Peppino, l’Italia e la memoria violentata

Il casolare dove fu assassinato Peppino Impastato venga consegnato alla collettività: l’appello si può firmare su http://www.change.org/it

I tifosi del Torino durante il minuto di silenzio per la morte di Andreotti, alzano una foto di Falcone e Borsellino.

Scrivevo ieri sera nella mia bacheca di  facebook che a parte qualche sporadico flash nessun telegiornale di punta e nelle ore di punta ha ricordato ieri Peppino Impastato ammazzato dalla mafia trentacinque anni fa, il 9 maggio, lo stesso giorno del ritrovamento del cadavere di Aldo Moro, niente succede per caso, l’hanno ammazzato apposta il 9 maggio così tutti avrebbero parlato di Moro e non di lui. 

Anche questo fa parte del progetto Portella della Ginestra il cui marchio è stato depositato il 1 maggio del 1947.

Ecco come si uccide anche la memoria dopo le persone, in questo paese i morti di mafia e di stato si ricordano solo quando si vogliono insultare, per informazioni chiedere alle famiglie Giuliani, Cucchi e Aldrovandi, per non parlare di quanto sono stati e sono ancora insultati i Magistrati antimafia ammazzati dalla mafia dopo essere stati abbandonati da quello stato che avrebbe dovuto proteggerli, sostenerli, difenderli.
Ecco perché tocca a noi ricordare, senza nulla togliere alla statura morale e politica di Moro [i politici che non valgono niente non li ammazza nessuno: al massimo li nominano nelle commissioni, li fanno ministri, se poi valgono meno di niente possono addirittura aspirare alla presidenza del consiglio: il riferimento non è solo al noto delinquente ma anche ai suoi eredi, figliocci, o per meglio dire, nipoti]. 
Se questo fosse un paese normale, un ragazzo di trent’anni che ha speso tutta la sua giovane vita a combattere le ingiustizie, la criminalità, la mafia, e non lo faceva dalla tastiera di un computer ma in prima linea, mettendoci tutto se stesso e che per questo è stato ammazzato dovrebbe essere un punto di riferimento per le nuove generazioni, dovrebbe essere ricordato nelle scuole di ogni ordine e grado di tutta Italia, gli dovrebbero intitolare piazze e vie, mentre invece solo l’anno scorso il prete di una chiesa di Catania negò la commemorazione religiosa a Peppino con la motivazione che “i tempi non erano ancora maturi”, solo qualche giorno prima nella stessa chiesa lo stesso prete non negò la celebrazione di una messa dedicata a mussolini nell’anniversario della sua morte.
Ma per Napolitano il grande dramma di questo paese è la violenza verbale, questo sì, è veramente preoccupante.
Dire due parole nel merito di una sentenza che ha confermato la condanna al noto delinquente di cui sopra è invece disdicevole, anzi no, è divisivo.

“Napolitano è andato alla camera ardente di Andreotti e il presidente del Senato Grasso, fino all’altroieri procuratore anti-mafia, è andato al funerale. Il giorno prima era a quello di Agnese Borsellino, il giorno dopo a quello di Andreotti: prima il dovere poi il piacere. E ora qualcuno trattiene il fiato, perché Provenzano sta poco bene”.

 “I politici considerano Andreotti il loro santo protettore: ne ha combinate di tutti i colori, ma l’ha sempre fatta franca. Per loro è un portafortuna e un motivatore: se l’ha sfangata persino uno come lui, noi nanetti che -per quanto ci sforziamo- non riusciremo
mai a combinarne tante, siamo a cavallo. Perciò ripetono come un mantra che è stato assolto: la sua falsa assoluzione è anche la loro, per quel che han fatto e per quel che faranno. Ma, oltre alla statura dei politici, si dice che c’è anche un’altra differenza fra prima e seconda Repubblica: la perdita dell’ipocrisia…” [Marco Travaglio]

