Non si dice trattativa: aut aut sì [Come se cambiare una parola o evitare di pronunciarla possa modificare e invertire il corso della storia]

 

Come può essere una vittoria delle istituzioni un presidente della repubblica che viene sollecitato più volte, dopo varie ritrosie giustificate dal fatto che non avesse niente da dire mentre non pare affatto, a testimoniare in un processo di mafia.
La vittoria dello stato sono le istituzioni che non vengono mischiate con la mafia manco per sbaglio.
L’unico settore dello stato che dovrebbe avere a che fare con la mafia è la magistratura, nel paese dove vincono le istituzioni. Grandi esempi di rettitudine e trasparenza delle nostre istituzioni, dei politici che usano il ruolo per proteggere se stessi e non per mettersi a disposizione dei cittadini che rappresentano. Tutti bravi ad usare gli scudi previsti da quella Costituzione dove però non c’è scritto che lo stato dovesse scendere a patti col sistema mafioso, farsi ricattare dalla mafia.
Le notti della repubblica possono presentarsi anche alle dieci di mattina, tanto sono pochi quelli che si accorgono di chi ha spento la luce in questo paese.

Napolitano: ci fu un aut aut della mafia

Al di là di ogni interpretazione corretta, fatta in punta di diritto e di Costituzione, di prerogative concesse al capo dello stato circa la testimonianza di Napolitano l’unica cosa certa, incontrovertibile, è che fino ad un certo punto della storia di questo paese la mafia ha fatto esplodere bombe ovunque su e giù per l’Italia, ha compiuto stragi dove sono morte centinaia di persone innocenti, gli stessi protagonisti della lotta alla mafia: quelli che non trattavano e che lo stato non ha protetto, ad un certo punto non lo ha fatto più.
Ma la mafia non ha smesso di essere né di esistere.

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UN PRECEDENTE ASSAI SPIACEVOLE (Michele Ainis)

 “Ma che l’avvocato di Riina diventi per un giorno il portavoce del Quirinale, almeno questo è un paradosso che potevamo risparmiarci”.

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La parola “trattativa” non è mai stata pronunciata nel corso della testimonianza di Napolitano alla Corte di Palermo trasferita di sana pianta al Quirinale ma si è parlato di un aut aut da parte della mafia che si può tranquillamente tradurre almeno nell’alleggerimento del regime carcerario ai mafiosi del 41bis che Conso, allora ministro della giustizia, disse di aver deciso autonomamente.
Non c’è stata trattativa ma i due attentati alle chiese di Roma: San Giovanni [Spadolini] e san Giorgio al Velabro [Giorgio come Napolitano] presidenti del senato e della camera di allora furono dei segnali ben precisi come ha confermato in molte interviste anche la presidente dell’associazione delle vittime di via dei Georgofili.
Nessuna trattativa né patto ma appare piuttosto evidente che lo stato fu in qualche modo convinto o costretto a trovare un modo per salvare dalle vendette mafiose alcuni politici di allora.
Non c’è stato patto fra lo stato e la mafia ma subito dopo gli “attentatuni” di Capaci e Palermo dove morirono due galantuomini di questo paese e le loro scorte la cosiddetta seconda repubblica regalò all’Italia silvio berlusconi che continua ad essere ben presente nell’assetto della politica di oggi nonostante sia ormai ben conosciuta la sua più che vicinanza con l’ambiente mafioso nelle figure di dell’utri, che costruì materialmente forza Italia, il partito della discesa in campo e di quel vittorio mangano che b. fu obbligato ad assumere in qualità di stalliere ma che in realtà svolgeva tutt’altre funzioni in casa berlusconi.
Non c’è stato patto né trattativa ma sicuramente il ricatto sì, altrimenti le istituzioni e la politica non avrebbero riaccolto berlusconi a braccia aperte nonostante la sua reputazione corrotta, la condanna per frode. Uno stato serio, una politica seria mettono fuori gioco un delinquente conclamato e condannato in via definitiva per aver rubato a quello stato, non si aggrappano alla favoletta che “porta i voti”.
Le istituzioni di un paese serio lavorano e agiscono affinché i cittadini non debbano mai avere nemmeno l’ombra di un sospetto su chi si occupa della gestione dello stato, noi qui abbiamo non solo le ombre ma perfino e proprio le certezze.

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A margine di questa vicenda penso questo: una persona che non ha niente da nascondere, che ricopre un ruolo che è anche di esempio, di guida, di forte responsabilità verso il paese si mette a disposizione, non si chiude in prima istanza dietro il “non ho niente da dire”. Soprattutto ad un’età in cui non te ne dovrebbe fregare nulla di come sarà domani per te, ogni giorno è un furto alla morte.
Invece Napolitano ha dedicato tutta questa sua ultima parte di vita a fare in modo che la gente perdesse ogni giorno di più la fiducia in questo paese e nello stato che lui rappresenta anche in virtù di certe sue azioni, comportamenti, decisioni eccetera.

Chi ha memoria e onestà sufficiente ricorda, chi non sa è colpevole.
Quindi lui se ne andrà, naturalmente per questioni anagrafiche molto prima di chi invece aveva bisogno di ritrovare un po’ di fiducia perché ha qualche domani da vivere più di un novantenne a cui la vita ha dato onori e gloria anche senza nessun merito particolare: per cosa verrà ricordato Napolitano nei libri di scuola e di storia? Non c’è nulla di significativo che si possa associare alla sua figura politica.
Nulla.
Quello che è accaduto ieri è la conferma che l’Italia è un paese che rimarrà meschino, pieno di gente piccola che ha svenduto la sua dignità in funzione del peggioramento del futuro di tanta gente. Nessuno parlerebbe a proposito della testimonianza di Napolitano come di vittoria delle istituzioni né di un evento di importanza storica. E  qui mi riferisco ancora e di nuovo agli organi preposti al controllo del potere, una cosa importantissima e fondamentale per la tenuta del paese, dello stato e della democrazia che qui non si fa: non lo ha fatto chi si doveva opporre a politiche sbagliate perché manifestamente non in grado di condurre il paese nel verso giusto e non lo ha fatto la quasi totalità dell’informazione sempre prona al potente prepotente di turno,  perché se ci fosse stato un vero controllo rigoroso e puntuale invece dell’adeguamento progressivo al potere per vari interessi e opportunismi oggi la situazione sarebbe senz’altro migliore di questa.
Imputare tutto alla gente è disonestà, è non aver capito come giorno dopo giorno questo paese sia stato volutamente trascinato in questa condizione di non ritorno di una democrazia nata fragile, che non si reggeva in piedi, e invece di difenderla chi poteva e doveva le ha dato il colpo di grazia.

