detto che i capannoni industriali sbriciolati dalle scosse del 20 e del 29 maggio erano “costruiti a regola d’arte”. La questione, il vero spread che separa l’Italia dal mondo normale, è tutto qui: nel concetto italiota di “regola d’arte”.
La nostra regola d’arte è quella che indusse la ThyssenKrupp a non ammodernare l’impianto antincendio nella fabbrica di Torino perché, di lì a un anno, l’attività sarebbe stata trasferita a Terni. Risultato: sette operai bruciati vivi.
Mai la ThyssenKrupp si sarebbe permessa di risparmiare sulla sicurezza nei suoi stabilimenti in Germania, dove le tutele dei lavoratori sono all’avanguardia nel mondo. In Italia invece si può. Perché? Perché nessuno controlla o perché il controllore è corrotto dai controllati. Oltre all’avidità dei singoli, purtroppo ineliminabile dalla natura umana, il comune denominatore di tutti gli scandali e quasi tutte le tragedie d’Italia è questo, tutt’altro che ineluttabile: niente controlli. Salvo quelli della magistratura, che però arriva necessariamente dopo: a funerali avvenuti. Dal naufragio della Costa Concordia al crollo della casa dello studente a L’Aquila, dalle varie Calciopoli ai saccheggi miliardari della sanità pugliese, siciliana e lombarda, dal crac San Raffaele ai furti con scasso dei Lusi e dei Belsito, dalle cricche delle grandi opere e della Protezione civile alle scalate bancarie, dalla spoliazione di Finmeccanica alle ruberie del caso Penati, giù giù fino alle casse svuotate di Bpm e Mps, alle piaghe ataviche dell’evasione, degli sprechi, delle mafie e della corruzione, quel che emerge è un paese allergico ai controlli. Che, se ci fossero, salverebbero tante vite e tanto denaro, pubblico e privato. Ma la nostra regola d’arte è quella di allargare ogni volta le braccia dinanzi alla “tragica fatalità” o alle “mele marce”, per dare un senso di inevitabilità a quel che evitabilissimamente accade. Mancano i controlli a monte perché tutti si affidano alle sentenze a valle. E poi, quando arrivano le sentenze a valle, non valgono neppure quelle. Formigoni, mantenuto dagli amici faccendieri Daccò e Simone che hanno scippato 70 milioni alla fondazione Maugeri, ente privato ma farcito di fondi pubblici dalla Regione di Formigoni, non si dimette perché “non sono indagato”. E perché, anche se lo fosse cambierebbe qualcosa? Qui non tolgono il disturbo né gli indagati, né i rinviati a giudizio, né i condannati. La giustizia sportiva ha definitivamente condannato e radiato Moggi dal mondo del calcio per i suoi illeciti sportivi, revocando alla sua Juventus due scudetti vinti con la frode, poi lo stesso Moggi è stato pure condannato dalla giustizia penale (a Roma in appello e a Napoli in tribunale). Eppure il presidente Andrea Agnelli seguita a elogiarlo come “grande manager” e rivendicare i due scudetti vinti col trucco. E ora difende Conte, “solo indagato”. Perché, se fosse condannato come Moggi cambierebbe qualcosa? Battista sul Corriere minimizza il calcioscommesse: “Un pugno di partite sporcate… se qualcuno imbroglia, non sono tutti imbroglioni”, “non è vero che così fan tutti”, ergo bisogna “essere severi con chi ha violato un codice penale e un codice morale, ma non dissolvere le differenze”.
Bene bravo bis. Peccato che il 7 maggio, quando la Juve ha vinto il 28° scudetto, Battista abbia scritto che è il 30° (“tre stelle, meritate e vinte sul campo, cucite sulla maglia”) e chissenefrega delle sentenze (“nessuno ha mai pensato che una storia gloriosa fosse una storia criminale”), frutto di “processi sommari” perché c’entrava anche l’Inter. Dunque così fan tutti. Ricapitolando: niente controlli prima, niente sentenze dopo.
È il Paese dell’Insaputa.
Arrivederci al prossimo funerale.

È qui la festa?

 

 

Sottotitolo: “Lo scoccare della prescrizione è determinato da una legge ad personam, la ‘ex Cirielli’ approvata nel 2005 dalla maggioranza berlusconiana. Il reato di corruzione in atti giudiziari, infatti, si prescriveva in 15 anni, scesi a dieci dopo l’approvazione di quella norma”.