Gli interdetti
Marco Travaglio, 10 maggio

Mette sempre di buonumore leggere i giornali di B. all’indomani di una sentenza su B. Intanto perché denotano una preoccupante penuria lessicale, ai limiti dell’analfabetismo di ritorno (e anche di andata). Usano sempre le stesse 3 o 4 parole: persecuzione, politicizzazione, orologeria e — ultima new entry — pacificazione. Si domandano il perché di tanti processi a B., con la stessa impudenza con cui Riina si domanda il perché di tanti processi a Riina: l’idea che il numero dei processi di un imputato mai denunciato da nessuno derivi dalla sua capacità criminale non li sfiora proprio. E soprattutto abbandonano ogni barlume di logica: usano le sue presunte “assoluzioni” (quasi sempre prescrizioni del reato commesso o depenalizzazioni del delitto contestato) per dimostrare che B. è un perseguitato, senz’accorgersi che i perseguitati non vengono assolti; e che, dando credito alle sentenze che assolvono, si dà automaticamente credito anche a quelle che condannano. Un altro refrain è quello di inquadrare le sentenze nel clima politico del momento. Se B. viene condannato prima delle elezioni, è una manovra per fargliele perdere; se dopo aver vinto le elezioni, è una rappresaglia contro la vittoria; se dopo averle perse, è un complotto per fiaccare l’opposizione; se mentre va al governo col Pd, è un colpo mortale alla pacificazione del Paese. Qualunque sia la durata dal processo, è sempre troppo breve. Quello sui diritti Mediaset iniziò nel 2006: eppure il Giornale titola sulla “sentenza a tempo di record” e Libero sulla “sentenza lampo”: in effetti appena sette anni per due gradi di giudizio denotano una fretta sospetta. Ci vuole una riforma per rallentare un altro po’. Per Sallusti, “B. è l’unico capitano d’industria che per i giudici non poteva non sapere”. E il suo gemello con le mèches, su Libero , lamenta che in appello non siano stati risentiti tutti i testi e gli imputati (non sa, lo sventurato, che salvo casi eccezionali l’appello si fa sugli atti del primo grado) e che i giudici milanesi, dunque persecutori, hanno “scelto” di confermare i 5 anni di interdizione, ma “è lecito dubitare” che la “scelta” verrà confermata dalla Cassazione, che per fortuna “non è ancora a Milano”, dunque immune dal virus. Non sa, il poveretto, che per le condanne superiori ai 3 anni è obbligatoria e automatica l’interdizione di 5 anni, e per quelle sopra i 5 anni l’interdizione perpetua (art. 29 Cp). Lorsignori, poi, fingono di ignorare le carte del processo, da cui emerge che B. non è stato condannato perché non poteva non sapere, ma perché sapeva e faceva. Confalonieri “è fortemente plausibile che fosse a conoscenza della frode e, violando i suoi precisi doveri, nulla abbia fatto”, ma in mancanza di prove ulteriori è stato assolto. Su B. invece esistono — si legge nella prima sentenza, confermata l’altroieri — pesano “piene prove orali e documentali”. 
La testimonianza dell’ex Ad Fininvest Franco Tatò: “L’area dei diritti tv era assolutamente chiusa e impenetrabile, gestita da Bernasconi che dava conto direttamente a Berlusconi e non al Cda”. Quella dell’ex responsabile contratti Silvia Cavanna: “Bernasconi mi diceva ‘picchia giù con i prezzi’ solitamente dopo incontri ad Arcore con Berlusconi”. Una mail del contabile della Fox, Douglas Schwalbe: “Non si vuole che Reteitalia (Fininvest, ndr) faccia figurare utili… i profitti vengono trattenuti in Svizzera”, le reti tv “sono state ideate per perdere soldi… L’impero di Berlusconi funziona come un elaborato shell game con la finalità di evadere le tasse”. La lettera-confessione del produttore-prestanome Frank Agrama: “Ero loro rappresentante” (di Mediaset). Altre formidabili prove non sono disponibili solo perché — racconta la Cavanna — dopo le prime perquisizioni “furono fatti sparire 15 anni di carte in Lussemburgo, credo con camion”. 
In qualunque altro paese del mondo, uno così non farebbe le marce davanti ai tribunali. 
Ma al gabbio, nell’ora d’aria.

Giovanni Impastato, fratello di Peppino, denuncia: «Mi chiedo se sia un paese civile quello che ricopre con l’immondizia il sangue di mio fratello. È vergognoso, quel casolare è il luogo della memoria più importante della Sicilia che ha lottato contro la mafia. Mi chiedono di mettere almeno una targa, ma il tetto è rotto e il proprietario porta qui le mucche a pascolare. Qualche giorno fa mi sono recato sul posto insieme a una scolaresca di ragazzi del Nord, ma ho bloccato tutto perchè ho provato vergogna. Non dico di mettere il tappeto rosso, ma il sindaco potrebbe almeno vigilare sulla pulizia facendo leva sul proprietario».

«È una questione di dignità, noi qui abbiamo trovato il sangue di Peppino. Mi vado sempre più convincendo che la memoria di Peppino non interessa più a nessuno. Neanche a quelli che dicono di volerla difendere, fra le istituzioni e la cosiddetta società civile. La verità è che siamo stati abbandonati da tutti».