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Fortuna che era inutile – Marco Travaglio

La Triade dello Stato sapeva del ricatto: poi il governo sbracò.
NAPOLITANO RICORDA LE CONSULTAZIONI CON SCALFARO E SPADOLINI SULLA PISTA CORLEONESE E IL MOVENTE DI ”AUT AUT” ALLE ISTITUZIONI. MA I SERVIZI DEPISTAVANO.

Chissà che cosa scriverà, ora, chi aveva teorizzato che la testimonianza di Napolitano era inutile, superflua, un pretestuoso accanimento dei pm di Palermo a caccia di vendette per il conflitto di attribuzioni, un pretesto per “mascariare” il presidente della Repubblica agli occhi degli italiani e del mondo intero, per trascinarlo nel fango della trattativa Stato-mafia, per spettacolarizzare mediaticamente un processo già morto in partenza sul piano del diritto, naturalmente per violare le sue prerogative autoimmunitarie, e altre scemenze. Quel che è accaduto ieri nella vecchia Sala Oscura del Quirinale è la smentita più plateale e, per certi versi, sorprendente di tutti gli inutili (quelli sì) fiumi d’inchiostro versati per un anno e mezzo da corazzieri, paggi e palafrenieri di complemento che, con l’aria di difendere Giorgio Napolitano, hanno guastato forse irrimediabilmente la sua immagine pubblica, spingendolo a trincerarsi dietro segreti immotivati, privilegi inesistenti, regole riscritte ad (suam) personam e spandendo tutt’intorno a lui una spessa e buia cortina fumogena che ha indotto molti cittadini a sospettare.

Quando ieri, finalmente, il capo dello Stato s’è trovato di fronte ai giudici e ai giurati della Corte d’Assise, ai quattro pm e ai legali degli imputati (mafiosi, carabinieri e politici) e delle parti civili, è stato lui stesso a dissipare – per quanto possibile – tutto quel fumo. Facendo la cosa più normale: rispondere alle domande dicendo la verità, come ogni testimone che si rispetti. E, finalmente libero dai cattivi consiglieri, ha preso atto che la ricerca della verità è il solo movente che anima i giudici e i pm di questo processo: nessuno vuole incastrare o screditare nessuno, tutti vogliono sapere cos’accadde fra il 1992 e il 1993, mentre Cosa Nostra attaccava il cuore dello Stato e pezzi dello Stato la aiutavano a ricattarlo, scendendo a patti e firmando cambiali in bianco. Insomma, ha detto la verità. E così, consapevolmente o meno, ha fornito un assist insperato alla Procura di Palermo.   L’aut aut. Ripercorrendo i suoi ricordi e anche i suoi appunti di ex presidente della Camera, Napolitano ha fornito un contributo che forse nemmeno i magistrati si aspettavano così nitido e prezioso, confermando in pieno l’ipotesi accusatoria alla base del processo: che, cioè, i vertici dello Stato sapessero benissimo chi e perché metteva le bombe. Per porre le istituzioni dinanzi a quello che Napolitano ha definito un “aut aut”: o lo Stato allentava la pressione e la repressione antimafia, cominciando dall’alleggerimento del 41-bis, oppure si consegnava alla strategia destabilizzante di Cosa Nostra, che avrebbe seguitato ad alzare il tiro dello stragismo per rovesciare l’ordine costituzionale. I fatti – all’epoca sconosciuti a Napolitano, ma persino al premier Carlo Azeglio Ciampi – ci dicono che fra il giugno e il novembre del 1993 quell’allentamento ci fu: prima – all’indomani della bomba in via Fauro a Roma e della strage in via dei Georgofili a Firenze – con la rimozione al vertice delle carceri del “duro” Nicolò Amato, rimpiazzato con il “molle” Adalberto Capriotti e col suo vice operativo Francesco Di Maggio; poi – in seguito all’eccidio di via Palestro a Milano e alle bombe alle basiliche romane di San Giorgio al Velabro e San Giovanni in Laterano (Giorgio come il presidente della Camera Napolitano, Giovanni come Spadolini presidente del Senato) – con la revoca del 41-bis a centinaia di mafiosi. Il risultato, in simultanea con gli ultimi preparativi per la nascita di Forza Italia (da un’idea di Marcello Dell’Utri) e la discesa in campo di Silvio Berlusconi, fu la fine delle stragi. O meglio, la loro sospensione sine die, per dare a chi aveva chiuso la trattativa il tempo e il modo di pagare le cambiali. “Violenza o minaccia a corpo politico dello Stato”, cioè al governo, anzi ai governi italiani: questa è l’accusa formulata dalla Procura (e confermata dal Gup) agli imputati di mafia e di Stato. Un’accusa che la lunga testimonianza di Napolitano sull’“aut aut” mafioso – tutt’altro che inutile, anzi fra le più utili fin qui raccolte – ha clamorosamente rafforzato.

