Sottotitolo: è più facile che si suicidi chi non ha più niente perché gli è stato tolto anche quel poco che aveva o morire d’infarto per colpa di Ingroia e del Fatto Quotidiano? chiedo.
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Preambolo: quando Di Pietro accusò il governo di Monti di essere il mandante morale (ma più che altro immorale) dei tanti morti suicidi dei mesi scorsi (di cui oggi non si parla più), gente a cui è stata sottratta anche la speranza, la possibilità di poter dire “domani” senza tremare e che infatti ha scelto di risolvere il problema alla radice eliminando tutti i suoi domani, subito si levarono i lamenti della solita canea bipartisan, perché guai a dire che le decisioni troppo severe, orientate nella direzione sbagliata, di un governo potevano essere state DAVVERO la causa di molte di quelle morti che forse si sarebbero potute evitare; nessuno si doveva permettere di accusare nessun altro.
Oggi questa teoria non vale più?
Oggi va bene che un capo di stato spari a casaccio ad alzo zero per giunta, facendo la stessa identica accusa ma – al contrario di Di Pietro senza fare nomi.
Napolitano ha sdoganato l’accusa alla “‘ndo cojo cojo” e tutto va bene: non è successo niente. Lui, può.
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Morte D’Ambrosio, Padellaro: “Sciacallaggio di Libero e Giornale” (video)
Il direttore de Il Fatto Quotidiano commenta i titoli (“Pm assassini” e “Condannato a morte”) sul consigliere del presidente Napolitano: “Lettori e giornalisti di quelle testate dovrebbero vergognarsi. La Procura di Palermo non è fatta di assassini”.
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Volendo, si potrebbe scendere al livello di Libero, Il Giornale, Il Foglio, ma anche de Il Corriere della sera, La Stampa e di Repubblica, che ormai sembrano uniti come un sol uomo quando c’è da mistificare, omettere, nascondere oppure evidenziare la fuffa a vantaggio della merda la cui puzza però difficilmente si può coprire con due gocce di Chanel numero 5.
Io però non voglio, non ci penso neanche, perché sono assolutamente convinta che nessuno sia autorizzato a veicolare veleni, fango e merda spacciandoli per “notizie”, e penso che ci vorrebbe una class action contro quel “giornalismo” pagato coi soldi dei contribuenti ma che non rende alcun servizio utile ai cittadini che pagano, anzi, li danneggia impedendo che si possano costruire, formare delle opinioni SANE a proposito della qualunque come funziona in qualsiasi democrazia compiuta.
Non è più umanamente sopportabile vivere in un paese dove non solo la politica non fa nulla per distinguersi, destra e sinistra da anni si rincorrono nell’interpretare l’una la peggior copia malriuscita dell’altra e dove anche quel giornalismo che almeno un po’ di differenza prima (before Monti) la faceva ma adesso sembra diventato un’unica accozzaglia di riverenti e compiacenti al potere.
In un paese normale un giornale non deve chiedere l’autorizzazione di nessuno per fare le sue inchieste e anche per scrivere, laddove è necessario, che il presidente della repubblica in certe (molte) occasioni, non ha fatto – esattamente – il presidente della repubblica.
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Infarto di Stato
Marco Travaglio, 28 luglio
Mentre stormi di avvoltoi e branchi di sciacalli si aggirano famelici attorno alla salma di Loris D’Ambrosio, additando improbabili colpevoli del suo infarto e scambiando per “assassinio” il dovere di cronaca e il diritto di critica, è il caso di rinfrescare la memoria agli smemorati di Libero, Giornale, Foglio, Corriere, Stampa e Repubblica, ieri macabramente uniti nel mettere alla gogna Il Fatto Quotidiano nel tentativo (vano) di spegnere ogni residua voce di dissenso. Un’operazione tanto più indecente e ricattatoria in quanto, di fronte alla morte, tutti ammutoliscono nel doveroso cordoglio e non è molto popolare azzardarsi a criticare i morti per quel che han fatto da vivi. Ma a chi non rinuncia al dovere di informare non rimane che lasciare in pace i morti e occuparsi dei vivi, mettendo ancora una volta in fila i fatti. Se il dottor D’Ambrosio è finito sui giornali, è a causa di intercettazioni legittimamente disposte da un giudice sul telefono di Mancino e legittimamente pubblicate dalla stampa, una volta depositate alle parti e dunque non più coperte da segreto. E, se il dottor D’Ambrosio è stato indirettamente intercettato, è colpa di Mancino che ha deciso di coinvolgere il Quirinale in una sua grana privata, ma anche del Quirinale che ha deciso di dargli retta e di prodigarsi per favorirlo, mettendo a repentaglio l’imparzialità della Presidenza della Repubblica.