Firma questa petizione per aderire all’appello di Rete 100 passi.

http://www.change.org/it/petizioni/il-casolare-dove-fu-assassinato-peppino-impastato-venga-consegnato-alla-collettività-4?utm_campaign=autopublish&utm_medium=facebook&utm_source=share_petition

Commistioni

Sottotitolo: quando poche settimane fa è morta Margaret Thatcher nessun comitato sportivo ufficiale inglese  ha stabilito che si dovesse osservare il minuto di silenzio, è stato chiesto ai diretti interessati, ovvero ai tifosi, se fossero o meno d’accordo, alla loro risposta negativa il rifiuto è stato rispettato e non c’è stata nessuna commemorazione sui campi di calcio. 

Dunque hanno fatto benissimo all’Olimpico a fischiare il minuto di silenzio per Andreotti, visto che nessuno ha chiesto ai tifosi se fossero o meno d’accordo nell’osservarlo.
Inutile l’ipocrisia degli speakers che hanno parlato del momento di crisi della gente verso la politica. Quei fischi erano proprio e solo per il fu divo.

Se un ex procuratore antimafia promosso alla presidenza del senato va al funerale di un prescritto per mafia, in quale versione ci va: da ex procuratore antimafia, da presidente del senato, da conoscente dispiaciuto, da ipocrita così come c’è andata la maggior parte della gente che era presente ai funerali “in forma privata” di Andreotti o che altro?


E magari fra quindici giorni Grasso andrà anche a Palermo a fare il discorsetto di ordinanza a Capaci?
Ci sono cose che si devono fare e quelle che perfino un’istituzione può evitare di fare se vuole, se pensa che non siano opportune, la politica è fatta soprattutto di gesti simbolici, e malgrado l’avvocatessa Bongiorno ancora ieri parlava di un Andreotti “assoltissimo” così non è. 
E il presidente del senato, se ci teneva così tanto a non far mancare la sua presenza poteva benissimo limitarsi a mandare un telegramma di condoglianze suo personale, visto che non tutta l’Italia che adesso anche Grasso rappresenta è obbligata a commemorare Andreotti e a dispiacersi per la sua dipartita, invece di sedere in prima fila ai funerali del prescritto per mafia.

Andreotti non andò al funerale di mio padre. Preferiva i battesimi di Nando Dalla Chiesa – Il Fatto Quotidiano

Andreotti, Ambrosoli non commemora

Se l’è andata a cercare
Massimo Gramellini, La Stampa

Mentre il consiglio regionale della Lombardia rendeva omaggio al fantasma di Andreotti, il capo dell’opposizione Umberto Ambrosoli è uscito dall’aula. Suo padre, l’avvocato Giorgio, fu ammazzato sotto casa in una notte di luglio per ordine del banchiere andreottiano Sindona: aveva scoperto che costui era un riciclatore di denaro mafioso. Trent’anni dopo Andreotti commentò l’assassinio di Ambrosoli con queste parole: «Se l’è andata a cercare». 

Il perdono è una cosa seria. E’ fatto della stessa sostanza del dolore e si nutre di accettazione e di memoria, non di ipocrisie e rimozioni forzate. La morte livella, ma non cancella. Con buona pace del quotidiano dei vescovi che ieri titolava: «Ora Andreotti è solo luce». Per usare una parola alla moda, Andreotti era divisivo. Lo era da vivo e lo rimane da morto. Purtroppo anche Ambrosoli. Perché esistono due Italie, da sempre. E non è che una sia «buona» e l’altra «cattiva», una di destra e l’altra di sinistra (Giorgio Ambrosoli era un liberale monarchico). Semplicemente c’è un’Italia cinica e accomodante – più che immorale, amorale – che non vuole cambiare il mondo ma usarlo. E un’altra Italia giusta e severa – più che moralista, morale – che cerca di non lasciarsi cambiare e usare dal mondo. Due Italie destinate a non comprendersi mai. Un’esponente lombarda del partito di Berlusconi ha detto che il figlio di Ambrosoli ha mancato di rispetto al morto. Non ricorda, o forse non sa, che anche Andreotti aveva mancato di rispetto a un morto. Quell’uscita dall’aula se l’è andata a cercare.

QUANDO IL DIVO DISSE: “SE L’ANDAVA CERCANDO”

Il dottor Ambrosoli  ha fatto benissimo.  

Le cattive abitudini si correggono solo con azioni educative, con gesti esemplari, e quella di Ambrosoli lo è stata, così come è illuminante l’articolo di Nando Dalla Chiesa.