La lettera. Il contributo meno interessante Napolitano l’ha fornito a proposito di un passo della lettera di dimissioni che gli inviò il 18 giugno 2012 il suo consigliere giuridico Loris D’Ambrosio, nel pieno delle polemiche per le sue telefonate con Nicola Mancino: “Lei sa di ciò che ho scritto anche di recente su richiesta di Maria Falcone. E sa che, in quelle poche pagine, non ho esitato a fare cenno a episodi del periodo 1989-1993 che mi preoccupano e fanno riflettere…”. Napolitano sostiene che D’Ambrosio non gli disse nulla, anche se riconosce che poi nel libro della Falcone quegli episodi non li raccontò. Ha trovato anche la lettera dattiloscritta che il consigliere inviò alla Falcone, ma assicura ai pm che il testo è identico a quello poi pubblicato. “… (episodi) che mi hanno portato a enucleare ipotesi – solo ipotesi – di cui ho detto anche ad altri…”. Quell’“anche ad altri” fa pensare, per la seconda volta, che ne abbia parlato anche con Napolitano. Il quale però nega. “…quasi preso anche dal vivo timore di essere stato allora considerato solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi”. Il presidente riconosce che si tratta di frasi “drammatiche”. Perché allora non ne chiese conto al suo collaboratore dopo averle lette? La risposta è evasiva: quando, l’indomani, parlò con D’Ambrosio, lo fece soltanto per convincerlo a ritirare le dimissioni e non affrontò con lui il tema degli “indicibili accordi”. Ora, visto che D’Ambrosio è morto e gli “altri” destinatari delle sue confidenze sono ignoti, il giallo rimane insoluto.   Il 1992. Anche sul 1992 – quando inizia l’attacco ricattatorio di Cosa Nostra allo Stato dopo la sentenza della Cassazione sul maxiprocesso, con il delitto Lima, la strage di Capaci, l’inizio della trattativa del Ros con Vito Ciancimino (intermediario prima con Riina poi con Provenzano), la mattanza di via D’Amelio, l’accantonamento di Ciancimino e le trame di Provenzano per consegnare Riina ai carabinieri – Napolitano ha poco da dire. Se non che ricorda bene come, alla Camera da lui presieduta, il decreto Scotti-Martelli sul 41-bis, varato il 6 giugno subito dopo Capaci, si arenò e occorse l’omicidio di Borsellino perché il Parlamento lo convertisse in legge il 1° agosto. E che, stranamente, il neopresidente dell’Antimafia Luciano Violante, suo compagno di partito, rivelò anche a lui che Ciancimino voleva esser convocato e sentito in commissione (cosa che Violante promise di fare, e poi misteriosamente non fece mai). Per la verità, a raccomandare don Vito per un incontro a tu per tu con Violante, era stato proprio il colonnello Mario Mori, ma questo il compagno Luciano non lo disse al compagno Giorgio. Perché il presidente dell’Antimafia avvertì proprio il presidente della Camera di quella richiesta di Ciancimino? Napolitano non sa spiegarselo.   Il 1993. Dopo la cattura pilotata di Riina, Cosa Nostra si rifà sotto a suon di bombe per costringere lo Stato a piegarsi. Roma e Firenze a maggio. Poi Milano e di nuovo Roma nella notte fra il 27 e il 28 luglio. Il presidente ricorda che subito, fin dal 29 luglio, “la Triade” Scalfaro-Spadolini-Napolitano, cioè i massimi vertici dello Stato che condividevano tutte le conoscenze (mutuate dall’intelligence e dalle forze investigative) su quel che stava accadendo, erano certi che anche quelle stragi avevano una matrice mafiosa (“corleonese”, specifica il presidente) e un movente ricattatorio, estorsivo. Napolitano ricorda di averne parlato col presidente Scalfaro e forse, ma non lo ricorda con precisione, col premier Ciampi. Il quale, dopo il black out dei centralini di Palazzo Chigi nella notte delle bombe, dirà di aver temuto un colpo di Stato e tirerà in ballo la P2. Non solo Cosa Nostra voleva ricattare lo Stato: ma i massimi esponenti dello Stato si sentivano sotto ricatto di Cosa Nostra. Napolitano ricorda una imprecisata “pubblicistica” che già all’epoca avrebbe riferito di due correnti divergenti fra i corleonesi: l’ala guerrafondaia e un’ala più morbida (quella di Provenzano). In realtà nessuno allora scrisse mai nulla del genere: lo disse il ministro dell’Interno Mancino, nel dicembre ’92, poco prima della cattura di Riina, in un’incredibile intervista al Giornale di Sicilia. Poi si giustificò con i pm sostenendo di averlo saputo da Pino Arlacchi, consulente della Dia. Ma l’allora capo della Dia, Gianni De Gennaro, ha smentito: in quei mesi riiniani e provenzaniani risultavano una cosa sola, anzi si pensava che Provenzano fosse addirittura morto. Solo chi trattava con Ciancimino, e dunque con Provenzano, sapeva che quest’ultimo era vivo e si era smarcato dall’ala stragista. Ma su questi fatti Napolitano non ha nulla di utile da riferire.   Tutti sapevano. In una nota del Sismi appena scoperta e depositata dai pm, datata 29 luglio ’93 (il giorno dopo le stragi di Milano e Roma), si legge: “Tra il 16 ed il 20 agosto ci sarà un attentato che non sarà portato a monumenti o a teatri, ma a persone. A livello grosso. Una strage. Poi si faranno ad uno grosso (inteso in senso di personalità politica). Spadolini e Napolitano, uno vale l’altro. Gli autori sono sempre i soliti: quelli là (riferito ai corleonesi?) d’accordo coi grossi (riferito ai politici) e coi massoni”. Parole che fanno scopa con quelle pronunciate ieri da Napolitano, che fra l’altro ha ricordato il rafforzamento delle misure di sicurezza sulla sua persona proprio in quei giorni. Perché è così importante, per la pubblica accusa, la testimonianza del presidente sulla matrice corleonese e sulla finalità ricattatoria delle stragi dell’estate ’93 come consapevolezza comune e unitaria fin da subito presso i massimi vertici dello Stato? 1) Perché, della “triade”, Napolitano è l’unico superstite: Scalfaro e Spadolini sono morti, e così l’allora capo della Polizia Vincenzo Parisi, uomo-chiave di quella stagione, anche per il suo filo diretto con Scalfaro. 2) Perché nessun altro uomo delle istituzioni di allora è mai stato così chiaro ed esplicito sul livello di consapevolezza dei rappresentanti dello Stato sul significato dell’offensiva stragista di Cosa Nostra: una lunga sfilza di politici smemorati e/o reticenti.   3) Perché, se già il 29 luglio ’93 si sapeva che le bombe in via Palestro e contro le basiliche erano roba di mafia per piegare lo Stato, non si comprende quel che accadde subito dopo.   Piste e depistaggi. Il 6 agosto ’93, attorno a un tavolo del Cesis (il comitato che coordinava i servizi segreti militare e civile), si riunirono i capi dell’intelligence, ma anche il capo della Polizia Parisi, il capo della Dia De Gennaro, il vicecomandante del Ros Mori e il vicecapo e uomo forte del Dap Francesco Di Maggio. E se ne uscirono con una fumosa relazione, sulle bombe della settimana precedente, piena di piste fasulle al limite del depistaggio: oltre all’eventuale matrice mafiosa, ipotizzarono quella del terrorismo serbo, o palestinese, o del narcotraffico internazionale. Del resto, se gli apparati e i servizi avessero davvero avuto dubbi sulla pista mafiosa per strappare allo Stato un cedimento sul 41-bis, cioè sul trattamento dei boss detenuti, perché mai invitare a quel tavolo un estraneo come il vicecapo delle carceri Di Maggio? Fin da giugno, il suo superiore Capriotti aveva scritto al ministro Conso sollecitando un taglio lineare dei 41-bis per “dare un segnale di distensione nelle carceri”. E proprio per accelerarlo Cosa Nostra aveva seminato morte e terrore in quella primavera-estate. Infatti appena quattro giorno dopo il vertice al Cesis, il 10 agosto, De Gennaro firmò un rapporto della Dia, destinato a Mancino e a Violante, che metteva nero su bianco la pista mafioso-trattativista delle bombe e invitava il governo a non cedere sul 41-bis: “È chiaro che l’eventuale revoca anche solo parziale… del 41-bis potrebbe rappresentare il primo concreto cedimento dello Stato intimidito dalla stagione delle bombe”. Un modo per smarcarsi dal fumoso e depistante rapporto del Cesis, che pure lo stesso De Gennaro aveva siglato? Un mese dopo, 11 settembre, lo Sco della Polizia, guidato da Antonio Manganelli, fu ancora più esplicito, usando per la prima volta il termine “trattativa” in una nota inviata all’Antimafia di Violante: “Obiettivo della strategia delle bombe sarebbe quello di giungere a una sorta di trattativa con loStato per la soluzione dei principali problemi che affliggono l’organizzazione: il ‘carcerario’ e il ‘pentitismo’… Creare panico, intimidire, destabilizzare, indebolire lo Stato, per creare i presupposti di una ‘trattativa’, per la cui conduzione potrebbero essere utilizzati da Cosa Nostra anche canali istituzionali”. Più chiaro di così…   Lo sbraco. Anche questo allarme, come i precedenti, viene ignorato sia da Mancino sia da Violante. E il 5 novembre il ministro Conso non rinnova il 41-bis in scadenza a 334 mafiosi detenuti, contro il parere negativo della Procura di Palermo. Ma in ossequio alla sollecitazione che gli veniva dal nuovo capo del Dap fin da giugno. Per negare l’evidente cedimento al ricatto mafioso, Conso s’è trincerato dietro il rapporto del Cesis che ipotizzava matrici diverse da quella di Cosa Nostra per le stragi dell’estate. Ma, oltre ai rapporti Dia e Sco, a smentirlo ora c’è anche la parola di Napolitano: i vertici dello Stato sapevano fin da subito che era stata Cosa Nostra per ricattarlo. E lo Stato sbracò.

