Traditori

Il pd in tutte le sue versioni del prima, mentre e durante che per vent’anni ha parato il culo ad un delinquente abituale oggi manda a casa Marino violando tutte le regole della democrazia per un avviso di garanzia e due scontrini che, al confronto di quanto ci è costato e purtroppo ci continuerà a costare il faraone di Rignano sono il nulla.
Naturalmente Vincenzo De Luca, che non è indagato ma proprio condannato, secondo le nuove regole della democrazia p2.0 di Renzi può restare.

Nel pd uno non vale uno ma 25+1 [che ne accontentano uno].
26 persone che pensano tutte la stessa cosa e la fanno.
Più che un partito una religione, una setta, una congrega, un’esseppia, un’associazione.
Renzi lo fa per noi, per farci disabituare al significato delle elezioni, basta col luogo comune sulla democrazia, sul popolo sovrano che vota e sceglie: da oggi in poi il presidente del consiglio può proporre il candidato, spostarlo come ha fatto con la Barracciu che si è presentata già col suo bel vestitino da indagata ma poi, siccome pareva brutto, meglio il parlamento che la presidenza della sua regione: lì so’ tanti e si confondono, nessuno ci fa caso, al limite ci si può sempre dimettere dalla carica e comunque ci sono sempre Verdini e Azzollini che in parlamento fanno la loro porca figura e, soprattutto, la fanno fare alla politica.
E se proprio il candidato, seppur votato, sebbene eletto non piace al capo basta che la setta decida e si manda via, senza nemmeno gli otto giorni di preavviso.
Quindi, a che servono le elezioni?
A niente, ha ragione Renzi.

La prossima volta che in casa 5stelle qualcuno verrà espulso in base alle regole che il movimento stesso si è dato, i cari democratici, i paladini del rispetto delle regole de’ ‘sta minchia sono pregati di tenere la bocca chiusa e le mani a posto, lontane dalla tastiera. 

Perché se il movimento espelle dal movimento in base ad una regola condivisa, Renzi e il pd hanno espulso Marino‬ non grazie ad una regola interna al partito ma obbligando i 25 a tradire il mandato ricevuto dagli elettori in virtù della legge della democrazia: quella vera, non quella riveduta, corretta e stravolta dal pd di Renzi a misura di Renzi.

I cittadini hanno molto più da rimetterci in termini di considerazione e rispetto per le loro scelte elettorali in un paese dove il presidente del consiglio può ordinare le dimissioni di qualcuno, che sia il sindaco, il funzionario statale o l’amministratore del suo condominio.
La democrazia ha le sue regole, a chi non vanno più bene quelle regole voti un partito che nel programma inserisce anche i capricci  reazionari di un narciso impostore, miracolato dalle “contingenze” che lo hanno portato a palazzo Chigi, le famose contingenze napolitane, che vuole fare tutto lui senza rispettare i dovuti passaggi che la democrazia impone affinché si cambino quelle regole.

Oggi Renzi e il pd hanno tagliato un’altra consistente fetta alla democrazia, ma per i servitori abituali, quelli del talk show, dei giornali e telegiornali non c’è nessun pericolo. La deriva autoritaria dello sceicco del consiglio autorizzato dall’emerito novantenne invadente e  impiccione era solo una chiacchiera, un pettegolezzo, una malignità.

Chi gioisce dei 25, i traditori, né più né meno di quelli che “Ruby è la nipote di Mubarak” che sono andati a consegnare le loro dimissioni –  spontaneamente – ci mancherebbe altro per mandare a casa Marino‬, sappia che in vaticano stanno facendo lo stesso.
Chiaro?

Eppure è facile: non spetta al presidente del consiglio licenziare i sindaci

Visto che resta difficile mettere la cocaina in tasca a chi non fa uso di droghe arriva, provvidenziale, la notizia dell’avviso di garanzia a ‪‎Marino‬ il giorno dopo la decisione di rinunciare alle dimissioni.
Ringraziamo La Repubblica sempre sulla notizia.
Guarda caso la notizia dell’avviso di garanzia a Marino arriva proprio oggi da Repubblica, il quotidiano che del sostegno a Renzi ha fatto una questione di vita o di morte. Ci sarà da ridere se qualcuno nel pd che fa le riforme con un condannato per frode, un cinque volte rinviato a giudizio per truffa e bancarotta, ha negato l’arresto per quel galantuomo di Azzollini, si tiene Vincenzo De Luca condannato, userà l’avviso di garanzia quale pretesto per calunniare ancora ‪‎Marino‬.

Marino ha fatto benissimo a costringere la dirigenza del pd ad umiliarsi con la richiesta di sfiducia.
La battaglia di Marino va oltre la questione degli scontrini e di tutta la sporcizia e le accuse ingiuste che gli hanno rovesciato addosso: la sua è una rivendicazione assolutamente legittima e civile.
A questo pd bisogna insegnare le regole di una vera democrazia, dove i non eletti da nessuno non cacciano gli eletti da qualcuno.
Gli arrivisti, i furbi come Renzi pensano che la politica sia un mezzo per ottenere potere e dei vantaggi personali.
Le persone perbene come ‎Marino‬, non ancora contaminato dai veleni della politica pensano che esistano delle battaglie da fare anche se si possono perdere, per questioni non meno importanti di un’amministrazione comunale, un governo che si possono mantenere o far cadere comprando senatori un tanto al chilo o facendo dimettere consiglieri per ordini imposti dall’alto con l’arma del ricatto.
Come diceva Pertini: “nella vita talvolta è necessario saper lottare, non solo senza paura, ma anche senza speranza”.
C’è da dire comunque che il pd non espelle nessuno: agevola soltanto l’uscita prima col mobbing, poi con le minacce e infine tenendo la porta aperta.
Lo sanno bene Marino, Civati, Mineo.
Una volta almeno il PCI, i Ds, avevano il buon gusto di buttare fuori gente decidendolo nelle segrete stanze.
Oggi fanno tutto alla luce del sole.
Manca poco che ‪Marino‬ venga accusato anche dell’omicidio di Giulio Cesare.

Ci vorrebbe qualche giornalista di buona volontà, magari uno di quelli più servi dei servi che decida finalmente di pentirsi, uno di quelli che hanno abbindolato e lobotomizzato il paese ripetendo che “meglio di così non potevamo stare”, che “Renzi è perfettamente legittimato a fare quello che fa”, che “il pd è l’unica alternativa al disastro” che spieghi, non solo ai romani ma a tutti gli italiani se è legittimo che un presidente di partito ordini a dei consiglieri regolarmente eletti di dimettersi per mandare a casa il sindaco Marino che, diversamente da Renzi che non è stato mandato in parlamento col metodo tradizionale è perfettamente autorizzato a rispettare il mandato per cui è stato votato. Che dica finalmente che i colpevoli dello scempio politico sono Napolitano che ha imposto non uno ma tre governi a sua immagine e somiglianza invece di rispettare l’ordine delle cose creando questo crash nella democrazia, la profonda sfiducia nel patto fra lo stato e i cittadini permettendo che il segretario di un partito che fa anche il presidente del consiglio controlli, comandi, imponga chi può stare,  chi deve andare e chi si è prestato ai golpettini in sequenza, gente come Monti, Letta e Renzi mandata in parlamento senza la necessaria autorizzazione dei cittadini che votano, permettono che si formi il parlamento che poi eleggerà un presidente del consiglio a immagine e somiglianza del popolo, non di qualche funzionario che risponde ad altri interessi nei quali si divertono, sguazzano e guadagnano anche quelli che dovrebbero controllare il potere ma invece lo costruiscono, lo fortificano, contribuiscono al suo mantenimento perché quello esistente è l’unico sistema che garantisce la sopravvivenza dei guastatori, dei devastatori dello stato di diritto.

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A me l’effetto “cada Sansone con tutti i Filistei” applicato alla politica ha sempre intrigato, molto.
Non c’è nulla di più salutare per il ripristino delle regole democratiche del dissolvimento di un partito che si è sempre creduto grande ma soprattutto di sinistra mentre è stato sempre pieno di gente vigliacca, ipocritamente timorata di Dio in cerca di potere e quattrini, con nessuna intenzione di lavorare al bene sociale, che ha dimostrato di non saper governare né di fare opposizione, che durante il ventennio di berlusconi non si è mai distinta con qualche azione efficace di vero contrasto al dominio di un delinquente seriale ad esempio con una legge contro i conflitti di interesse ma anzi, ha sempre favorito la continuità di quel dominio.
Un partito che si dice di sinistra ma poi balbetta di fronte all’esigenza non più rimandabile di estendere i diritti civili per paura di turbare le anime “candide” dei cattolici, che si dice onesto e poi per opportunismi politici si tira dentro la feccia proprio come faceva berlusconi e mette al sicuro i delinquenti nella politica come ha fatto berlusconi.
Non c’è anti-politica nella speranza che il partito democratico venga relegato nell’armadio dei brutti ricordi della storia italiana, anzi, c’è proprio il desiderio che in questo paese qualcuno cominci a fare politica per tutti, non quella che diventa il mezzo e lo strumento per esercitare il potere espresso dalla piccola élite degli abusivi raccomandati. Con una politica che fa politica anche la malavita ha meno voce in capitolo. Mentre da più di venti anni assistiamo allo scempio di partiti che fanno finta di essere avversari ma che hanno invece come unico scopo aumentare potere a dismisura. Il che dalla destra uno se lo aspetta,  dalla sinistra no. Ma la sinistra di questi ultimi due decenni è stata sempre concentrata a guardarsi l’ombelico, alla ricerca del leader, e i congressi e le primarie e, e, e…
Ecco perché della situazione politica disastrosa non solo romana ma nazionale è la sinistra a dover pagare il conto almeno alla storia.
La politica in Italia è una cosa sporca, andrebbe vietata ai minori.