Oggi non sa solo chi non vuole sapere e nessuno è obbligato a dovere del rispetto ad una persona morta, se quel rispetto non ha saputo conquistarselo da viva.

Uno dei miei punti di riferimento  è una  donna nera che una sera, tornando dal lavoro, rifiutò di cedere il suo posto sull’autobus che a quei tempi era  riservato solo ai bianchi.

Con quel semplicissimo NO diede il via ad una rivoluzione  senza precedenti: il segno che bastano anche i piccoli gesti simbolici a cambiare le cose. 

Qui ci vorrebbero meno politici e più Rose Parks.

 E se sparissero finalmente tutti gl’ ipocriti, corrotti, conniventi con tutte le mafie, opportunisti, invece di essere infilati nelle commissioni preposte al controllo degli apparati dello stato sarebbe una grande conquista di civiltà per l’Italia.

“Ha una vaga idea la signora della storia di quegli anni? ci sono anche dei libri, s’informi, e si vergogni”.

Bravo Cacciari, quanno ce vo’ ce vo’.


Le lingue di Menelik
Marco Travaglio, 8 maggio

Nel 1889 l’ambasciatore italiano ad Addis Abeba siglò un trattato di amicizia con il negus Menelik, imperatore d’Etiopia, dopo la conquista dell’Eritrea. La firma avvenne nell’accampamento del Negus, a Uccialli. Ma ben presto i due paesi tornarono a litigare, perché il trattato diceva una cosa nella versione in lingua italiana e un’altra in quella in lingua amarica. Nella prima, l’Etiopia diventava un protettorato italiano e il Negus affidava la politica estera etiope al nostro governo. Nella seconda, il Negus poteva delegare la politica estera all’Italia quando voleva, e quando non gli conveniva poteva fare di testa sua. Una furbata all’italiana per consentire a entrambi i governi di presentarsi come vincitori agli occhi dei rispettivi popoli. Naturalmente la magliarata durò pochi mesi: poi Menelik, senz’avvertire Roma, strinse rapporti diplomatici con la Russia e la Francia. E riesplose la guerra. La storia ricorda quel che sta accadendo nel Pd: da quando, non bastandogli il suicidio sulla via del Colle, ha deciso di suicidarsi una seconda volta (impresa che può riuscire solo al Pd) sulla strada di Palazzo Chigi, non passa giorno senza che un dirigente del Pdl lo richiami ai “patti”: sui ministri, sui sottosegretari, sull’Imu, sulla giustizia, sui presidenti di commissione. E pare che quei patti ci siano, senza errori di traduzione. Nulla di strano: quando due partiti decidono di governare insieme, è normale che prendano accordi. Gli elettori del Pdl lo sanno e, se va bene a B., buona camicia a tutti. Viceversa gli elettori del Pd non devono saperlo: questa almeno è l’illusione dei dirigenti che da vent’anni li raggirano, estorcendogli i voti in nome dell’antiberlusconismo e poi usandoli per inciuciare con Berlusconi. Ora però, nel raggiro, c’è un salto di qualità. Due mesi fa la parola d’ordine era “mai con B.”. Un mese fa era “con B. solo per il Quirinale”. Due settimane fa era “con B. solo per un governo di scopo di pochi mesi: legge elettorale e si torna a votare”. Ora è “con B. per un governo di legislatura e la riforma della Costituzione”. Nel timore che domani si passi a “con B. per un partito unico guidato da B.”, la base si sta ribellando in tutt’Italia. Il che spiega perché il Pd resta senza segretario: così i dissidenti non sanno a chi tirare i pesci in faccia.
Ma quali siano i patti stipulati da Letta e B. nel famoso incontro clandestino con lo zio Gianni, l’hanno capito tutti. Il governo Letta — come l’Italia descritta da Corrado Guzzanti nei panni di Rutelli con la voce di Sordi — “non è né di destra né di sinistra: è di Berlusconi”. Lui l’ha voluto, lui ha scelto il Premier Nipote e i ministri che contano, lui decide il programma (anche perché il Pd ne ha diversi, cioè nessuno), lui detta i tempi, lui staccherà la spina quando gli farà comodo. Intanto le questioni che gli stanno a cuore, cioè la giustizia, la tv, le autorizzazioni a procedere e le ineleggibilità sono cosa sua. Dunque il sottosegretario alle Comunicazioni è Catricalà e il presidente della relativa commissione è Matteoli. Il presidente della giunta delle immunità è La Russa. Il presidente della commissione Giustizia sarà Nitto Palma o, se non passa, Ghedini. Il presidente della giunta delle elezioni sarà un leghista. Il tutto, beninteso, coi voti determinanti del Pd. Ora B. vorrebbe anche la Convenzione (“come da accordi”, dice lui), che comunque spetta di diritto al Pdl, visto che il centrosinistra col 29% dei voti ha occupato le prime quattro cariche dello Stato. Ma il Pd si oppone, come se tra B. e qualche suo servo ci fosse qualche differenza. Ragazzi, giù le maschere e via le lingue di Menelik: l’han capito tutti che vi siete messi d’accordo con B. Dategli pure ‘sta Convenzione e non se ne parli più. Dopo la faccia, evitate almeno di perdere tempo.