 

Il condannato significativo, e definitivo

 

Mentre scrivevo questo post è  arrivata la richiesta di arresto per Luigi Cesaro, ex presidente della provincia di Napoli che segue di poche ore l’arresto di Giancarlo Galan, ex governatore del Veneto votato ieri dal parlamento ed eseguito in serata.  Entrambi sono di casa nel partito di quello che ieri Napolitano ha definito l’interlocutore significativo, ovvero il pregiudicato delinquente col quale Renzi vuole scassinare la Costituzione con la benedizione, anzi, il sollecito, di Napolitano.

Il parlamento italiano si riunisce per decidere l’arresto di qualcuno con una frequenza impressionante.
Un qualcuno che, nel peggiore dei casi, tutto quello che gli può capitare è restare in una cella il tempo necessario [ore] ai suoi avvocati per inoltrare la fatidica richiesta di concessione dei domiciliari che verrà puntualmente accolta.
In questo paese i cittadini sono costretti ad assistere alle assemblee di persone pagate per fare altro, per occuparsi dei problemi della gente e non dei loro, che devono decidere se è il caso o meno che un cittadino, eletto e dunque soggetto al rispetto di quella Costituzione che pretende che il cittadino a cui vengono affidate funzioni pubbliche adempia ad esse con disciplina ed onore, debba o meno continuare a far parte degli eletti, restare una persona libera oppure no anche quando tradisce il suo mandato e la legge.  Personalmente non mi fido di gente che, secondo coscienza, la sua, ha votato per ben due volte no all’arresto di cosentino nonostante la sua liaison con la camorra fosse un fatto ormai acclarato.
Mi piacerebbe vivere in un paese dove al politico non fosse riconosciuto lo status di privilegiato anche quando commette dei reati.
Abbiamo un articolo della Costituzione che ORDINA al funzionario di stato, quale che sia il suo ruolo e livello, di adempiere alla sua funzione con disciplina e onore. Se i politici presenti nei vari parlamenti da svariati decenni ad ora avessero dovuto essere giudicati in base al semplicissimo dogma che chi si deve occupare delle cose degli altri deve essere meglio degli altri, il parlamento sarebbe rimasto deserto.
Nessuno ha mai avuto i titoli corrispondenti a ciò che chiede la Costituzione. Non solo per disonestà ma anche per aver approfittato della carica politica per favorire parenti, amici e conoscenti. Ed ecco che anche in questo caso vengono a mancare sia la disciplina che l’onore, quel disinteresse onesto col quale approcciarsi alla politica.
Il politico che viene indagato o accusato deve tornare ad essere un cittadino come gli altri, farsi da parte e risolvere le sue beghe, in caso di innocenza, tornerà, ma basta con questa sceneggiata della seduta parlamentare per decidere l’arresto che ormai ha una cadenza fissa e anche piuttosto frequente.

 

Non date retta a Napolitano, gli spettri ci sono eccome, e ce ne sono tanti.
Firmate e fate firmare l’appello del fatto Quotidiano, non servirà ma almeno ci togliamo la soddisfazione di far sapere al presidente della repubblica che è anche un bugiardo, perché i governi di “emergenza” e di larghe intese, non eletti da nessuno non si occupano di riforme costituzionali.

Le riforme costituzionali le fanno i parlamenti scelti dai cittadini con elezioni regolari e NAZIONALI per mezzo delle quali si ottiene una maggioranza vera, non un minicaravanserraglio di incapaci e bugiardi anche loro come quello di Renzi che in forza dei dieci milioni di persone che lo hanno votato alle europee pensa di poter stravolgere le regole di un paese.