Decisione, quest’ultima, che è rimasta finora senz’alcuna spiegazione (il Quirinale “deve” qualcosa a Mancino e, se sì, perché?). Ma che D’Ambrosio attribuiva non a una sua iniziativa personale, bensì a una precisa e perentoria scelta del “Presidente”, che “ha preso a cuore la questione” e si è “orientato a fare qualcosa”: “Il Presidente parlerà con Grasso nuovamente”, “mi ha detto di parlare con Grasso”, “parlava di vedere un secondo con Esposito”, suggeriva a Mancino di “parlare con Martelli” per concordare una versione comune, scriveva al Pg della Cassazione per “non mandare lei (Mancino, ndr) allo sbaraglio” e perché il Pg “eserciti i suoi poteri nei confronti di Grasso. Tu, Grasso, fai il lavoro tuo”, insomma “si decide insieme” e il Presidente “sa tutto, e che non lo sa?”. Sono tutte parole di D’Ambrosio, non invenzioni dei suoi assassini a mezzo stampa. Se quelle segretissime manovre per depotenziare o addirittura scippare ai titolari l’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia sono note, non è grazie alla trasparenza del Colle, ma all’inchiesta di Palermo. E, se sono finite nel nulla, non è perché il Quirinale non ci abbia provato. Ma perché Grasso le ha respinte, ricordando che l’invocato “coordinamento” delle indagini era stato assicurato un anno prima da una delibera del Csm presieduto dallo smemorato Napolitano. Checché ne dicano il Presidente e gli sciacalli, D’Ambrosio non ha subìto (almeno sul Fatto) alcuna “campagna violenta e irresponsabile di insinuazioni ed escogitazioni ingiuriose”. Se illazioni ci sono state, hanno inevitabilmente riguardato le conversazioni rimaste segrete fra Mancino e Napolitano, a causa della decisione del Quirinale di non renderle pubbliche, anzi di pretenderne la distruzione, a costo di trascinare la Procura di Palermo davanti alla Consulta con un conflitto che Franco Cordero (sul Corriere, sul Fatto e infine su Repubblica) ha dimostrato infondato. Su D’Ambrosio non c’era da insinuare o escogitare nulla: abbiamo semplicemente pubblicato e commentato criticamente, come altri giornali, le sue testuali parole intercettate. E, unico giornale in Italia, abbiamo subito intervistato D’Ambrosio per dargli la possibilità di spiegarle. Lui l’ha fatto, ma ci ha pure esternato il suo disagio per ciò che non poteva dire, essendo vincolato dal “segreto” su parole e azioni del Presidente che – ricordava ossessivamente nell’intervista – “sono coperte da immunità”. Gli abbiamo chiesto di farsi sciogliere dal vincolo, ma dopo qualche ora ci ha fatto rispondere dal portavoce del Quirinale che il Presidente non l’aveva sciolto. Lo stesso vincolo che ha esposto lui, magistrato, a due imbarazzanti figuracce dinanzi ai suoi colleghi di Palermo, che lo sentivano come teste su ciò che aveva confidato a Mancino di sapere sulla trattativa: lui sulle prime negò tutto, ma poi, messo di fronte alle sue parole intercettate, dovette ammettere parecchie cose fra mille contraddizioni, e sfiorò l’incriminazione per reticenza. Non conoscendo personalmente D’Ambrosio, noi possiamo soltanto immaginare con quale stato d’animo un uomo tanto riservato abbia vissuto questi 40 giorni di esposizione mediatica e il drammatico ribaltamento della sua immagine: da collaboratore di Falcone nella stesura del decreto sul 41-bis a difensore d’ufficio di chi aveva revocato il 41-bis a centinaia di mafiosi, o almeno non l’aveva impedito. Insomma, da servitore dello Stato a servitore di Mancino. Ma, se Napolitano avesse ragione a collegare la sua morte a quanto è stato scritto di lui, dovrebbe anche domandarsi chi ha esposto D’Ambrosio a quelle critiche, a quelle figuracce e a quel ribaltamento d’immagine: non certo chi ha riferito doverosamente le cose che aveva detto e fatto, semmai chi gli aveva chiesto di dire e di fare quelle cose.