Ps. Complimenti all’ex procuratore nazionale antimafia Piero Grasso. L’altroieri era ai funerali di Agnese Borsellino, ieri a quelli di Giulio Andreotti.

Il divo Giulio

 Sottotitolo: alle spalle di Andreotti giganteggia la parola INNOCENTE sul maxischermo di Porta a porta nella famosa puntata successiva alla PRESCRIZIONE di Giulio Andreotti.
Prescrizione non vuol dire affatto assoluzione ma per bruno vespa questo fu un dettaglio ininfluente, la tv di stato, il servizio pubblico non ritenne opportuno spiegare agli italiani attraverso il suo – ahimé – programma di approfondimento politico [ari_ahimé] di spicco, non foss’altro perché si prende cinque sere a settimana da anni che Giulio Andreotti non fu assolto per innocenza ma prescritto in un processo per mafia. Che non è la stessa cosa.

Solo al pensiero di quello che dovremo leggere e sentire già mi sento male.
Santo, santo, lo faranno diventare.
Se l’hanno assolto da vivo figuriamoci che faranno adesso che è morto.

Morto a 94 anni Giulio Andreotti
Dagli incarichi di Stato ai misteri italiani

Preambolo:  Tenete il fiato, di Massimo Rocca per il Contropelo di Radio Capital

Avete presente la scena del Divo, quando Andreotti arriva alla giunta per le autorizzazioni a procedere? Nella realtà la folla delle telecamere e dei giornalisti era almeno il triplo, io quel 14 aprile del 93 ero lì in mezzo, nel meraviglioso cortile di Sant’Ivo alla Sapienza. Andreotti normalmente pallido era terreo, la bocca sottile non c’era più, più che gobbo era curvo. Fu come essere alla Concorde quando un condannato saliva alla ghigliottina. Lui aveva paura. Io ero molto ingenuo. Mi sembrò il culmine di quello che era iniziato un anno prima nel Pio Albergo Trivulzio, sedici giorni dopo avrei visto Craxi fuggire dal Raphael sotto una pioggia di monetine. Cadevano uno dopo l’altro i potenti, la magistratura diceva, trovava, provava, quello che avevamo sempre detto. Ci sembrava, in piccolo, la nostra Liberazione. Si respirava a pieni polmoni. Dimenticavo, brutto per uno storico di formazione, che in Italia si respira per poco, un paio d’anni ogni tanto. Tra il 59 e il 61 dell’ottocento, tra il 43 e il 45. Undici mesi dopo Berlusconi vinceva le elezioni.

E siamo sempre alle solite.
Alle squallide faccende di casa nostra che riguardano un’informazione viziata dalla malattia della menzogna a getto continuo.
Ecco perché poi quando qualche “folle visionario” col vizio della verità cerca di fare chiarezza viene accusato di gettare fango e di essere lui, il bugiardo.
Giulio Andreotti non è stato affatto uno statista apprezzabile e degno di una forma superiore di rispetto perché non ha fatto proprio niente di rilevante per dover passare alla storia come tale.
Ieri scrivevo sulla mia pagina di facebook che al di là di tutto, Andreotti si è fatto processare, Craxi ha preferito latitare ma nessuno dei due ha mandato un paese a carte quarantotto per i suoi guai con la giustizia.

Solo uno c’è riuscito, evidentemente perché più di qualcuno si è attivato per consentirlo.

Perché doveva andare così e deve ancora essere così.
E se berlusconi è più di Andreotti, più di Craxi e più di entrambi messi insieme questo paese è davvero in pericolo: non è una leggenda metropolitana e nemmeno qualcosa su cui si può ancora scherzare e farci su dell’ironia.