Napolitano ha imposto agli italiani Monti, nominato senatore a vita in fretta e furia senza le prerogative che prevede la Costituzione, proprio come fu nominato Napolitano a sua volta da Ciampi, ufficialmente per tirare fuori l’Italia dal disastro economico col risultato che Monti e i suoi ministri sobri, eleganti, quelli davanti ai quali la stessa informazione che oggi incensa Renzi e ieri lo faceva con Letta jr si è prodotta in orgasmi multipli e ripetuti sono riusciti solo a distruggere quel poco di stato sociale su cui potevamo ancora fare affidamento nonostante berlusconi.

Dopodiché Napolitano ha imposto le larghe intese e il governo di Letta ufficialmente per garantire una governabilità ma soprattutto perché il parlamento lavorasse ad una legge elettorale per permettere ai cittadini di potersi scegliere un parlamento e un governo ai quali delegare ANCHE, eventualmente, le riforme costituzionali.

Naturalmente, come ben sappiamo anche il governo di Letta non ha prodotto nulla di utile ma tutti, comprese le meteore sconosciute nominate ministri e sottosegretari sono state pagate e strapagate e lo saranno ancora e a vita come se avessero lavorato davvero per il bene del paese.

Ora abbiamo Renzi che ha praticamente tolto la poltrona sotto al culo di Letta pensando di averne i titoli solo perché aveva vinto le primarie del suo partito che, vale la pena di ricordare, non hanno nessuna valenza istituzionale: a nessun amministratore di condominio eletto anche col plebiscito dai residenti nel palazzo si affiderebbe la gestione di un paese.

E il governo di Renzi si sta forse impegnando a quella legge elettorale necessaria per far tornare i cittadini a votare? Ovviamente no, se ha rimesso in mano la discussione e la relazione della nuova legge anche all’autore di quella giudicata incostituzionale dalla Consulta, una contraddizione talmente enorme che ha costretto anche calderoli a riconoscerla.

Nel frattempo però Renzi si sta dando molto fare per quelle cose che lui ritiene siano necessarie a far ripartire il paese: forse lavorare per il lavoro? Ri_ovviamente no, le cose necessarie per ridare fiducia agli italiani, quelle impellenti e non più rimandabili sono l’abolizione del senato, restituire quell’immunità parlamentare a cui gli italiani avevano già detto no con un referendum, e immancabilmente quella riforma della giustizia invocata da Napolitano al quale non va giù che l’Interlocutore Significativo, quello necessario alle riforme e ben accolto nei palazzi sia diventato nel frattempo un pregiudicato, condannato in via definitiva.
Napolitano sta imponendo agli italiani delle riforme da fare con un delinquente da galera senza che nessuno provi un po’ di vergogna, i cosiddetti democratici, quelli che al delinquente si sarebbero dovuti opporre ma non l’hanno mai fatto e naturalmente la stampa a 90 che continua a descrivere l’operato di Renzi e l’appoggio incondizionato del presidente della repubblica, che invece si comporta e agisce come un capo di partito, come la miglior cosa che ci potesse capitare.  Se ancora non fosse chiara la questione, ha detto Napolitano, presidente della repubblica e capo supremo della Magistratura nonché garante della Costituzione, che Renzi può riformare la Costituzione e la  giustizia con un condannato alla galera.

 

Pertini all’età di Napolitano ha smesso il mandato e si è ritirato a vita privata.    Se la figura del presidente della repubblica restasse simbolica come dovrebbe essere secondo Costituzione andrebbe bene anche l’età avanzata, specialmente se è il giusto coronamento ad una carriera politica meritevole, mentre Napolitano non è affatto simbolico, lui ordina, interviene, suggerisce e ottiene. Per il bene del paese, s’intende. Di Napolitano inoltre non si ricorda nulla di significativo: cos’ha fatto di bello Napolitano? Per quali motivi importanti i ragazzini di domani dovranno leggerlo sui libri di Storia? Sono queste le domande,  a cui però è difficile dare una risposta.

L’età quindi diventa un problema quando come nel caso di Napolitano, unico nella storia di questa repubblica, non solo perché rieletto una seconda volta, evidentemente alla politica serviva proprio lui, non rappresenta un simbolo ma si pone oltre quelle prerogative previste dalla Costituzione che lui dovrebbe garantire, non contribuire al suo smantellamento.
Napolitano decide, interviene, comanda con la SUA visione delle cose, che è quella di una persona di novant’anni.
Nulla da obiettare sull’anziano che fa altri mestieri: Margherita Hack, Rita Levi Montalcini, Andrea Camilleri, Dario Fo, persone rispettabilissime che hanno fatto il loro con onore. E’ proprio la figura del capo dello stato che mal si attaglia ad una persona di quella età che essendo vecchia impedisce un progresso moderno.

Il problema è che a 89 anni non te ne frega un cazzo di spenderti per un paese migliore, specialmente se i tuoi figli, e i figli dei loro figli hanno e avranno un futuro assicurato, niente da temere. 

A quell’età non interessa il futuro ma si vive molto attorcigliati nel proprio passato.
Quella è l’età in cui tutti gli argomenti e le situazioni sono uguali.
Non esiste più una priorità né la paura di fare brutte figure, di rovinarsi la reputazione anche per quell’assurda teoria che l’anziano va rispettato in virtù della sua età.
Nemmeno per idea, il rispetto è qualcosa che si può eventualmente raccogliere dopo averlo dato e dimostrato.  A qualsiasi età.
E l’età avanzata, lo abbiamo imparato proprio dai politici, quasi mai coincide con la saggezza.
Non c’è più niente che sia così importante, da dover difendere quando una manciata di mesi separa dalla morte.
E’ per questo che a novant’anni una persona che ha pure la fortuna di esserci arrivata in buone condizioni di salute, non foss’altro perché da più di sessanta c’è chi lavora per lei, non dovrebbe avere nessun diritto di ricoprire un ruolo così importante nello stato.
Il tetto non ci vorrebbe solo sui compensi ma anche sull’età.
A novant’anni stai a casa tua a fare altro, quello che fanno tutti i privilegiati che ci arrivano, altroché il presidente della repubblica.