Il “Ri_Presidente”

Non capisco com’è potuta passare la leggenda di Napolitano garante della tenuta dello stato così tanto da meritarsi una seconda elezione, fatto unico nella storia di questo paese.
A memoria non si ricorda un presidente più divisivo: come ha messo lui lo stato contro i cittadini avendo cura che si notasse la differenza fra le varie caste sempre iperprotette, garantite e il popolo, nessuno mai prima.
Mentre il paese fa i conti con le incertezze, le paure per il futuro, col lavoro che non c’è perché invece di usare le risorse già scarse si continuano ad investire tonnellate di soldi pubblici in inutilissimi progetti per il paese ma utili a far mangiare la solita compagnia di giro, mentre il fango inghiotte paesi e città per colpa di quelli che hanno già mangiato, mentre non si trovano mai i responsabili di crimini destinati more solito a restare impuniti, mentre l’Italia è in balia di un chiacchierone inaffidabile, “l’episodio della sinistra”, come lo ha definito D’Alema, il Re Magna_Nimo mantenuto da sessantuno anni dai contribuenti di svariate generazioni, cosa che sarebbe impossibile in qualsiasi altro paese occidentale democratico dove la politica è davvero alternanza di partiti ma soprattutto di persone se ne va a passeggio per il centro di Roma, muovendo scorte, guardie del corpo, automobili blindatissime a comprare personalmente il regalino di compleanno per la moglie Clio. E uscendo dalla gioielleria di Piazza di Spagna non si degna di rispondere al cronista del Fatto Quotidiano che gli chiedeva lumi circa le sue dimissioni come ogni monarca assolutista che si rispetti. Lui ha deciso, lui ha ordinato, lui ha smontato e rimontato a sua immagine e somiglianza, lui ha preteso l’immonda esperienza delle larghe intese perché o così o miseria, terrore e morte come un berlusconi qualunque al quale ha riaperto le porte del palazzo anche da pregiudicato condannato alla galera.

E ora dopo di lui bisognerà trovarne un altro, o, che Dio o chi per lui ci aiuti un’altra che sia il più possibile condivis* per poter garantire ancora e ancora e nei secoli a venire la continuità di questa squallida repubblichetta di infima serie dove lo stato e i suoi poteri hanno disatteso TUTTE le regole scritte nella Costituzione – ché tanto chi se ne accorge con un’informazione che è sempre lì a sciogliere i peana al Re – che erano l’unica garanzia per quel popolo che sovrano non sarà mai più.

Smetto quando voglio – Marco Travaglio

Oddio, Napolitano se ne va e nessuno sa cosa mettersi. Come se non bastassero tutte le cause fisiologiche che fanno fibrillare la politica italiana, se ne aggiunge una patologica: i boatos sulle imminenti dimissioni del presidente della Repubblica. Non si tratta del solito gossip dei retroscenisti appostati nei corridoi dei palazzi: a scrivere che entro fine anno, o al massimo a gennaio, Re Giorgio annuncerà o addirittura rassegnerà le dimissioni sono stati non solo il Fatto (notoriamente poco gradito sul Colle più alto), ma anche due fra i giornalisti più introdotti al Quirinale: Stefano Folli su Repubblica e Marzio Breda sul Corriere. Domenica, dopo 24 ore di silenzio, è arrivata la “nota del Colle”, al solito sibillina e fumantina. “Né si ha da smentire né da confermare” alcunché, ma sia chiaro che “le decisioni che riterrà di dover prendere” sono “esclusiva competenza del capo dello Stato”.

Quindi è tutto vero, ma Napolitano non gradisce che se ne parli adesso ed è furibondo con i giornali e le tv che danno “ampio spazio a ipotesi e previsioni sulle eventuali dimissioni”. E a cosa dovrebbero dare ampio spazio, di grazia? Sta per accadere un fatto mai visto prima: le dimissioni di un presidente (e che presidente: il monarca padrone dell’esecutivo, delle Camere, del Csm e ogni tanto della Consulta, che da 8 anni e mezzo fa e disfa i governi a prescindere dagli elettori e dà ordini e moniti a tutto su tutti) appena un anno e mezzo dopo la sua elezione, destinate a terremotare per mesi e mesi la vita politica con una serie di ripercussioni a catena prevedibili e già tangibili sul governo, sul Parlamento, sulla nuova legge elettorale, sulla nuova Costituzione, sulla “riforma” della giustizia, sulle alleanze fra i partiti, sulle tentazioni di elezioni anticipate, sulla Borsa, sui rapporti internazionali. E di che dovrebbe parlare la stampa? Di Balotelli che torna in Nazionale? O di Razzi che va all’Isola dei famosi?   Vengono rapidamente al pettine i nodi che – in beata solitudine – il nostro giornale evidenziò fin da subito, all’indomani della precipitosa rielezione di Napolitano il 20 aprile 2013 per scongiurare l’ascesa al Colle di un vero cultore della Costituzione come Stefano Rodotà, tradire l’ansia di rinnovamento uscita due mesi prima dalle urne e imbalsamare l’eterno inciucio fra il centrosinistra e Berlusconi. Tralasciando le bugie di Napolitano, che per un anno aveva detto e ripetuto che mai e poi mai avrebbe accettato la riconferma, scrivemmo che il suo discorso di reinsediamento a Montecitorio poneva ufficialmente sia lui sia la Repubblica fuori dalla Costituzione. Il Ripresidente disse infatti che sarebbe rimasto “fino a quando la situazione del Paese e delle istituzioni me lo suggerirà e comunque le forze me lo consentiranno”. E solo a patto che Pd e Pdl si mettessero subito insieme per fare ciò che avevano giurato agli elettori di non fare: un governo di larghe intese per le cosiddette “riforme”, cioè per manomettere la seconda parte della Costituzione e anche la giustizia. Espropriando il Parlamento, unico titolare del potere legislativo, il Presidente Monarca espose alle Camere il suo personale programma politico e le minacciò di andarsene se non avessero obbedito: “Ho il dovere di essere franco: se mi troverò di nuovo dinanzi a sordità come quelle contro cui ho cozzato nel passato, non esiterò a trarne le conseguenze dinanzi al Paese”. Dunque il governo e i partiti dovevano ripartire dai “documenti dei due gruppi di lavoro da me istituiti il 30 marzo”: i 10 fantomatici “saggi” extraparlamentari che, alle dipendenze del Quirinale e senz’alcuna legittimazione popolare, avevano scritto il programma del nuovo governo prim’ancora che nascesse. Insomma, in barba alla Costituzione che prevede un mandato pieno e incondizionato (art. 85: “Il Presidente della Repubblica è eletto per 7 anni”), Napolitano fece sapere che il suo era “a tempo” e “a condizione”.

E quando il suo ex portavoce Pasquale Cascella si lasciò sfuggire a La Zanzara che se ne sarebbe andato ben prima della scadenza del settennato, Re Giorgio con l’aria di smentirlo confermò quel che era chiaro a tutti: “Ho legato la mia rielezione al raggiungimento dell’obiettivo delle riforme e anche alla capacità delle mie stesse forze. Ma nessuno certo è in grado di prevederne la durata, sia per l’uno che per l’altro aspetto”.   Quell’albero marcio, trapiantato un anno e mezzo fa su un Paese ansioso di cambiare, produce oggi i frutti marci che tutti possono vedere a occhio nudo. Napolitano e chi lo rielesse sapevano benissimo che il suo secondo mandato sarebbe finito presto, per ovvi motivi anagrafici. Ma la fregola di mummificare il sistema contro ogni cambiamento fu più forte di ogni buonsenso. E anche dello spirito e della lettera della Costituzione (quella vera, quella del 1948) che, precisa come un cronometro svizzero, prevede un ordinato e sereno funzionamento delle istituzioni, con tempi certi e scadenze prevedibili. Il presidente dura in carica 7 anni perché si deve sapere quando inizia e quando finisce: negli ultimi sei mesi (il semestre bianco) non può sciogliere le Camere (a meno che la sua scadenza coincida con quella della legislatura) affinché il Parlamento sia libero di prepararne la successione senza condizionamenti, con la dovuta calma e serenità. Strano che l’unico presidente ad aver giurato due volte sulla Costituzione non lo sappia, o se ne infischi. Infatti fa sapere che se ne va quando vuole lui e ce lo farà sapere quando pare a lui. Niente semestre bianco, e Parlamento sotto ricatto fino all’ultimo giorno. La bomba a orologeria delle sue dimissioni anticipate seguiterà a ticchettare per settimane, forse per mesi, ben nascosta sotto le istituzioni, destabilizzandole vieppiù con uno stillicidio di indiscrezioni, moniti e finte smentite. Intanto l’Italia resterà appesa agli umori e ai malumori di un vecchietto bizzoso e stizzoso che cambia idea a seconda di come si sveglia. Nessuno, tranne lui, sa quando finirà il toto-Quirinale. Forse finirà soltanto quando Sua Maestà avrà qualche finto successo da sbandierare (una legge elettorale, una riforma della Costituzione, del lavoro e della Giustizia purchessia) per mascherare il misero fallimento del suo bis; e magari anche la garanzia che il suo successore sarà un suo clone e non farà nulla per riportare l’Italia dalla monarchia alla Repubblica. Solo allora abdicherà e, quando lo farà, sarà sempre e comunque troppo tardi.

Italia: uno stato “ne me quitte pas”

Giulia Maria [Ligresti] è un po’ come la Giulia Sofia di Crozza – Montezemolo: a differenza della seconda però, di cui non si conoscono il cognome e il volto e che è un’esperta di aragostate lei è lo è delle paraculate. Che non sono per niente charmantes.

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Sottotitolo: “in uno stato davvero democratico vige il principio che tutti sono sostituibili, specie se è in gioco il prestigio delle istituzioni, per un principio di responsabilità. Ma noi siamo uno stato “Ne me quitte pas”: Cancellieri, Napolitano, Amato, non ci lasciate altrimenti non sappiamo che fare. Noi non siamo uno stato davvero democratico. [Michele Santoro]

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I renziani sono critici, poi votano sempre con la maggioranza. Visto che qui c’è una mozione di sfiducia individuale, non al governo, perché – oltre a criticare la Cancellieri – non le votano anche contro? Sono rottamatori o manutentori?”[Marco Travaglio]

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Per tutti quelli che “la Cancellieri ha fatto bene”.
E se trovano un po’ di vergogna da qualche parte, la usassero pure senza parsimonia.

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“In qualunque altro paese, la Cancellieri sarebbe già a casa. Qui invece è finita con 29 secondi di standing ovation al Senato e 18 alla Camera.” Marco Travaglio, nel suo editoriale, analizza punto per punto il discorso in aula del Ministro della Giustizia sul “caso Ligresti”.

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Se quelle di Letta sono palle d’acciaio non oso pensare di che materiale siano quelle dei romani che hanno scoperto che da tredici anni pagavano biglietti dell’autobus usati. Clonati. E magari qualcuno è stato pure sanzionato perché non l’aveva fatto senza sapere che il suo era già stato pagato da un altro incolpevole utente Atac. Ma ovviamente l’amministrazione capitolina per tredici anni si è dovuta occupare di altre urgenze, tipo chessò, tappare le buche, evitare che Roma si trasformi nella Venezia del centro Italia dopo appena qualche ora di pioggia. Non fare nulla affinché la criminalità organizzata e la mafia prendessero possesso della Capitale d’Italia litorale compreso o risistemare le periferie. Cose così, ecco.