E quello che mi fa incazzare è che tutti e tre hanno la nomea di statisti, quelli morti perché rivisitati e ripuliti perbenino, quello vivo perché comunque ha la possibilità di tenere sotto scacco un paese per i fatti suoi ma tutti e tre non avranno il giudizio storico che si meritano.

Anche il Coni ha proclamato per le manifestazioni sportive il minuto di lutto nazionale, il lutto nazionale per un prescritto per mafia.

Poi dice perché berlusconi sta ancora lì.

Ma il fatto di aver preferito accettare le regole di uno stato di diritto, o almeno di quel che ne resta non può essere un motivo per elogiare un signore che non è stato sanzionato per un abuso edilizio o per aver lasciato la macchina in divieto di sosta ma processato per mafia, nello specifico per “il reato di associazione per delinquere” commesso fino alla primavera del 1980 e assolto “per insufficienza di prove” per quello di associazione mafiosa.

E nessuna delle due sentenze significa innocenza a trecentosessanta gradi, la prescrizione interviene quando scadono i tempi regolamentari necessari ad un processo per arrivare ad una giusta sentenza, l’insufficienza di prove quando non sono state raccolte quelle prove che potrebbero produrre un altro risultato: l’insufficienza di prove potrebbe essere anche legata alla negligenza di investigatori poco capaci, ad esempio. 

Negligenti per scarsa capacità o magari perché hanno pensato che non fosse opportuno essere più precisi nella ricerca.

Ma tutto questo non sta impedendo in queste ore che seguono la dipartita di colui che sembrava esente anche dalla morte, di parlare di lui come se fosse stato determinante per il cammino di questa nostra democrazia.

E invece non è affatto così.

Andreotti si porta via, nella sua “miglior vita” molte cose e tutte importantissime, i segreti e le omissioni sulle stragi di stato e di mafia ad esempio, fare chiarezza su questi e non ricoprirli col solito alibi, paravento di quella ragion di stato che tanto male ha fatto e continua a fare a questo stato avrebbe potuto migliorare la democrazia, rendere questo un paese fatto di gente consapevole e capace di distinguere la figura di uno statista da quella di un signore il cui unico interesse è stato accumulare una quantità spropositata di potere. 
Gente che grazie alla verità sui fatti passati avrebbe magari evitato di riportare al potere persone interessate non al bene dello stato ma unicamente al loro.

E la sua frase ormai entrata nel linguaggio comune: “il potere logora chi non ce l’ha” è l’ammissione perfetta, esatta, di quello che è stato l’uomo politico  Giulio Andreotti.