«La prescrizione è sempre espressamente rinunciabile dall’imputato».
L’articolo 157 del codice penale non lascia dubbi: alla prescrizione si può rinunciare se davvero ci si vuol far processare alla ricerca di una assoluzione piena.
Quindi quando non si rinuncia, c’è più di una presunzione di colpevolezza.
La prescrizione è la scappatoia di chi sa di essere colpevole.
Chi invece sa di essere innocente la rifiuta e va avanti in tutti i successivi gradi di giudizio.
Questa è la sesta prescrizione di cui si è avvalso B.
Quante volte ci ha rinunciato? MAI

Marco Travaglio – Il Fatto Quotidiano, 26 febbraio

Solo un delinquente incallito, i suoi avvocati e i
suoi complici potrebbero festeggiare una
sentenza come quella emessa ieri dal Tribunale
di Milano. Una sentenza che, tradotta in
italiano, dice così: la prescrizione è scattata dieci
giorni fa, grazie all’ultima disperata mossa
perditempo degli on. avv. Ghedini e Longo (la
ricusazione dei giudici), dunque non possiamo
condannare B.; ma lo sappiamo tutti, visto che l’ha
già stabilito la Cassazione, che nel 1999 l’av vo c a t o
Mills fu corrotto dalla Fininvest con 600 mila dollari
nell’interesse di B., in cambio delle due false
testimonianze con cui – come aveva lui stesso
confidato al suo commercialista – l’aveva “salvato da
un mare di guai”. Cioè gli aveva risparmiato la
condanna per le tangenti Fininvest alla Guardia di
Finanza. Condanna che avrebbe fatto di B. un
pregiudicato già nel 2001, con devastanti effetti a
catena: niente più attenuanti generiche negli altri
processi, dunque niente prescrizione dimezzata,
ergo una raffica di condanne che oggi farebbero di lui
non un candidato al Quirinale, ma un detenuto o un
latitante. E se, al netto della falsa testimonianza
prezzolata di Mills sulle tangenti alla Gdf, B. sarebbe
stato condannato in quel processo, al netto della
legge ex Cirielli sarebbe stato condannato anche ieri
per avere corrotto Mills. Così come Mills sarebbe
stato condannato due anni fa per essere stato
corrotto da B. (invece si salvò anche lui grazie alla
prescrizione, scattata due mesi prima). Quando
infatti fu commesso il reato, nel 1999, la prescrizione
per la corruzione giudiziaria scattava dopo 15 anni:
dunque il reato si estingueva nel 2014. Ma nel 2005,
appena scoprì che la Procura di Milano l’ave va
beccato, B. impose la legge ex Cirielli, che tagliava la
prescrizione da 15 a 10 anni. Così il reato si
estingueva nel 2009. Per questo la Cassazione, nel
febbraio 2010, ha dovuto dichiarare prescritto il
reato a carico del corrotto Mills (pur condannandolo
a risarcire lo Stato italiano). E per questo ieri il
Tribunale ha dovuto fare altrettanto col corruttore B.
Fra il calcolo della prescrizione proposto dal pm
Fabio de Pasquale e quello suggerito da Ghedini e
Longo, il Tribunale ha scelto quello degli avvocati: la
miglior prova, l’ennesima, che il Tribunale di Milano
non è infestato di assatanate toghe rosse. Anzi, visti i
precedenti, se i giudici hanno un pregiudizio, è a
favore di B. Il quale, per la sesta volta, incassa una
prescrizione a Milano: le altre cinque accertarono
che comprò Craxi con 23 miliardi di lire, comprò un
giudice per fregarsi la Mondadori e taroccò tre volte i
bilanci del gruppo per nascondere giganteschi fondi
neri usati per comprare tutto e tutti. Ora càpita di
ascoltare Angelino Jolie, avvocato ripetente, che
delira di “folle corsa del pm” (dopo 8 anni di
processo!); l’incappucciato Cicchitto che vaneggia di
“assoluzione”; e l’imputato impunito che si
rammarica (“preferivo l’assoluzione”), ma s’è ben
guardato dal rinunciare alla prescrizione per farsi
giudicare nel merito. Gasparri, poveretto, vorrebbe
cacciare De Pasquale perché ha cercato di non far
scattare la prescrizione. Ecco: per lui il compito dei
magistrati è assicurare la prescrizione a tutti. Se
l’ignoranza si vendesse a chili, sarebbe miliardario.