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Verrebbe da chiedersi come mai Renzi tutte quelle belle cose a proposito delle dimissioni della Cancellieri non le abbia dette in tempo utile affinché entrassero nel dibattito prima dell’inutile “riferirò” della ministra in parlamento. 

In politica non basta pensare le cose: bisognerebbe dirle e poi farle. E quello che è inacettabile è che un leader, candidato a guidare un partito e nel suo immaginario anche un governo dica delle cose mentre il partito di cui fa parte, anche i suoi, i cosiddetti “renziani” ne fanno altre tipo la standing ovation alla ministra bugiarda. 

Certo che è un bel tipo Matteo Renzi, uno con la scritta “sòla” in fronte ma che in questo paese di irriducibili romantici passa davvero per il rinnovatore che non è. 
Renzi che vuole cambiare la politica di centrosinistra tirandosi dentro tutto il vecchio e sudicio che lo sta rappresentando e lo ha rappresentato fino ad ora.

Se Renzi vuole essere credibile  faccia votare ai suoi la mozione di sfiducia alla ministra salvalavitamasoloseèligresti, insieme a Sel e ai 5stelle, altrimenti la smetta di andare in televisione a bocce, anzi, a palle d’acciao ferme a prendere in giro gli italiani. 
Ché questo è un film già visto e replicato troppe volte.

E, a proposito di Renzi, signora e permesso zona traffico limitato:  questi non si spostano sulle automobili di servizio [o in bicicletta quando sanno che c’è una telecamera a riprenderli] che il permesso ce l’hanno incorporato? gliene serve uno ulteriore anche per l’auto di famiglia? e per quale motivo? c’è gente che paga centinaia di euro l’anno per poter accedere alle ZTL per lavoro, non sono sindaci né onorevoli e senatori. E questi che già hanno tutto pure quello devono avere gratis?

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HENRY PALLE DI ACCIAIO (Marco Travaglio)

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GLI SCANDALI DEL PAESE E IL CERVELLO DEGLI ITALIANI (Bruno Tinti)

Vero: i politici di casa nostra hanno una faccia di bronzo che potrebbe essere usata per lo scampanìo di Pasqua. Ma è anche vero che i cittadini italiani soffrono di amnesia per gli eventi che non li toccano personalmente: un p o’ di indignazione, due o tre giorni di proteste e poi ricominciano a lamentarsi dell’eccessivo peso fiscale.

L’azione sinergica del bronzo e dell’assenza di memoria fa sì che la classe politica italiana sia, giustappunto, quella che Renzi vuole rottamare (va detto: senza convincenti sostituzioni e senza garanzie che, al posto del bronzo, ci sia solo più una grottesca maschera veneziana). Tutti sanno che il problema è resistere (lo aveva già detto Borrelli): qualche giorno, un paio di settimane, nei casi gravi un mesetto; e poi – come un’oca che sbuca dall’acqua più asciutta di prima – niente dimissioni, si ricomincia.

Abbiamo un presidente della Repubblica che manteneva frequenti rapporti con un imputato di falsa testimonianza in un processo che, se l’accusa fosse fondata, ferirebbe a morte i sopravvissuti della classe dirigente dell’epoca, tutta gente saldamente ancorata alla roccia del potere. Attenzione: che l’accusa sia fondata o no non ha nessuna importanza; un presidente della Repubblica non può avere amicizia con indagati, imputati, condannati; men che meno per reati quali quello ascritto a Mancino.

Abbiamo un ministro dell’Interno che ha permesso (perché ha collaborato attivamente, perché ha omesso di intervenire, perché ha trascurato di sorvegliare quello che succedeva nel suo ministero; non importa, è lo stesso) un sequestro di persona eseguito sul territorio italiano da emissari di una potenza straniera (come si dice nei film di spionaggio) e organizzato da un ambasciatore impadronitosi dei locali e delle strutture del ministero.

Abbiamo un ministro della Giustizia che mantiene rapporti di stretta amicizia con una famiglia di imprenditori il cui patriarca è stato condannato (nel 1992; erano già amici) a 2 anni e 4 mesi di prigione per il reato di corruzione. Che è arrestato insieme ai figli per un colossale falso in bilancio. Che, invece di spiegare ai suoi amici (magari con tristezza) che un pubblico funzionario (nel 1992 era prefetto) ovvero un ministro (come è ora) non può mantenere rapporti con persone che hanno problemi (gravissimi, non si tratta di una guida senza patente) con la giustizia, si mette a disposizione per “tutto quello che può fare”. Che qualcosa (non penalmente rilevante allo stato della legislazione attuale) effettivamente fa. E che si giustifica dicendo che non ha mai fatto pressioni sulla magistratura. Che dunque non si rende conto che il problema non sono le pressioni non fatte (ci mancherebbe altro) ma la deviazione dei pubblici poteri di cui è investita.

Di Napolitano e di Alfano non si parla più. Napolitano è stato eletto una seconda volta presidente ed è osannato come salvatore della Patria. Alfano si prepara a incassare il consenso degli pseudo moderati che, con B. al potere, erano onorati di fargli da tappetino della doccia. Di Cancellieri, tra un mese, nessuno ricorderà gli abusi commessi. Sicché c’è poco da scandalizzarsi: la mutua assistenza tra le facce di bronzo riposa sull’impunità garantita dall’amnesia dei cittadini.

Alla fine provo un po’ di pena per B. Di lui si continua a ricordare tutto. Un capro espiatorio per ripulire la coscienza del popolo. Che, come ai tempi delle indulgenze plenarie (ma ci sono ancora?), è pronto a ricominciare. Nel nostro caso, a dimenticare.

 

Umanità a corrente alternata

Sottotitolo: se la Cancellieri non si dimette perché pensa di stare nel giusto anch’io vado avanti a oltranza, perché penso di essere nel giusto. Anzi, pensando ai tanti e non al singolo o ai pochi penso proprio di stare più di lei, nel giusto. E non faccio nemmeno il ministro della giustizia.

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Se in questo paese le carceri sono troppo piene non significa necessariamente che ci siano troppi delinquenti, potrebbe, può anzi voler dire che non sono fatte bene le leggi, che i governi continuano ad attivarsi per infilare gente – quella comune, povera, diseredata che non ha la fortuna di avere ministri per amici –  nelle patrie galere,  non pensano a delle alternative all’extrema ratio della privazione totale della libertà,  rendendo de facto l’ambiente carcerario ostile e assolutamente contrario a quel dettato costituzionale che prevede il trattamento umanitario e la riabilitazione sociale anche per quelle persone che hanno violato la legge. Magari non per frodare lo stato o falsare i bilanci delle proprie aziende ma semplicemente per sopravvivere. 

Anna Maria Cancellieri ha commesso un’ingerenza entrando a gamba tesa in una procedura che si stava già svolgendo nel modo opportuno,  previsto anche senza la sua collaborazione umanitaria, per di più richiesta in via privata e non ufficializzata. Un abuso che in un paese normale, in una democrazia civile le istituzioni non avrebbero tollerato né liquidato con la stessa nonchalance con cui lo fanno le nostre.  Perché nei paesi normali ognuno sta al suo posto, e se un ministro riceve una richiesta in via privata, tanto più da suoi amici personali  [e che amici!] risponde che non può, perché è un ministro che rappresenta lo stato, la repubblica e che il suo dovere è quello di occuparsi di tutti i cittadini, non solo di qualcuno, nel particolare  di una. Altroché umanità doverosa.  In Italia ci sono migliaia di detenuti che vivono in condizioni indegne. La ministra dimostrasse, prove concrete e tabulati alla mano, di aver ascoltato le richieste per  ognuno di loro, altrimenti se non può, se non ha le prove vada a casa la  Cancellieri, lasciasse il posto a qualcuno meno umanamente sensibile per qualcuno ma più interventista per tutti.  Come dovrebbe essere un ministro della repubblica.

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Se un ministro della giustizia è costretto, nel 2013, ad intervenire per porre rimedio ad una delle tante situazioni di disagio che si verificano nelle carceri italiane non da ieri o ieri l’altro ma da decenni significa che allo stato e ai governi di questo paese non interessa che la giustizia e la sua applicazione anche nelle norme detentive e punitive  funzionino come si deve, e che fino ad ora – praticamente da che esiste la repubblica – l’ambito della giustizia è stato affidato ad emeriti incapaci che non hanno operato, non si sono impegnati per migliorare la condizione delle carceri in Italia e, facendo parte come prevede l’alternanza democratica dei vari partiti che hanno composto gli esecutivi significa che la politica tutta si è impegnata per l’esatto contrario. Affinché poi per risolvere le urgenze si prendessero provvedimenti straordinari come amnistie, indulti o nel caso di specie l’intervento diretto del ministro. L’intervento straordinario è tale proprio perché definisce un provvedimento che si è costretti a prendere in situazioni e condizioni di emergenza; un paese normale non può essere sempre in quell’emergenza che giustifica ogni manciata d’anni la richiesta di indulti e amnistie necessari e nel lasso di tempo che intercorre fra una richiesta e l’altra, fra una concessione e l’altra nessuno fa nulla ma anzi, come è accaduto nel ventennio berlusconiano lo stato è andato sempre nella direzione opposta favorendo tutto ciò che andava contro una normale applicazione della legge uguale per tutti così come vuole la Costituzione. Ed essendo i governi sempre molto occupati a cercare, e purtroppo trovare ogni espediente utile per non rendere esecutive le leggi che c’erano e a stravolgerne altre pro domo berlusconi  si sono dimenticati di quelle persone verso cui la legge invece si applica ogni giorno. Ogni giorno c’è gente che entra nelle carceri e ci resta, a dispetto della sua situazione personale, delle sue condizioni di salute e di chi lascia a casa.

Gente che non suscita la compassione di nessuno né può mai chiedere l’intervento umanitario doveroso eccellente.

Se come afferma la ministra Cancellieri, rifarebbe quelle telefonate per andare in soccorso dell’amica sarebbe corretto e molto più istituzionale che le facesse in modo tale che si vengano a sapere senza l’ausilio delle intecettazioni.  Perché senza quelle della vicenda di un ministro che pensa che non ci sia nulla di anomalo nel chiedere un trattamento di riguardo verso una detenuta su oltre 67.000 perché la famiglia della detenuta  casualmente in rapporti di amicizia con la ministra Cancellieri le chiede direttamente di farlo, nessuno avrebbe mai saputo niente. E non mi pare carino che non si pubblicizzi un intervento umanitario doveroso da parte dello stato verso uno o più cittadini in difficoltà [anche se non sono amici di famiglia], se è davvero tale. E visto che è così raro che lo stato si occupi realmente dei bisogni della gente perché non dare il giusto risalto ad un gesto così doverosamente umanitario?