Giulio, eri tutti loro
Marco Travaglio, 7 maggio

Uno straniero atterrato ieri in Italia da un paese lontano durante la lunga veglia funebre per Andreotti a reti unificate, vedendo le lacrime e ascoltando le lodi dei politici democristi e comunisti, berlusconiani e socialisti, ma anche dei giornalisti e degli intellettuali da riporto di tutte le tendenze e parrocchie, non può non pensare che l’Italia abbia perso un grande statista, il miglior politico di tutti i tempi, un padre della Patria che ha garantito al Paese buongoverno e prosperità, e ciononostante fu perseguitato con accuse false da un pugno di magistrati politicizzati, ma alla fine fu riconosciuto innocente e riabilitato agli occhi di tutti nell’ottica di una finalmente ritrovata pacificazione nazionale. 
La verità, naturalmente, è esattamente quella opposta. Non solo giudiziaria. Ma anche storica e politica. È raro trovare un politico che ha occupato tante cariche (7 volte premier, 33 volte ministro, da 13 anni senatore a vita) e ha fatto così poco per l’Italia: nessuno — diversamente che per gli altri cavalli di razza Dc, da De Gasperi a Fanfani a Moro – ricorda una sola grande riforma sociale o economica legata al suo nome, una sola scelta politica di ampio respiro per cui meriti di essere ricordato. Andreotti era il simbolo del cinismo al potere, del potere per il potere, fine a se stesso, del “meglio tirare a campare che tirare le cuoia”. Il primo responsabile, per longevità politica, dello sfascio dei conti pubblici che ancora paghiamo salato. Un politico buono a nulla, ma pronto a tutto e capace di tutto. Il principe del trasformismo, che l’aveva portato con la stessa nonchalance a rappresentare la destra, la sinistra e il centro della Dc, a presiedere governi di destra ma anche di compromesso storico, a essere l’uomo degli Usa ma anche degli arabi. Un politico convinto dell’irredimibilità della corruzione e delle collusioni, che usò a piene mani senza mai provare a combatterle, perchè – come diceva Giolitti e come gli suggeriva la natura – “un sarto che deve tagliare un abito per un gobbo, deve fare la gobba anche all’abito”. Eppure, o forse proprio per questo, era il politico più popolare. Perchè il più somigliante a quell’ “italiano medio” che non è tutto il popolo italiano. Ma ne incarna una bella porzione e al contempo la tragica maschera caricaturale. Se però Andreotti spaccava gli italiani, affratellava i politici, che han sempre visto in lui – amici e nemici – il proprio santo patrono e protettore. La sua falsa assoluzione, in fondo, era anche la loro assoluzione. Per il passato e per il futuro. Per questo, quando le Procure di Palermo e Perugia osarono processarlo per mafia e il delitto Pecorelli, si ritrovarono contro tutto il Palazzo. Il massimo che riusciva a balbettare la sinistra era che, sì, aveva qualche frequentazione discutibile, ma che stile, che eleganza in quell’aula di tribunale dove non si era sottratto al processo (il non darsi alla latitanza già diventava un titolo di merito). 
Fu parlando del suo processo che B. diede dei “matti, antropologicamente diversi dalla razza umana” a tutti i giudici. Fu quando si salvò per prescrizione che Violante criticò l’ex amico Caselli per averlo processato e la Finocchiaro esultò per l’inesistente “assoluzione”. Anche i magistrati più furbi e meno “matti”, come Grasso, si dissociarono dal processo e fecero carriera. Oggi le stesse alte e medie e basse cariche dello Stato che l’altroieri piangevano la morte di Agnese Borsellino piangono la morte di Giulio Andreotti. Ma non è vero che fingano sempre: piangendo Andreotti, almeno, sono sincere. Enrico Letta, alla notizia che la Cassazione aveva giudicato Andreotti mafioso almeno fino al 1980, si abbandonò a pubblici festeggiamenti: “Quante volte da bambino ho sentito nominare Andreotti a casa di zio Gianni. Era la Presenza e basta, venerata da tutti. Io avevo una venerazione per questa Icona!”. E giù lacrime per l'”ingiustizia” subìta dalla venerata Presenza anzi Icona, fortunatamente “andata a buon fine” tant’è che “siamo tutti qui a festeggiare” (un mafioso fino al 1980). 
L’altro giorno Letta jr. è divenuto presidente del Consiglio. 
È stato allora che il Divo ha capito di poter chiudere gli occhi tranquillo.

La carica degli Immortali

“Chiedere al potere di riformare il potere, che ingenuità”. 

Giordano Bruno

 

 

Sottotitolo: “hanno visto più stragi loro dei terroristi del mondo, non hanno mai collaborato con la giustizia a svelarci la verità su 60 anni di Repubblica fondata sul sangue dei morti nelle stragi e continuano a parlare di Paese democratico e non se ne vergognano mai.
Hanno perso la possibilità di vergognarsi e questo è il motivo per cui continuano a restare li anche se nessuno li elegge , infatti si eleggono da soli.
Cordiali saluti
Giovanna Maggiani Chelli 
Presidente Associazione tra i familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili”

 

 

Parlamento, La Malfa e Pisanu da record: sono gli highlander della politica italiana

Quasi ottanta anni di Parlamento in due, più dei 66 anni di vita del Parlamento italiano, dalla sua prima seduta il 28 giugno 1946. Il record è di Giuseppe Pisanu, per il Senato, e Giorgio La Malfa, per la Camera, entrambi a 38 anni di attività. A stilare la classifica della longevità politica è il senatore Idv Stefano Pedica che lancia contemporaneamente la campagna “Cosa hanno fatto in questi anni?”, per dire no a chi è in Parlamento “da una vita”.