 

 

FEDE SU B. “MAFIA, SOLDI, MAFIA” (Davide Milosa) [L’interlocutore significativo]

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Il raglio del Ventaglio – Marco Travaglio

Erano alcuni giorni che Giorgio Napolitano non interferiva nei lavori parlamentari e non s’impicciava in quel che resta della libera stampa, ma ieri alla cerimonia del Ventaglio ha recuperato su entrambi i fronti in una botta sola. Non contento della maggioranza più bulgara dai tempi della Cortina di Ferro e anzi allarmato dalla sopravvivenza a Palazzo Madama e nell’opinione pubblica di alcuni vagiti di opposizione al pensiero unico renzusconiano, ha pensato bene di dare una legnata a quei quattro gatti che osano sottolineare gli aspetti duceschi e castali della presunta “riforma del Senato”: “Non si agitino spettri di insidie e macchinazioni di autoritarismo”. Ce l’aveva con l’appello del Fatto, che ha superato le 150 mila firme, con i 5Stelle, con Sel e con la sparuta pattuglia di dissidenti nel Pd, nei vari centrini e nel centrodestra. Noi, per parte nostra, possiamo assicurargli che il suo monito irrituale e illegittimo ci fa un baffo: continueremo ad agitare gli spettri di autoritarismo di due controriforme che – secondo i migliori costituzionalisti – concentrano molti poteri e aboliscono molti controlli sulla figura mostruosa di un premier-padrone che fa il bello e il cattivo tempo e impediscono ai cittadini di scegliersi i deputati e addirittura di eleggere i senatori.

Non è vero – come afferma il presidente – che “la discussione sulle riforme è stata libera”: di quale discussione va cianciando? Tra chi e con chi? I cittadini sono totalmente esclusi dal processo riformatore, visto che non hanno mai votato per questa maggioranza e questo governo, non hanno mai eletto questo premier (se non a sindaco di Firenze) e l’ultima volta che andarono alle urne per il Parlamento (febbraio 2013) nessun partito sottopose loro l’idea di abolire le elezioni per il Senato e confermare le liste bloccate per la Camera. Anzi tutti i partiti promisero di abolire il Porcellum per restituire agli elettori il sacrosanto diritto di scegliersi i parlamentari, non per farne un altro chiamato Italicum. Napolitano sostiene che le critiche alle “riforme” “pregiudicherebbero ancora una volta l’esito della riforma della seconda parte della Costituzione” e il superamento del “bicameralismo paritario, un’anomalia tutta italiana, un’incongruenza costituzionale sempre più indifendibile e fonte di gravi distorsioni del processo legislativo, quasi idoleggiato come un perno del sistema di garanzie costituzionali”. E purtroppo anche qui mente: i senatori dissidenti, i costituzionalisti critici e anche noi del Fatto abbiamo avanzato fior di proposte per differenziare poteri e funzioni di Camera e Senato, quindi è falso che vogliamo conservare il bicameralismo paritario: vogliamo semplicemente un Senato elettivo, con ruoli diversi da quelli attuali, ma non degradato a dopolavoro part time per sindaci e consiglieri regionali nominati dalla Casta e coperti da immunità full time. Ed è una balla che il processo legislativo sia bloccato o distorto dal bicameralismo, come dimostrano le peggiori porcate approvate in meno di un mese. In ogni caso non spetta né al Colle né al governo, ma al Parlamento stabilire se e come la Costituzione vada cambiata: non s’è mai visto un governo cambiare la Carta fondamentale a tappe forzate, con la complicità del Quirinale. Non foss’altro perché il capo dello Stato e i membri del governo giurano sulla Costituzione esistente e si impegnano a difenderla, non a smantellarla. Senza contare che il governo sta in piedi solo grazie a un premio di maggioranza che non dovrebbe esistere, e invece gli consente di impedire – con i due terzi estrogenati – ai cittadini di esprimersi nel referendum confermativo. Non manca, e ti pareva, un monitino alla stampa: Sua Altezza intima ai giornalisti – che peraltro obbediscono in gran parte col pilota automatico – di astenersi “dal gioco sterile delle ipotesi sull’ulteriore svolgimento delle mie funzioni da presidente: una valutazione che appartiene solo a me stesso”. In realtà appartiene alla Costituzione, che fissa in 7 anni il mandato presidenziale, e pure ai cittadini, che hanno il sacrosanto diritto di sapere se e quando se ne va  Il finale è da manuale: sotto con la “riforma della giustizia”, ovviamente “condivisa”. Con chi? Con il pregiudicato, ça va sans dire. 

L’estate scorsa, dopo la condanna di B. per frode fiscale, il presidente annunciò che era venuto il gran momento; ora, dopo l’assoluzione di B. per il caso Ruby, ribadisce (con notevole coerenza) che è giunta l’ora. Cos’è cambiato? Roba forte: “È arrivato il riconoscimento espresso da interlocutori significativi per ‘l’equilibrio e il rigore ammirevoli’ che caratterizzano il silenzioso ruolo della grande maggioranza dei magistrati”. E chi sarà mai l’“interlocutore significativo”? Ma il pregiudicato B., naturalmente: il fatto che insulti i giudici che lo condannano ed esalti quelli che lo assolvono (anche perché al primo insulto finisce al gabbio) è un evento epocale, meraviglioso, balsamico che – svela il monarca – “conferma quello che ho sempre asserito”: anche Napolitano, come il Caimano, pensa che “la grande maggioranza dei magistrati fa il proprio lavoro silenziosamente, con equilibrio e rigore ammirevoli”. Viva i magistrati muti che assolvono i potenti aumma aumma. A dire il vero, ci sarebbe l’ultimo ritrattino dell’Interlocutore Significativo per la riforma della Costituzione e della Giustizia, tracciato dall’amico Emilio Fede: quattro parole icastiche, “Mafia soldi soldi mafia” col contorno di Dell’Utri & famiglia Mangano. Ma che sarà mai. Fortuna che Totò Riina non ha ancora chiesto udienza al Quirinale, a Palazzo Chigi e al Nazareno per proporsi come Interlocutore Significativo. A questo punto sarebbe difficile dirgli di no. E soprattutto spiegargli il perché.