La ministra Cancellieri oltre a non conoscere quei dettami costituzionali citati da Marco Travaglio nel fondo di oggi dimostra di aver perso di vista anche la nobile arte dell’applicazione della questione di principio che dovrebbe valere per tutto e tutti. Come scrive Maso Notarianni su Micromega “nel 2012 ben 1.300 detenuti hanno tentato il suicidio, sono stati 7.317 gli atti di autolesionismo, 56 i suicidi e 97 le morti per cause naturali. Oltre 1.500 le manifestazioni su sovraffollamento e condizioni di vita intramurarie”, secondo un rapporto del sindacato di polizia penitenziaria.

E di fronte a queste cifre la ministra della giustizia  ci racconta che oltre ad essersi occupata personalmente di Giulia Ligresti lo ha fatto per almeno altri 110 casi. E allora chiedo: chi ha valutato la gravità e l’urgenza? secondo quale principio lo stato si attiva e secondo quale fantasiosa teoria la ministra si autoassolve perché – dice – essendosi occupata di altri casi ha ritenuto normale farlo anche con l’amica di famiglia? cosa c’è di umano e meritorio nell’occuparsi di un centinaio [più una] di persone e lasciarne altre migliaia nel degrado, nella sofferenza e nella malattia che opprime fino al suicidio? si vergogni, la Cancellieri, che con la conferenza stampa di ieri ha soltanto ribadito la sua arroganza, non solo istituzionale ma  che definisce quella casta a cui tutto viene concesso semplicemente perché se lo autoconcede.  

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LE ASSOCIAZIONI DEI DETENUTI: “DA MINISTRO FAVORITISMO INACCETTABILE” (di T. Mackinson)

Cancellieri-Ligresti, le associazioni dei detenuti: “Favoritismo inaccettabile”.

Il Guardasigilli è intervenuto in decine di altri casi. Ma spuntano casi in cui, sollecitata a un intervento, ha risposto picche. E intanto il numero dei suicidi in cella è cresciuto del 300% in dieci anni, una quarantina dall’inizio del 2013: “Non avevano il cognome e il numero giusto”.

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Scancellieri – Marco Travaglio, 3 novembre

È ufficiale: il ministro della Giustizia non conosce o non capisce il dovere di imparzialità a cui è tenuto ogni membro del governo e della Pubblica amministrazione. Non conosce o non capisce l’art. 97 della Costituzione: “I pubblici uffici sono organizzati… in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione”. E neppure l’art. 98: “I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione”. Sicuramente conosce, ma non capisce (come la gran parte dei suoi colleghi di Casta), l’art. 3: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Ma anche Napolitano e Letta jr., per non parlare dei partiti della maggioranza, hanno idee molto confuse in materia. Infatti il primo tace (e meno male, visto quel che riuscì a dire per difendere un altro ministro da cacciare, Alfano). E il secondo biascica che la ministra “chiarirà tutto”: come se non fosse tutto abbastanza chiaro. Lei intanto ha capito che la farà franca e ripete che sparlare con la moglie di un arrestato – a sua volta padre di tre arrestati – dei magistrati che hanno disposto gli arresti, e poi raccomandare presso i sottoposti una delle persone arrestate, è cosa assolutamente normale per un ministro della Giustizia. Anzi, “doverosa”. Anzi, non farlo sarebbe “colpevole omissione”. Non le passa neppure per l’anticamera del cervello che intercedere per una detenuta amica sua, figlia di un amico suo, fra l’altro datore di lavoro di suo figlio, significa tradire i doveri di imparzialità e di servizio all’intera Nazione. Ed è ridicolo affannarsi a citare altre analoghe “segnalazioni” come prova che lei tratta tutti i detenuti allo stesso modo. Se la famiglia Ligresti non possedesse il numero di cellulare dell’amica ministra, questa non avrebbe mai potuto “segnalare” il caso di Giulia, malata di anoressia, ai vicedirettori del Dap. E questo non fu soltanto un trattamento privilegiato, ma anche un atto superfluo (la Procura di Torino, motu proprio, aveva subito disposto una perizia sulle condizioni di salute della reclusa, giudicate incompatibili con il carcere). Peggio: un attestato di somma sfiducia nell’amministrazione penitenziaria e giudiziaria che la Cancellieri dirige. Il messaggio che lancia con queste scriteriate dichiarazioni è terrificante: la ministra della Giustizia pensa che i magistrati e i funzionari delle carceri siano dei sadici aguzzini che se ne infischiano abitualmente dei detenuti a rischio, al punto che senza, le sue personali segnalazioni per questo o quel detenuto, nelle carceri italiane sarebbe una strage quotidiana. Sul sito del ministero, in alto a sinistra, c’è una frase in grassetto: “Percorsi chiari e precisi: un tuo diritto”. Ritiene la ministra Cancellieri che quello seguito per Giulia Ligresti sia un “percorso chiaro e preciso”? O non somiglia piuttosto alla classica scorciatoia, alla solita corsia preferenziale di cui troppo spesso godono gli amici degli amici nel Paese che punisce la conoscenza e premia le conoscenze? La questione è tutta qui. Altro che “critiche da matti”, altro che “attacchi falsi”, altro che “paese di Cesare Beccaria”. Quello della Giustizia è il solo ministro ad avere rilievo costituzionale: l’art. 110 della Carta gli affida il compito di curare “l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia”. Se la Guardasigilli ritiene che quei servizi siano così mal organizzati da lasciar morire come le mosche i detenuti malati, li riformi. Lasci perdere, per decenza, le citazioni di Stefano Cucchi, i cui familiari purtroppo non conoscevano nessun ministro. E pubblichi subito il suo numero di cellulare sul sito del ministero, affinché tutti gli altri detenuti malati possano chiamarla, con pari opportunità rispetto a Giulia Ligresti e famiglia. Ma, per favore, non parli più di “dovere d’ufficio” e di “coscienza a posto”. In quale posto: a casa Ligresti? 

La differenza che non fa la differenza

Anna Maria Cancellieri, ministro della Giustizia: Si dimetta

http://www.change.org/it/petizioni/anna-maria-cancellieri-ministro-della-giustizia-si-dimetta

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Se la ministra Cancellieri che pensa e dice di essere nel giusto, di non aver interferito né abusato del suo potere non può dimostrare di essere intervenuta – come ha fatto con Giulia Ligresti – a favore delle altre migliaia di detenuti nelle carceri italiane, quelli malati, sofferenti, incompatibili col regime carcerario, ci sono e sono tanti, e non sono quelli che rifiutano il cibo per protesta come Giulia Ligresti, l’unica strada è quella delle dimissioni. 

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Non solo l’intervento per Giulia Ligresti
Tutti gli scivoloni del ministro Cancellieri

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Sottotitolo: ci sarebbe da chiedersi su quali basi possa poggiare l’amicizia tra un ex prefetto assurto a ministro, prima tecnico poi politico con una famiglia che da trent’anni è al centro di scandali economici/finanziari di ogni ordine e grado. E’ dal 1981 che la famiglia Ligresti occupa le cronache giudiziarie ma questo non ha scoraggiato Anna Maria Cancellieri, non le ha fatto pensare che gente così non va frequentata né stimata. Specialmente se si fa il prefetto prima e il ministro della giustizia dopo. E, se come ha detto Vittorio Zucconi ieri al TGzero di radio Capital,  non c’è nulla di penalmente rilevabile in un ministro che si attiva per favorire una pregiudicata amica di famiglia, perché dovrebbe essere rilevabile [qualsiasi cosa] se un cittadino approfitta di una raccomandazione per un lavoro, per farsi togliere la multa, per la tac che sennò arriverebbe dopo mesi? Se il metro è questo, quello utilizzato da Cancellieri e da tutti quelli che mantengono in vita questo conflitto di interessi incrociato per favorirsi e favoreggiarsi sempre e comunque fra loro, amici parenti e conoscenti di… chiunque può e deve sentirsi autorizzato ad utilizzare tutte le scorciatoie che vuole. Anna Maria Cancellieri, come Emma Bonino, la ministra degli esteri, è una che molti avrebbero voluto vedere al Quirinale, perché ça va sans dire, le donne lo fanno meglio.

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Non bisogna meravigliarsi se in questo paese si dimette Josefa Idem e Anna Maria Cancellieri no. Se Enrico Letta con lei ha fatto la voce grossa esortandola a lasciare ma non lo fa con la ministra cosiddetta della giustizia. Perché Josefa Idem è stata tirata dentro al governo delle larghe intese-attese-disattese per una mera operazioncina di marketing come Cécile Kyenge e come Laura Boldrini eletta alla presidenza della camera. Anna Maria Cancellieri no, l’ex prefetto è un funzionario del sistema funzionale al sistema, ecco perché è stata chiamata da Monti nel bel governo dei tecnici sobri, quelli che dovevano trascinare l’Italia fuori dalla crisi ed è rimasta dentro al governo Napolitano, in quel sistema di conflitto di interessi permanente dove i nomi, le facce, i ruoli sono sempre gli stessi. Ai vertici dello stato non è mai avvenuto quel restyling che ha fatto respirare di sollievo tanta gente quando Monti prese il posto di berlusconi perché, vuoi mettere la differenza fra la Gelmini e la Fornero, la Carfagna e la Severino [altro bel pezzo di un sistema ben oliato, avvocato difensore di altri pezzi da 90 molto dentro al sistema], la Prestigiacomo e la Cancellieri? certo che c’è una differenza, ma non è quella che fa la differenza perché oggi tutti sappiamo com’è andata col governo di Monti, e stiamo vedendo benissimo come va con quello voluto dal presidente vivo&vibrante al quale Anna Maria Cancellieri piace tanto, e gli piace perché è uno di quei funzionari istruiti al mantenimento dello status quo, lo stesso che ha rimesso al Quirinale Napolitano. E allora, come dicevo ieri, non so se è peggio chi regge il gioco a un criminale in carne e ossa, uno di cui ci si potrebbe liberare semplicemente applicando la Costituzione e la legge o sono peggio quelli che lo reggono e reggono in piedi quel sistema criminale: quello dove le leggi quando devono essere applicate sul potente si interpretano, che ha trascinato l’Italia al disastro totale. 

Quelli che non se ne vanno mai.