Ringraziamo la pattuglia delle vecchie cariatidi che siedono in parlamento da trenta, quaranta, cinquanta, una in particolare [con viva & vibrante soddisfazione il prossimo anno Napolitano festeggerà le nozze di diamante col parlamento essendo stato eletto nel 1953, l’altro ieri, praticamente], da sessanta anni per aver condotto allegramente il paese fino a qui. 
Gente che non solo non se ne va, non pensa minimamente di cedere il passo [e il posto] per favorire un ricambio necessario se la nostra è ancora una democrazia e non un regime sudamericano, africano dove una persona può restare quarant’anni al comando e nessuno può chiederle di andarsene, ma si permette anche di stronzeggiare, di reggere i giochi a chi oggi dice che il posto fisso è noioso, che il lavoro non è un diritto, che si permette di dare dell’eversivo/sovversivo/populista/demagogo a Grillo che individua, giustamente, fra i mali della politica proprio l’assurda concezione, tutta italiana, che un politico debba essere per sempre. 
350.000 cittadini – proprio grazie a Grillo – hanno messo la loro firma anni fa su una proposta di legge che chiedeva di ridurre a due legislature il tempo massimo di permanenza in parlamento, una volta terminati quelli chi aveva avuto l’onore di servire il paese sarebbe dovuto tornare alla sua normale occupazione, 350.000 firme che sono state giustamente ignorate perché di quel che vuole il popolo al manipolo dei mantenuti privilegiati non frega un cazzo, l’Italia in mano a questi giovani virgulti si è man mano trasformata in una dittatura dove sono gli stessi politici che si autoeleggono grazie a leggi elettorali fatte sempre da loro che impediscono a noi, popolo sovrano per Costituzione, di poter scegliere chi può accedere in parlamento, chi può restare e chi no.
Verrebbe da chiedersi cosa avrebbero fatto tutti quanti se avessero dovuto lavorare sul serio invece di farsi mantenere a vita, e anche oltre la vita, dai cittadini, ecco perché hanno tanta paura del ‘buffone’ che ha il merito, almeno, di aver svegliato un bel po’ di coscienze.

Cervelli in pappa

C’è da ammetterlo è stata una lunga estate calda. Molto calda. Così calda che evidentemente ha mandato in sofferenza gli ultimi neuroni rimasti attivi nei cittadini. In vero, parrebbe che anche qualche sicario di governo abbia avuto una fusione neuronale, ma è solo apparenza. La loro materia grigia è fresca.

 

Mi piace pensare che si divertano a tirare la corda, certi che mai si spezzerà. Ho smesso di credere che questo possa avvenire per un rigurgito di dignità. Ormai, come in un film di Mel Brooks, i sicari potrebbero sedersi davanti a una telecamera e dirci qualunque sozzeria. Noi staremo a discuterne per giorni, traendo da esse anche qualche insegnamento. Sbagliato.

 

Cancellieri: “Tagli alle scorte, ma senza ideologie.” Se avesse la pazienza di spiegarmi, sicario ministro, le sarei grata. Cosa significa? Che abbiamo corso il rischio di lasciare liberi i criminali di uccidere “le toghe rosse” per strada? E quindi che esistono le toghe comuniste impegnate a perseguitare l’ex tizio criminale?

 

Cosa c’entra, signor ministro sicario, l’ideologia politica con una scorta? Vorrà forse dire che c’è rischio che per far dispetto a un ex amico, qualcuno può proporre di eliminare un privilegio? La scorta, non dovrebbe servire a proteggere le autorità che per aver lavorato a tutela delle istituzioni, oggi hanno la vita a rischio?

 

Sarebbe ideologico, togliere le scorte pagate dai cittadini italiani, a quella feccia di amichetti, complici, affiliati, mafiosi che per anni hanno usato uomini dello stato come gadget di lusso da mostrare come cagnolini in borsetta?

Ci sarà qualcosa di ideologico, sicario Ministro, anche nei guanti dei pompieri che non isolano dal calore, e che hanno provocato gravi ustioni a due vigili del fuoco? (Come gli scarponi di cartone dei minatori sardi, durante il fascismo, che si disintegravano a contatto con l’acqua)

 

Si divertono, ne sono sicura. E fischiettano sorridenti ad ogni approvazione di decreto. Da oggi i medici, per esempio, dovranno motivare la scelta di un farmaco “non griffato”[cit.] qualora decidessero di prescriverlo a un paziente che ne ha bisogno. Si può anche arrivare al punto in cui, il paziente viziato dalla griffe, decida di pagare la differenza tra la merda di stato e la medicina da ingoiare. Certo che ci ridono dietro, è normale, dato il silenzio.

 

Soprattutto perché dopo leggi che per salvare l’allora direttore della propaganda di rete 4, oggi siamo costretti a pagare 1.500 euro al giorno al signor Francesco Di Stefano, legittimo proprietario delle frequenze. E perché leggi che nonostante sia palese la bufala del Ponte sullo Stretto, intorno al progetto fantasma nascono nuovi contratti, e nuovi falsi progetti, la cui non attuazione ci costerà domani altre (a l t r e) penali milionarie, che la mafia dello stato italiano, s’impegna a pagare alla Mafia altrui.

 

Certo che ridono, e sono felici. Come scienziati davanti ad una nuova scoperta, gongolano eccitati, ormai sanno che potranno spingersi ogni giorno più in là, restando impuniti.

 

Rita Pani (APOLIDE)