 

 

La carretta dei senatori

Che differenza c’è fra la pagina del Corriere della sera con cui si esprime solidarietà e vicinanza a dell’utri, collaboratore stretto della mafia e per questo condannato a sette anni di carcere, e la maglia di Genny la famosa “carogna” della serata tragica che è costata la vita a Ciro Esposito, dove, con una frase si faceva lo stesso nei confronti di un condannato per omicidio dopo un processo piuttosto ambiguo? 
Spero nessuna, anche per i moralisti tout court che si sono indignati per la maglia e per Genny che almeno il capoclan lo fa coi suoi pari, non ha messo su un partito politico su richiesta della mafia, non è stato il tramite fra la mafia e un ex presidente del consiglio per almeno diciotto anni.  Se domani qualcuno volesse comprare una pagina di giornale per Riina e Provenzano, o per mandare saluti al latitante Messina Denaro che farà il Corriere, si venderà anche a loro, per soldi?

 Quando a qualcuno verrà in mente di ritirare fuori la solita storiella degli italiani che sono privi di valori, che gli piacciono i delinquenti perché vorrebbero essere come loro e per questo si meritano quello che hanno, ricordategli questa pagina di giornale, che è quello di cui parlava Berlinguer a proposito della questione morale, quando diceva che non si doveva permettere che il Corriere della sera finisse nelle mani e nella proprietà sbagliate. Ecco, ricordate chi è stato e chi è che lavora senza sosta per la distruzione dei valori e dei principi morali che poi diventano quell’etica che dovrebbe suggerire i giusti comportamenti a tutti. Anche ad un direttore di un quotidiano che di fronte a una richiesta simile e alla relativa offerta in soldi avrebbe dovuto dire: “no, in questo giornale non si fa solidarietà ai mafiosi”.

 

Preambolo: SENATORI IN MUTANDE, di Diego Cugia, alias Jack Folla

Siamo stati eliminati a morsi, ci hanno fatti a “prandelli” e ce lo siamo meritati. 
Il calcio come la politica, gli spettacoli televisivi e la produzione industriale, è lo specchio di una nazione. I ragazzi che hanno perso contro l’Uruguay erano ombre tremule di quello stesso specchio. Importiamo dall’estero format televisivi e goleador a bizzeffe, ci ingozziamo di idee e di sogni altrui, siamo fatalmente dipendenti dalle fonti energetiche di altri paesi, produciamo una classe politica scadente, campiamo sulle vecchie glorie: della moda, dello spettacolo, del calcio. Dobbiamo cambiare, più che sistema di gioco, schema mentale. Chiederci: perché i campioni nascono nelle favelas? Rottamare non l’età, ma il circo vip, la grancassa mediatica, il velleitarismo e la boria ingiustificata di una nazione che non è più nobile e antica, ma solo spendacciona, corrotta e mentalmente sorpassata. Anche noi abbiamo le nostre favelas. Ed è qui che dobbiamo cercare. Nelle favelas geografiche ed esistenziali sorte sui disastri della “finanza creativa” e dell’ingordigia collettiva. Le eccellenze, in campo artistico, industriale, sportivo, nascono nelle avversità. Si diventa campioni dal basso e non l’inverso.
Ieri sera, nella conferenza stampa dopo la batosta, il portiere della nazionale si è parzialmente giustificato: «Solo i senatori hanno tirato la carretta». Ecco, un calciatore che si autodefinisce “senatore” è lo specchio di un paese che elegge senatore un Dell’Utri.

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Il senso di una fine (CONCITA DE GREGORIO)

Brava Concita.
Solo una piccola nota che l’informazione ha dimenticato di citare: il contratto di Abete era in scadenza, alla fine di questo mese, il che riduce di molto il valore del bel gesto delle dimissioni.

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Sottotitolo: a proposito di senatori: La pagina comprata sul Corriere della Sera con messaggi di incoraggiamento per Marcello Dell’Utri  Ma ovviamente pecunia non olet nemmeno per il quotidiano dell’alta borghesia italica, non si può dire no a chi chiede una pagina di giornale per solidarizzare con un MAFIOSO, no? Poi magari dalle stesse pagine di quel giornale si legge la morale agli italiani fatta da Battista, Cazzullo e loro compagnia. 

In una società normale, equilibrata dove si rispettano i ruoli e dove occorre anche le gerarchie è altrettanto normale che i “vecchi” siano investiti da responsabilità maggiori e che servano poi a dare l’esempio alle generazioni successive, quelle che si stanno formando.
Il problema è quando la morale sulle responsabilità viene fatta da gente come Buffon che può essere qualsiasi cosa e rappresentarne altre mille per chi apprezza lo sportivo e vuole bene alla persona ma non può certo essere l’esempio per i giovani.
“Con i miei soldi faccio quello che voglio”, disse quando fu scoperto il giro di scommesse a cui partecipava anche lui che nel “quello che voleva” aveva investito un milione e mezzo di euro malgrado la regola della Figc che vieta espressamente ai tesserati di partecipare a questo tipo di attività. E per me uno che se ne frega delle regole che gli impone il mestiere non è diverso dal politico che se ne frega della Costituzione. Quindi di quali esempi si parla non lo so.
Ma il nostro è il paese dalle mille contraddizioni, quello che non si perdona al politico né al vicino di casa viene tranquillamente concesso all’idolo sportivo e alla squadra del cuore in virtù del fatto che il calcio è solo un gioco, la valvola di sfogo per le frustrazioni, il divertissement dopo una giornata, settimana di lavoro e allora guai a scrivere, provocatoriamente è chiaro, si scrive sempre per suscitare delle reazioni, di essere contenta che l’Italia abbia perso, prima di tutto perché non meritava di vincere e poi perché in questo paese ogni occasione è buona per distrarsi e distrarre come ha fatto Giovanna Cosenza [
Perché sono felice che l’Italia abbia perso] che è stata inondata di insulti probabilmente dalle stesse persone che poi partono lancia in resta contro la politica quando non dà il buon esempio e non fa il suo lavoro.