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Tanfo istituzionale – Saverio Lodato per Antimafia 2000

[…] “Ora restiamo in trepida attesa dell’editorialista domenicale [tana per Scalfari: nota di R_L] che ci metterà in guardia – anche nell'”affaire Cancellieri” – dal prestare ascolto al combattivo manipolo dei “faziosi” che attaccano le istituzioni per prendere di mira il progetto delle larghe intese, fare cadere il governo Letta e dileggiare il lavorio costante e paziente del nostro Capo dello Stato. Ci atterremo prudentemente a questi bonari consigli.
Però che si avverta un tanfo da putredine che emana dal degrado in cui stanno precipitando le massime istituzioni repubblicane, questo dovrebbero riconoscerlo sia gli editorialisti dei giorni festivi che gli editorialisti dei giorni feriali.
Almeno per una questione di “olfatto”.
[Ovviamente la Cancellieri non si dimetterà. Tutti le chiederanno di restare al suo posto per non darla vinta ai “faziosi”]

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Il Cancellierato
Marco Travaglio, 1 novembre 

In un paese normale il ministro della Giustizia non parla con i parenti di un’amica arrestata per gravi reati, rassicurandoli con frasi del tipo: “Qualsiasi cosa io possa fare, conta su di me”. Né tantomeno chiama i vicedirettori del Dipartimento Amministrazione penitenziaria per raccomandare le sorti dell’amica detenuta. Ma, se lo fa e viene scoperto da un’intercettazione telefonica (sulle utenze dei familiari della carcerata), si dimette un minuto dopo. E, se non lo fa, viene dimissionato su due piedi, un istante dopo la notizia, dal suo presidente del Consiglio. Siccome però siamo in Italia, il premier tace, il Quirinale pure. Come se fosse tutto normale. 
Una telefonata allunga la vita, diceva un famoso spot: qui invece accorcia la galera, o almeno ci prova. Nel paese del sovraffollamento carcerario permanente, Anna Maria Cancellieri, prefetto della Repubblica in pensione, dunque “donna delle istituzioni” che molti in aprile volevano addirittura capo dello Stato, ha pensato bene di risolverlo facendo scarcerare un detenuto su 67 mila: uno a caso, una sua amica. Poi ha dichiarato bel bella ai magistrati torinesi che la interrogavano come testimone su quelle telefonate: “Si è trattato di un intervento umanitario assolutamente doveroso in considerazione del rischio connesso con la detenzione. Essendo io una buona amica della Fragni (Gabriella Fragni, compagna di Salvatore Ligresti, padre dell’arrestata Giulia, ndr) da parecchi anni, ho ritenuto, in concomitanza degli arresti, di farle una telefonata di solidarietà sotto l’aspetto umano”. E ha raccontato una bugia sotto giuramento, perché il suo non è stato solo “un intervento umanitario”, tantomeno “doveroso”, né una “telefonata di solidarietà”. È stata un’interferenza bella e buona nel normale iter della detenzione dell’amica di famiglia. Anche perché, dopo quella telefonata, ne sono seguite altre ai vicedirettori del Dap, Francesco Cascini e Luigi Pagano.
Che, a quanto ci risulta, hanno — essi sì, doverosamente — respinto le pressioni, spiegando all’incauta Guardasigilli che la detenzione di un arrestato compete in esclusiva ai giudici, non ai politici. Anche su questo punto la Cancellieri ha raccontato una bugia ai pm:
“Ho sensibilizzato i due vicecapi del Dap perché facessero quanto di loro stretta competenza per la tutela della salute dei carcerati”. Salvo poi dover ammettere che li aveva sensibilizzati su un unico carcerato: l’amica Giulia. La figlia di don Salvatore Ligresti soffriva di anoressia e rifiutava il cibo in cella, ma non è la sola malata fra i 67 mila ospiti delle patrie galere. Per questi casi esistono le leggi e i regolamenti, oltre al personale penitenziario specializzato che di solito, nonostante l’eterna emergenza, segue con professionalità le situazioni a rischio. Così come effettivamente stava avvenendo, anche da parte dei magistrati torinesi. Senza bisogno delle raccomandazioni del ministro. La Procura aveva subito disposto un accertamento medico e in seguito aveva dato parere favorevole alla scarcerazione, respinta però in un primo tempo dal gip, che aveva scarcerato la donna soltanto dopo il patteggiamento. L’iter giudiziario, dunque, non è stato influenzato dalle pressioni della ministra: ma non perché la ministra non le abbia tentate, bensì perché i vicecapi del Dap le hanno stoppate. Eppure la Cancellieri avrebbe dovuto astenersi anche dal pronunciare il nome “Ligresti”,specie dopo la retata che portò in carcere l’intera dinastia, visti i rapporti non solo familiari, ma anche d’affari che suo figlio Piergiorgio Peluso intrattiene con don Salvatore e il suo gruppo decotto. Peluso è stato prima responsabile del Corporate & Investment banking di Unicredit, trattando l’esposizione debitoria del gruppoLigresti verso la banca; poi divenne direttore generale di Fondiaria Sai (gruppo Ligresti) dal 2011 al 2012; e quando passò a Telecom, dopo un solo anno di lavoro, incassò da Ligresti una buonuscita di 3,6 milioni di euro.
Un conflitto d’interessi bifamiliare che avrebbe dovuto
sconsigliare al ministro di occuparsi della Dynasty siculo-
milanese. Non è stato così, e ora la ministra (della Giustizia!) deve pagare per le conseguenze dei suoi atti. Se restasse al suo posto, confermerebbe ancora una volta il principio malato della giustizia ad personam per i ricchi e i potenti, già purtroppo consolidato da vent’anni di casi Berlusconi, e anche dallo scandalo Mancino-Napolitano. Ma a quel punto tutti e 67 mila i detenuti potrebbero a buon diritto farla chiamare da un parente qualunque perché s’interessi dei loro 67 mila casi personali: 67 mila “conta su di me”. 
Se una telefonata accorcia la galera, che almeno valga per tutti.

Operazione Casta Concordia

Mauro Biani

PASSA LA LINEA MORBIDA. SCHIFANI: “B. COMANDERA’ LONTANO DAL PARLAMENTO”  – Stefano Feltri, Il Fatto Quotidiano

 Gli arresti domiciliari non sono una specie di convalescenza, di vacanza, di periodo di aspettativa. Sono – appunto – arresti domiciliari durante i quali ai delinquenti comuni viene inibito ogni contatto con l’esterno.
berlusconi politica non l’ha mai fatta nemmeno in parlamento e nei suoi domicili faceva altro, ad esempio le famose cene eleganti; ma basta con queste prese per il culo a getto continuo. Se la linea “morbida” è quella che consente al pregiudicato amico e pagatore di mafiosi di poter mettere ancora bocca e becco nella politica, il modo è ancora tutto da studiare, bisognerà pure inventarsi qualcosa per spiegare agli italiani ma soprattutto a chi dagli arresti domiciliari o comunque in una condizione di persona condannata a quattro anni di galera da scontare in comode rate e in un luogo a scelta del condannato non può e in nessun modo comunicare con l’esterno e figuriamoci con un parlamento della repubblica, non oso immaginare a quale sarebbe stata quella dura.

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Chissà perché a Repubblica e al Corriere della sera non interessa che l’appena nominato alla Consulta Giuliano Amato abbia avuto in passato dei comportamenti che non fanno di lui quell’esempio di moralità e imparzialità indispensabile per far parte, esserne addirittura responsabile, dell’ultimo tribunale, il più alto, la Consulta, quello preposto a stabilire cosa è giusto e cosa è sbagliato nel merito di decisioni importantissime che riguardano tutto il paese?

Non dovrebbe essere un dovere del giornalismo “indipendente” quale si vantano di essere i due suddetti quotidiani contribuire ad informare i cittadini?
Nascondere al grande pubblico i fatti che riguardano Giuliano Amato, seri, gravi e che costituiscono molto più di un precedente per fare del dottor Sottile il meno adatto a ricoprire una carica così importante, lasciare che sia il solito Fatto Quotidiano a fare i lavori sporchi, tipo chiedere le dimissioni dell’inadeguato Amato per accusarlo poi di essere il giornale dei giustizialisti, dei manettari non è la più infame e vigliacca delle azioni?

In un paese che cade a pezzi, dove le istituzioni e la politica non trovano, perché non possono e non vogliono, il modo di buttare fuori dal parlamento il pregiudicato delinquente berlusconi e un presidente della repubblica si rende complice di questa oscena operazione di salvataggio a tutti i costi fino a nominare Giuliano Amato alla Consulta, quello stesso Amato che per ben due volte il centro destra di berlusconi avrebbe voluto al Quirinale, la notizia più importante con cui aprire giornali e telegiornali può mai essere lo spostamento della nave incagliata all’isola del Giglio?

Una domanda a questi cosiddetti grandi organi di stampa e informazione: “ma per chi ci avete preso? pensate davvero di poter continuare ancora per molto a rendervi complici di questo scandalo denominato governo delle larghe intese in funzione del quale bisogna tacere su ogni nefandezza per non disturbare il progetto di pacificazione nazionale, ovvero l’annullamento della sentenza che condanna il più delinquente di tutti?”

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Il silenzio che salvò Amato dal crollo di Craxi – Massimo Fini, Il Fatto Quotidiano

[VIDEO] Giuliano Amato alla vedova del senatore Psi: “Zitta coi giudici, non fare una frittata”

In una chiamata del 1990 l’allora vice del Psi di Craxi, oggi alla Consulta, chiede
alla vedova di un senatore di non parlare dei protagonisti di una mazzetta: “Tirati fuori dalla storia”.

Giuliano Amato alla Consulta, orgasmo da Rotterdam

I consigli di Amato alla vedova di un socialista: “Zitta coi giudici, niente nomi”

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MORRA: “AMATO SI DIMETTA, DA M5S INTERROGAZIONE URGENTE”

E pensare che [se questo fosse un paese normale] queste dimissioni  le avrebbe dovute chiedere il piddì.
E non solo le sue ma anche quelle del cosiddetto garante della Costituzione.
Ma purtroppo è solo l’italietta, della politica e delle istituzioni marce e corrotte, quella della politica bella  degli inciuci, delle pastette sotto e sopra il banco.

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Dimissioni di Amato per non trascinare nel fango Consulta e Quirinale – [Peter Gomez, Il Fatto Quotidiano]

Giuliano Amato ha un’unica strada per evitare di trascinare in un colpo solo nel fango la presidenza della Repubblica e la Corte costituzionale: rinunciare al suo incarico di giudice della Consulta.

Qualunque persona di buon senso e in buona fede dopo aver ascoltato il nastro del suo colloquio telefonico con la vedova del senatore socialista, Paolo Barsacchi, scovato dal nostro valente collega Emiliano Liuzzi, non può arrivare a conclusioni diverse. Invitare una testimone in un processo per tangenti a non fare nomi per tenere fuori da uno scandalo i vertici del proprio partito è un comportamento incompatibile con la funzione di giudice costituzionale.

L’obiezione secondo cui il colloquio, registrato dalla signora Barsacchi, è molto antico (risale al 1990), non vale. Nella carriera dell’ex vicesegretario del Psi, due presidenze del Consiglio e più volte ministro, ci sono altri episodi del genere. Storie spesso diverse tra loro che dimostrano però come il caso Barsacchi, per Amato, non sia stato un incidente di percorso, ma la regola.

Bettino Craxi, infatti, utilizzò Amato per tutti gli anni ’80 e i primi anni ’90 per tentare di arginare (leggi insabbiare) il crescente numero di inchieste che coinvolgevano gli amministratori del Garofano. Non per niente l’ex sindaco di Torino, Diego Novelli, durante la bufera scatenata dalla scoperta delle mazzette versate nel suo comune a Dc, Psi e Pci, fu rimproverato proprio dal neo giudice costituzionale per aver portato in Procura il faccendiere-testimone d’accusa Adriano Zampini “anziché risolvere politicamente la questione”. E nel 1992, quando il dottor Sottiledivenne per la prima volta premier, fu proprio il suo governo a spingere il Sismi e il Sisde a raccogliere dossier sui magistrati di Mani Pulite che stavano scoperchiando l’enorme rete di corruttele che aveva messo in ginocchio il Paese.

Lo si legge nella relazione del Comitato parlamentare di controllo sui servizi di sicurezzadel 6 marzo del ’96 e lo racconta nel suo libro, Sorci Verdi, l’ex ministro dell’Ambiente del governo Amato, Carlo Ripa di Meana: “Giuliano mi riproverò: disse che l’azione giudiziaria di Mani Pulite – come indicavano i servizi e il capo della Polizia Vincenzo Parisi – era un pericolo per le istituzioni”. Una considerazione significativa che dimostra come nella testa del neo giudice costituzionale alberghi da sempre un singolare ragionamento: il problema in Italia non sono i ladri e le ruberie, ma chi li scopre.

Anche per questo, ma non solo, oggi le istituzioni sono di nuovo in pericolo. Quale fiducia potranno avere d’ora in poi i cittadini nelle decisioni della Consulta, visto che tra loro siede un giudice che giustifica e anzi consiglia ai testimoni di essere reticenti? Cosa penseranno delle scelte del Quirinale gli italiani quando sentiranno Giorgio Napolitano ripetere le parole da lui stesso utilizzate un anno fa, il 25 settembre del 2012: “Chi si preoccupa dell’antipolitica deve risanare la politica” perché “far vincere la legge si può come avvenne contro la mafia, come dimostrano Falcone e Borsellino”?

Domande retoriche. Alle quali in qualsiasi Paese del mondo non si risponde con il silenzio imbarazzato dei partiti delle larghe intese di queste ore, ma con una lettera d’immediate dimissioni. La firmerà Amato? Alla luce dell’esperienza pensiamo di no. Ma per una volta ci piacerebbe essere smentiti. Vedere l’ex vice-segretario Psi picconare con la sua presenza ciò che resta della credibilità di Consulta e Quirinale è un brutto spettacolo.  È una di quelle  scene di cui l’Italia non ha davvero più  bisogno.

Se questo è un paese normale [niente di nuovo sul fronte Quirinale]

Sottotitolo: dal caos, come diceva Nietzsche, può nascere perfino una stella danzante.
Dall’ordine invece, quello imposto in ragione di un’emergenza che viene usata come arma di ricatto e verso cui non è stato preso ancora nessun provvedimento utile, nascono i governi delle larghe intese.

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Avrei rivalutato la figura di Napolitano se al posto dell’inutilissimo conato di monito di ieri  avesse dato le dimissioni,  lasciato le questioni relative al PREGIUDICATO CONDANNATO silvio berlusconi in mano a chi le ha create: un centrosinistra di falliti che per vent’anni ha fatto solo finta di fare opposizione a berlusconi dopo avergli dato le chiavi del palazzo e la banda dei disonesti come lui che in tutti questi anni ha scelto di svendere la sua dignità ad un eversore, uno che con lo stato, con uno stato di diritto non c’entra niente.

Qualsiasi condannato dopo il terzo grado di giudizio subisce l’esecuzione della sentenza:  va in galera, silvio berlusconi no, può vantare ancora titoli come “cavaliere”, “senatore” ed essere trattato con ossequio dalla politica e dalle istituzioni.  Se “il leader incontrastato di una formazione politica di innegabile importanza” avesse commesso un omicidio, stuprato un bambino sarebbe stata la stessa cosa?  perché un reato è un reato. Almeno così dice la nostra cara e bella Costituzione nei capitoli dove precisa che i cittadini sono tutti uguali e che la legge è uguale per tutti.

Sperare che sia la politica a liberarsi del PREGIUDICATO CONDANNATO berlusconi  è una chimera: qualcosa che nessuno in tutti questi anni ha mai avuto l’intenzione di fare.

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“B? Sentenza definitiva, prenderne atto
Grazia? Non c’è stata nessuna richiesta”

Napolitano lascia la porta aperta al pregiudicato: “Esaminerò un’eventuale domanda di clemenza”.
Sul suo futuro politico: “Spetta a Berlusconi decidere”. Poi: “Una crisi del governo sarebbe fatale”.

Napolitano non chiude la porta alla richiesta di grazia per Silvio Berlusconi, ma lo invita a prendere atto della decisione della Cassazione perché “di qualsiasi sentenza definitiva, e del conseguente obbligo di applicarla, non può che prendersi atto”. Sul punto più controverso, la domanda di grazia, nessuna preclusione anche se, non solo non si conoscono ancora le motivazioni della sentenza che arriveranno a settembre, ma l’ex premier non ha mai dimostrato accenni di pentimento rispetto al reato per cui è stato condannato, ossia frode fiscale.

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La vergogna non abita più qui, se n’è dovuta andare per fare spazio all’indecenza. 

L’unica cosa sensata che avrebbe dovuto fare Napolitano sarebbe stata rifiutare il secondo mandato visto che già nel primo aveva dato ampi segnali di squilibrio istituzionale rispetto alle numerose vicende giudiziarie che riguardano il PREGIUDICATO CONDANNATO [oggi più che mai bisogna ripeterla questa cosa] silvio berlusconi.

Accettandolo invece ha solo confermato che quella che si ripete da tanto tempo circa la  sua eccessiva comprensione e magnanimità verso berlusconi non è la solita teoria complottistica né una chiacchiera da cortile ma sia davvero originata e motivata da qualcosa che potrebbe dare fastidio a Giorgio Napolitano, che berlusconi sa ma gli italiani no e devono continuare a non sapere, come i contenuti delle famose bobine delle telefonate con Mancino distrutte subito dopo la rielezione di Napolitano, e probabilmente è anche per questo che Napolitano ha dovuto accettare il secondo mandato.

Perché se c’è qualcosa che un presidente della repubblica dovrebbe, deve, è obbligato a garantire è che vengano rispettate le leggi, la Costituzione, i suoi comandamenti.
Mentre quel che ha fatto Napolitano sempre ma in misura maggiore da che esiste il suo bel governo di larghe intese napoletane è proprio e solo tutt’altro: ha dimostrato e confermato di non essere affatto quel presidente garante di tutti ma esclusivamente della casta cui lui appartiene dalla bellezza di sessant’anni.

Di fronte ad una Magistratura svilita, insultata, diffamata e offesa tutti i giorni lui non ha garantito per la Magistratura nemmeno da capo del CSM qual è ma ancora una volta per chi svilisce, insulta, diffama e offende i giudici, ovvero il PREGIUDICATO CONDANNATO silvio berlusconi e la teppa che gli regge i giochi, a destra come a sinistra.

E di fronte ai cittadini di un paese che non possono godere di nessuna tutela speciale, che se violano la legge sono obbligati a subirne tutte le conseguenze fra le quali anche la galera se la violazione la richiede lui non ha garantito per loro, per noi, ma ancora una volta per lui: quello più uguale degli altri ma solo perché qualcuno, fra cui anche Napolitano, ha fatto in modo che lo potesse diventare.

 Questo è quello che avevo scritto cinque minuti dopo la rielezione di Napolitano: confermo e ribadisco tutto: “Il più possibile condiviso, sì. Non sia mai che corruttori, mafiosi, tangentari e delinquenti debbano essere privati della loro quota di rappresentanza dello e nello stato, visto che gli si dà la possibilità di contribuire alla scelta del capo dello stato. Garanzia ci vuole, altroché”.

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Quirinal parto
Marco Travaglio, 14 agosto

In attesa che i luminari a ciò preposti, con lenti di ingrandimento e occhiali a raggi infrarossi, ci diano l’interpretazione autentica del Supermonito serale del presidente della Repubblica e dell’incunabolo che lo contiene, una cosa è chiara fin da subito: il fatto stesso che sia stato emesso già dimostra che Silvio Berlusconi non è un cittadino uguale agli altri. 

Mai, infatti, in tutta la storia repubblicana e pure monarchica, un capo dello Stato – re o presidente della Repubblica – era mai intervenuto su una condanna definitiva di Cassazione per pregare il neopregiudicato di restare fedele al governo, facendogli balenare in cambio la grazia e garantendogli che non finirà comunque in galera. Intanto perché spetta al giudice di sorveglianza, e non a Napolitano, applicare al caso concreto la legge svuota-carceri del 2010: fino alla condanna di Sallusti, infatti, chi doveva scontare fino a 1 anno di pena (totale o residua) finiva dentro e di lì chiedeva gli arresti domiciliari; dopo invece, per salvare Sallusti, il procuratore capo di Milano decise che la pena viene comunque sospesa e si tramuta automaticamente in domicilio coatto. 

Ma l’ultima parola appunto spetta al giudice, non al Quirinale. 

Il fatto poi che la grazia, per ottenerla, uno debba almeno fare lo sforzo di chiederla dopo aver riconosciuto la sentenza di condanna (“prenderne atto” è perfino poco), è noto e arcinoto alla luce della sentenza della Consulta 200/2006: quella che diede ragione a Ciampi nel conflitto col ministro Castelli per la grazia a Bompressi. 

Solo che quella sentenza dice ben più di quel che Napolitano le fa dire: afferma che la grazia può essere motivata solo con “eccezionali esigenze di natura umanitaria”, mai “politiche”. Se fosse un atto politico, richiederebbe il consenso e la controfirma del governo, visto che per gli atti politici il Presidente è irresponsabile. Ma siccome la grazia deve rispondere a una “ratio umanitaria ed equitativa” per “attenuare l’applicazione della legge penale” quando “confligge con il più alto sentimento della giustizia sostanziale” e per “mitigare o elidere il trattamento sanzionatorio… garantendo soprattutto il ‘senso di umanità’ cui devono ispirarsi tutte le pene non senza trascurare il profilo di ‘rieducazione’ proprio della pena”, essa “esula da ogni valutazione di natura politica” ed è “naturale” attribuirla in esclusiva al Colle. 

E qui Napolitano si dà la zappa sui piedi, quando dice che il condannato in carcere non ci andrà, dunque non c’è alcuna detenzione disumana da “mitigare”. Infatti rivendica il potere di graziare B. per motivi tutti politici (la sopravvivenza del governo, la condanna di un ex presidente del Consiglio): proprio quelli esclusi dalla Consulta, che verrebbe platealmente calpestata da una grazia a B.. Se poi, come scrive, la grazia non gliel’ha chiesta nessuno, non si capisce a chi Napolitano risponda, e perché. Non una parola, poi, sulla gravità del reato di B: la frode fiscale. 

Né sui vergognosi attacchi ai giudici. Né sui 5 procedimenti in cui è ancora imputato: che si fa, lo si grazia una volta all’anno per tenerlo artificialmente a piede libero? La grazia seriale multiuso non s’è mai vista neppure nello Zimbabwe, ma dobbiamo prepararci a tutto. Nell’attesa, resta lo spettacolo grottesco e avvilente del Quirinale trasformato per due settimane in un reparto di ostetricia geriatrica, con un viavai di giuristi di corte e politici da riporto travestiti da levatrici con forcipi, bende, catini d’acqua calda, codici e pandette, curvi sull’anziano puerpero per agevolare il parto di salvacondotti, agibilità e altri papocchi impunitari ad personam per rendere provvisoria una sentenza definitiva e cancellare una legge dello Stato (la Severino su incandidabilità e decadenza dei condannati). 

Ieri sera, al termine di una lunga attesa che manco per il principino George, il partoriente ha scodellato un mostriciattolo che copre ancora una volta l’Italia di vergogna e ridicolo. 
Ma è solo l’inizio: coraggio, il peggio deve ancora venire.

Il governo dei larghi sottintesi

Mucchetti [pd], che insieme al suo collega Zanda ha proposto una legge per dilatare i tempi di sopravvivenza di berlusconi in parlamento a discapito di quella del paese, non voterà la mozione di sfiducia all’inutile ministro dell’interno alfano, quello che non sapeva, non c’era e nessuno gli dice niente se un mezzo esercito di polizia va a rapire e sequestrare persone colpevoli di niente perché la vicenda di Alma e Alua si deve inserire semplicemente in un contesto di realpolitik; cose che succedono “ma che speriamo non accadano più” che non devono e non possono determinare la caduta del governissimo del largo inciucio.

Ecco: io auguro a Mucchetti e a tutti quelli come lui, quindi quasi tutti,  che qualcuno li faccia uscire dal parlamento, quando questo incubo sarà finito, con le stesse dinamiche da realpolitik utilizzate per due persone innocenti, una delle quali è una bambina.

Il fatto che alfano non si dimetta, calderoli non si dimetta, Napolitano che non fiata sulla vicenda kazaka, la difesa disperata e ridicola di letta che “non vede nubi” mentre invece dovrebbe sentire il peso di una meteorite che gli è cascata addosso è un’offesa per tutta l’Italia onesta e perbene. 

 In un paese normale TUTTO il governo avrebbe fatto le valigie, e invece sono ancora tutti lì a dire di non aver capito, di non sapere e che insomma, madre e figlia se la caveranno.  La politica dello ‘sticazzismo sfrenato a vantaggio e beneficio delle proprie poltrone rese intoccabili dal presidente della repubblica anche a sprezzo del ridicolo.

Per tacere di tutti quelli che si staranno fregando le mani per l’assoluzione del generale Mori che di fatto vanifica ogni speranza di fare chiarezza sulla trattativa tutt’altro che presunta fra lo stato e la mafia.

Nota a margine: quei quasi 92 milioni, tutti per medicine, fino all’ultimo centesimo.

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Alfano e Calderoli, si salvi chi può? [Peter Gomez, Il Fatto Quotidiano]

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Renzi: ‘Perdiamo voti per le poltrone’

Democratici divisi sul ministro dell’Interno. I renziani chiedono le dimissioni. Anche Finocchiaro per
il passo indietro. La segreteria si schiera: “Esecutivo deve andare avanti”. E Letta dice: “Non vedo nubi”.

Camera boccia stop finanziamento partiti
Flash mob M5S: “Si tengono il malloppo”

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Al di sotto di ogni sospetto
Marco Travaglio, 18 luglio

Non c’è analisi politica o sentenza giudiziaria che descriva la nostra classe dirigente meglio di un detto napoletano: “Fa il fesso per non andare in guerra”. Si riferisce all’usanza di fingersi scemi alla visita di leva per essere riformati. Poi, naturalmente, capitava che qualcuno venisse riformato perché era scemo davvero. Ecco, noi non sappiamo quanti politici o imprenditori o manager o funzionari o alti ufficiali siano scemi e quanti fingano di esserlo.

Ma prendiamo atto che molti, moltissimi, fanno di tutto per sembrarlo. 

E, va detto a loro onore, ci riescono benissimo. L’altra sera Angelino Alfano, nientemeno che segretario del Pdl, vicepremier e ministro dell’Interno, doveva essere davvero orgoglioso della sua performance davanti al Senato e poi alla Camera, quando leggeva solenne e ieratico il rapporto Pansa che gli faceva fare la figura del fesso, tra un “aperte virgolette”, un “chiuse le virgolette” e un “aperte e chiuse le virgolette all’interno del virgolettato”. 

Manco si rendeva conto di essere la parodia di Alberto Sordi che, nel film Il vedovo , ripassa con i complici il piano per far precipitare la moglie nella tromba dell’ascensore, nella quale alla fine sprofonderà lui (“Volta foglio! Proseguiamo: paragrafo 21, volta pagina! Alt!”). Ora c’è pure il Procaccini espiatorio che racconta: fu il ministro a chiedermi di incontrare l’ambasciatore kazako e, dopo, gli riferii le sue richieste. Ma il premier Nipote non sente ragioni: “Alfano è totalmente estraneo”, dunque resta al suon posto. In fondo è per questo che andiamo a votare: perché venga fuori una maggioranza che esprima un governo che nomini dei ministri che non sappiano una mazza di quel che avviene nel loro ministero. 

Totalmente estranei. Sono lì apposta: per non sapere nulla. Dunque Jolie è assolto — si dice in linguaggio penalistico — per totale incapacità di intendere e volere. Di solito, il passo successivo è il ricovero in un’apposita comunità di recupero. Ma pure il governo può andar bene. Lo stesso dicasi per i politici Prima e Seconda Repubblica, destra e sinistra, che fino all’altroieri han fatto affari con Ligresti: chi l’avrebbe mai detto che era un poco di buono. In fondo don Salvatore già vent’anni fa entrava e usciva dalle patrie galere. In fondo le sue aziende colavano a picco da anni mentre i compensi della famiglia lievitavano (nel 2008-2010, 9 milioni a Jonella più laurea honoris causa all’Università di Torino in Economia aziendale, e in cosa se no?; 10 a Gioacchino Paolo; 3,4 a Giulia; 8 al manager Talarico; 15 al manager Marchionni). Chi l’avrebbe mai detto che sarebbe tornato al gabbio. Pareva una così brava persona. E Tronchetti Provera? Sono sei anni che tutti sanno dello spionaggio ordito dalla Security Telecom del fedelissimo Tavaroli nell’ufficio accanto al suo, e tutti a domandarsi: chissà mai se Tronchetti lo sapeva. Qualcuno si sbilanciò a ribattezzarlo Tronchetti Dov’Era.

Poi ieri arriva una sentenza, di primo grado per carità: forse sapeva. In un paese decente si leverebbe un coro di giubilo (anche da lui): meno male, vuol dire che almeno era un buon capo. Invece no. La comunità finanziaria è sgomenta: ma come, un top manager che sa qualcosa di quanto accade nella sua azienda? Dove andremo a finire. Quel che è certo invece da ieri — in attesa delle motivazioni — è che il generale Mori era sì un grande detective antimafia. Però prima catturava un boss e non gli perquisiva il covo; poi l’altro boss non lo catturava proprio. Ma sempre in buona fede (il fatto non costituisce reato: cioè è vero, ma senza dolo). Mica voleva favorire la mafia: semmai lo Stato, ammesso e che ci sia qualche differenza. Anche lui agiva a sua insaputa, mirabile emblema di una classe dirigente al di sotto di ogni sospetto. Alla fine però chi fa il fesso è furbo. Il vero fesso — scriveva Giuseppe Prezzolini — “è stupido. 
Se non fosse stupido avrebbe cacciato via i furbi da parecchio tempo”.

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Il ministro ombra –  Massimo Gramellini, La Stampa, 18 luglio

È possibile che travestire una palestra da prima casa sia colpa infinitamente più grave che consegnare moglie e figlia di un dissidente al satrapo di un Paese fornitore di petrolio. Quindi non le dimissioni della perfida Idem si pretendono dal timido Alfano, ma semmai un’immissione sulla poltrona di ministro dell’Interno, che per sua stessa ammissione è attualmente disabitata. Alfano ha un vero talento nel non abitare le poltrone che occupa. Sarà per questo che gliene offrono in continuazione. Se fosse stato effettivamente il segretario del Pdl, quando il proprietario del partito gli fece ringoiare la promessa delle primarie avrebbe dovuto dimettersi. Ma lui non è il segretario del Pdl, lui non è il ministro dell’Interno, lui probabilmente non è neanche Alfano, ma un cortese indossatore di cariche per conto terzi. Tra le tante squisitezze che ha pronunciato l’altro giorno al Senato vi è l’affermazione perentoria che al cognato della signora kazaka (o kazakistana, per citare quell’acrobata del vocabolario di La Russa) i poliziotti non abbiano torto un capello. E pazienza se nell’intervista al nostro Molinari il cognato racconta di essere stato preso a pugni e ceffoni, come conferma il verbale del pronto soccorso pubblicato dall’«Espresso». Alfano era e rimane all’oscuro di tutto: pugni, ceffoni, cognati, forse anche che esista una polizia e che sia alle sue dipendenze. 
Rimane la speranza che certi giudizi come questo lo offendano a morte e che in un soprassalto di dignità il ministro ombra di se stesso si dimetta, preferendo passare per responsabile che per inutile. Ma la nostra è, appunto, solo una speranza.

Italia: un paese a servitù illimitata

Oggi l’America festeggia la sua giornata dell’indipendenza,  noi siamo più fortunati perché possiamo festeggiare e celebrare tutti i giorni dell’anno quella del servilismo tout court.

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Sottotitolo: Giorgio Napolitano, Enrico Letta, Emma Bonino, Angelino Alfano, Fabrizio Saccomanni, Mario Mauro e Flavio Zanonato, più l’ammiraglio Nato Luigi Binelli Mantelli.

No, siccome in queste ore tutti stanno parlando del mitico ‘Consiglio Supremo di difesa’, diamo almeno un nome e un cognome ai signori che attorno a un tavolo del Quirinale hanno proibito al Parlamento di decidere sugli F35.  [Alessandro Gilioli]

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Quando Grillo disse che il parlamento non serve a niente, che “è stato spossessato del suo ruolo di voce dei cittadini” si beccò i soliti strali degli abituée compresa una scandalizzatissima Laura Boldrini che lo accusò di mancare di rispetto alle istituzioni.

Qualche giorno fa l’ha detto anche Gino Strada, ha parlato di un parlamento inutile perché “pieno di papponi, pedofili e condannati” e ha ricevuto l’applauso anche di quelli che Grillo lo contestano ormai per inerzia.

Oggi che Napolitano conferma che è vero, il parlamento non conta niente e potrebbe chiudere anche non domani ma adesso spero che siano tutti d’accordo: quelli che che non erano d’accordo con Grillo ma con Strada sì e anche viceversa.

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Se l’esercito, le forze armate prendono il potere siamo sicuri che la vittoria sia del popolo? io no. 

Leggo tanto entusiasmo nei confronti degli egiziani che si sono liberati del tiranno, tante persone che scrivono “perché noi no”, a loro dico: perché no. 

Perché quando il potere veste una divisa non è mai cosa buona e giusta.

Quando i Partigiani hanno organizzato la Resistenza si sono affidati solo a loro stessi, non avevano i carri armati.

 I militari sono da sempre il braccio armato del potere, di qualsiasi potere. Il fatto che Obama non abbia nemmeno pronunciato la parola ‘golpe’ in riferimento agli eventi egiziani la dice lunga. Nessuno in occidente ha interesse alla liberazione dei paesi orientali, altrimenti da quel dì che avrebbero lavorato per farlo.

L’oriente serve così com’è, pozzo infinito di risorse da svuotare per arricchire i capitalisti d’occidente.

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La nomina di De Gennaro a capo di Finmeccanica spiega benissimo, semmai ce ne sia davvero la necessità, che la competenza è l’ultimo pensiero per questo governo e in generale di tutti.

Ogni persona che viene messa nei posti strategici ci va per altre ragioni che la non condanna di De Gennaro per le sue responsabilità nei massacri di Genova, per aver  «gettato discredito sull’Italia agli occhi del mondo intero» come recita la sentenza della Cassazione, quel  «puro esercizio di violenza da parte della polizia» da lui voluto e ordinato, la sua successiva nomina a sottosegretario per la sicurezza nazionale voluta da Monti, dovrebbero essere chiare anche agli occhi di chi non vede.

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Salvate i soldati della libertà

di Barbara Spinelli
[…] È utile conoscere il tragitto dei moderni whistleblower. Il soldato Manning a un certo punto non ce la fece più, e passò al fondatore di Wikileaks Assange documenti e video su occultati crimini americani: l’attacco aereo del 4 maggio 2009 a Granai in Afghanistan (fra 86 e 147 civili uccisi); il bombardamento del 12 luglio 2007 a Baghdad (11 civili uccisi, tra cui 3 inviati della Reuters. Il video s’intitola Collateral Murder, assassinio collaterale).Accusato di alto tradimento è l’informatore, non i piloti che ridacchiando freddavano iracheni inermi. Arrestato e incarcerato nel maggio 2010, Manning è sotto processo dal 3 giugno scorso. Un “processo-linciaggio”, nota lo scrittore Chris Hedges, visto che l’imputato non può fornire le prove decisive. I documenti che incolpano l’esercito Usa restano confidenziali; e gli è vietato invocare leggi internazionali superiori alla ragione di Stato (princìpi di Norimberga sul diritto a non rispettare gli ordini in presenza di crimini di guerra, Convenzione di Ginevra che proibisce attacchi ai civili).Gli stessi rischi, se catturato, li corre Snowden, ex tecnico del NSA: ne è consapevole, come appunto i rivoluzionari. A differenza delle vecchie gole profonde, i whistleblower militano per un mondo migliore. Sono molto giovani: Snowden ha 30 anni, Manning ne aveva 22 quando mostrò il video a Wikileaks. Sono indifferenti a chi bisbiglia smagato: «Spie ce ne sono state sempre». Non fanno soldi. Alcuni agiscono all’aperto: Snowden ha contattato Greenwald, che da anni scrive sul malefico dualismo libertà-sicurezza. Altri rimangono anonimi finché possono, come Manning. Daniel Ellsberg, il rivelatore dei Pentagon Papers che nel ’71 accelerò la fine dell’aggressione al Vietnam, può essere considerato il capostipite dei whistleblower. Per lui Snowden è un eroe. Quel che ci ha dato è la conoscenza: esiste un’Agenzia, che nel buio sorveglia milioni di cellulari e indirizzi mail in America e nel mondo.[…]

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Vassallate – Massimo Rocca – Il Contropelo, Radio Capital

Oggi servirebbero quattro poltrone. La sentenza della consulta che distrugge la politica anti sindacale di Marchionne. Le due napolitanate di giornata, la marcia indietro sul incredibile rifiuto di ricevere Beppe Grillo, la sconvolgente pretesa del consiglio nazionale di difesa da lui presieduto di esautorare il Parlamento sulla questione degli F35. L’Egitto dove come dicono i statirici statunitensi un esercito equipaggiato dagli americani fa un golpe contro un governo appoggiato dagli americani. Però il fatto del giorno è l’interdizione dello spazio aereo europeo all’aereo di Evo Morales, decisa dai cosiddetti governi democratici occidentali. La perquisizione dell’aereo come fosse quello di un trafficante di coca, alla ricerca di Snowden. Eccoli qui i feudatari, i vassalli che solo il giorno prima facevano finta di indignarsi per le cimici nelle ambasciate, violare tutte le prerogative di un capo di stato, pur di ingraziarsi l’imperatore, benchè scuro di pelle. Schiene di gomma e lingue biforcute.

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L’aula sorda e grigia
Marco Travaglio, 4 luglio

Com’è noto i cacciabombardieri F-35 sono inutili, ma sarebbero uno spreco anche se fossero utili. Pare infatti che queste carcasse volanti cappòttino da ferme. Tant’è che Gran Bretagna, Olanda, Danimarca, Australia e Turchia hanno già rimesso in discussione il progetto. Noi no, anzi. L’8 aprile 2009, due giorni dopo il terremoto in Abruzzo, mentre si raccoglievano 300 vittime, si soccorrevano migliaia di feriti e il governo Berlusconi faceva passerella sulle macerie senza trovare un euro per ricostruire L’Aquila, le commissioni Difesa di Camera e Senato votavano il via libera per l’acquisto di 131 F-35 (poi ridotti a 90) al modico costo di 15 miliardi. Nessun voto contrario: l’impavido Pd, anziché opporsi, uscì dalla stanza e non partecipò al voto, in linea con il suo programma scritto direttamente da Ponzio Pilato (a parte la senatrice Negri che, in un soprassalto di coraggio, restò dentro e si astenne). Ora però il Parlamento è infestato di marziani, i famigerati grillini, che con Sel fanno quel che il centrosinistra non ha mai fatto: opposizione. E il Pd, non abituato, si barcamena. Memorabile la mozione bipartisan dell’altro giorno per il solito rinvio, che impegna il governo “relativamente al programma F-35, a non procedere a nessuna fase di ulteriore acquisizione senza che il Parlamento si sia espresso nel merito, ai sensi della legge 244/2012”. Una supercazzola che non vuol dire nulla, vista la maggioranza bulgara del governo che procede per decreti e fiducie. Ma la sola idea che il Parlamento torni a esistere e a dire qualcosa “nel merito”, ha fatto saltare la mosca al naso di Sua Altezza Reale Giorgio Napolitano, descritto dai giornali come “molto irritato” per la lesa maestà commessa dalle Camere nei confronti suoi e della nostra sovranità limitata dagli Usa. 

Così il Re Bizzoso ha riunito il Consiglio Supremo di Difesa, di cui s’erano perse le tracce da tempo, solitamente dedito a tornei di burraco e canasta fra generali in pensione e signore, con i camerieri in uniforme e mostrine che servono il vermut con l’olivetta, e ha diramato un supermònito categorico e impegnativo per tutti: “la facoltà del Parlamento” riconosciuta dalla legge 244/2012 “non può tradursi in un diritto di veto su decisioni operative e provvedimenti tecnici che, per loro natura, rientrano tra le responsabilità costituzionali dell’esecutivo”. Cioè: nel 2012 il Parlamento fa una legge, la 244, promulgata da Napolitano, per raccomandare un risparmio sulle spese militari e stabilire che quelle “straordinarie” devono passare dal Parlamento, così come le ordinarie che completino “programmi pluriennali finanziati nei precedenti esercizi con leggi speciali”. Non solo: spetta alle Camere l’ultima parola sulle spese militari in base alla situazione internazionale e alle disponibilità finanziarie dello Stato, per evitare “nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”. Proprio il caso degli F-35. Ma Napolitano, che si crede il capo del governo, dei giudici e ora pure del Parlamento, fa dire alla legge il contrario di quel che dice e la usa per esautorare le Camere, già peraltro ridotte a fotocopiatrici dei diktat di Palazzo Chigi, cioè del Colle. Ce ne sarebbe abbastanza per un conflitto di attribuzioni fra le Camere e il Quirinale contro questo golpetto senza carri armati. Ma i due camerieri del Colle che le presiedono non alzano neppure un sopracciglio. E Fantozzi-Franceschini ringrazia il Presidente per il “giusto richiamo alla separazione dei poteri”: solennissima vaccata, visto che il Consiglio Supremo di Difesa non è un potere dello Stato, ma un organo consultivo-esecutivo di norme decise da altri (in teoria, dal legislativo). 
Una domanda, a questo punto, sorge spontanea: visto che ormai il Presidente decide pure il nostro menu al ristorante e il colore dei nostri calzini, per raggiungere l’agognato presidenzialismo che bisogno c’è di riformare la Costituzione? 
Ma soprattutto: quale Costituzione?