Per favore, non mordermi sul collo – Marco Travaglio

La palla è rotonda, però…

Vincere, e vinceremo! “Caro Prandelli, cari ragazzi, in questi anni la Nazionale ha dato tante soddisfazioni agli italiani, quello che vi chiediamo è di giocare con intelligenza, dignità e onore, sempre nel rispetto dei valori dello sport. Mettetecela tutta, mettiamocela tutta! Nel 2006 ero a Berlino con la squadra di Marcello Lippi a soffrire in tribuna e poi a festeggiare negli spogliatoi la vittoria del Mondiale. Due anni fa ho visto a Danzica i ragazzi di Cesare Prandelli debuttare nell’Europeo in una bellissima partita con la Spagna fino ad arrivare con pieno merito alla finale. Ho potuto apprezzare lo spirito di sacrificio e l’amore di Patria che vi uniscono. I risultati da voi conseguiti dimostrano come traguardi in partenza difficili possono essere raggiunti se si lavora insieme, con spirito di squadra, per un obiettivo comune. Il vostro impegno ha rappresentato l’immagine più bella del calcio italiano” (messaggio del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano alla Nazionale Italiana, 12-6). 

  Pronti, via. “Siamo pronti a sorprendere. Ci siamo preparati bene fisicamente e mentalmente. Le prime partite non sono decisive, ma vincere dà una forza straordinaria” (Cesare Prandelli alla vigilia di Italia-Inghilterra, Repubblica, 14-6).

   Da Maracanà a Oronzo Canà. “Pirlo all’ultimo show: ‘Prima la finale al Maracanà poi lascio la Nazionale’” (La Stampa, 12-6).

   La perfida Albione. “Fa piacere mandare a fare… gli inglesi, boriosi e coglioni” (Maurizio Gasparri, Twitter dopo il 2-1 con l’Inghilterra, 15-6).

   Cesare e i Britanni. “Quella con l’Inghilterra è stata una partita epica, la ricorderemo per tutta la vita” (Cesare Prandelli dopo la prima e unica vittoria al Mondiale contro gli inglesi, 15-6).

   Brrr che fresco. “La dieta anti-calore. Papaia e frutta secca. L’Italia vince a tavola” (Libero, 18-6). Che tesori. “Il tesoretto. Prandelli cambia, ecco un’Italia più esperta. Buffon si tuffa, è l’ora di Abate e Bonucci”(Corriere, 19-6).

   Panettone Motta. “Il momento di Thiago Motta, la stella che preferì l’Italia: ‘Io non mi sento brasiliano’” (Repubblica, 19-6). “Motta a centrocampo, Cesare lancia il brasiliano che servirebbe a Scolari” (Libero, 19-6). “Thiago vuol dire sicurezza: ‘Se tocca a me io sono pronto’” (Corriere, 19-6).

   Palpami il popò. “Bonolis, non vada via senza essersi fatto dare una palpatina al popò, che porta bene” (Marco Mazzocchi, Notti Mondiali, Rai1, 19-6).

   Baciami il Balo. “Se battiamo la Costa Rica voglio un bacio, ovviamente sulla guancia, dalla regina d’Inghilterra” (Mario Balotelli, Twitter, 20-6)

   Sogno o son desto. “Riprovaci, Italia. Col Costa Rica voglia di sognare” (Repubblica, 20-6). In o a fondo? “Non voglio essere una star, ma un Campione del mondo. In Brasile è scattato qualcosa in me. Guardo le altre gare per divertirmi, non mi interessa chi può andare in fondo: conta solo che in finale ci sia l’Italia” (Mario Balotelli, Repubblica, 20-6).

   Colpa del caldo. “Scoperto il vero nemico: ‘Il caldo complica le cose’” (La Stampa, 21-6). L’arguto Johnny Renzotta. “L’ufficialità del disastro è venuta alle 19:20 quando ‘nomfup’, nome twitter di Filippo Sensi, arguto portavoce del presidente del Consiglio Matteo Renzi, ammette sconsolato: ‘Quei momenti in cui non ti senti neanche CT ma resti appeso lì a una sgomenta speranza’. Se il braccio destro del premier della sesta potenza industriale al mondo (saremmo l’ottava, ma fa lo stesso, ndr), presto capo dell’Unione europea, si sentiva così, figuratevi noi… Un’Italia viva è utile al look fresco, giovane, pimpante di Renzi, gli azzurri rottamati dalla Costa Rica non fanno bene all’immagine del Paese” (Gianni Riotta, La Stampa, 21-6).

 Basta poco. “Adesso dobbiamo solo recuperare le energie: non sono enormi i nostri problemi, la qualificazione non è a rischio” (Prandelli dopo la sconfitta con la Costa Rica, La Stampa, 21-6).

   Basta il pari. “Tutto da rifare, ma per gli ottavi basta un pareggio con l’Uruguay” (La Stampa, 21-6). “Con l’Uruguay basta l’X. Ma poi c’è la Colombia” (Libero, 21-6). “Abbiamo due risultati su tre” (Gianluigi Buffon, il Giornale, 21-6) L’amuleto. “La sola nota positiva è che dopo la maledizione della seconda partita, viene la terza… Martedì a Natal, assicura Thiago Motta, tra Italia e Uruguay ‘passerà chi avrà più voglia’” (Aldo Cazzullo, Corriere, 21-6).

   Il portafortuna. “L’Italia vincerà il Mondiale” (Mick Jagger, 22-6).

   Tutto bene. “Conta la testa, non le gambe. Ma stavolta andrà bene, non faranno la nostra fine. Siamo più squadra dell’Uruguay e non abbiamo tutti gli infortunati che avevo io. Il blocco Juve e il modulo a tre non tradiranno” (Marcello Lippi, Repubblica, 23-6).

   Affogato al Buffon. “Contro l’Uruguay servono cuore caldo e testa fredda. La bravura di Prandelli è che, nonostante le assenze, trova sempre un equilibrio… Ora serve autostima. C’è la giusta preoccupazione, ma più la posta in palio è alta e meglio rispondiamo: lo dice la Storia” (Gianluigi Buffon, La Stampa e Repubblica, 23-6).

   Mission. “Balotelli&Immobile, la missione della coppia più nuova del mondo” (Repubblica, 23-6).

   La Patria chiamò. “Ricordiamoci che giochiamo anche per la Patria, perché noi qui rappresentiamo l’Italia, la Nazione” (Cesare Prandelli, 23-6). Fattore G, come gomme. “Suarez fa paura, ma l’Uruguay non è perfetto. Il centrocampo ha poca qualità e Godin ha le gomme sgonfie” (Corriere della Sera, 23-6. L’indomani l’Italia sarà sconfitta ed eliminata dall’Uruguay con un gol di Godin a 9 minuti dalla fine).

   Li mejo. “Siamo più forti noi dell’Uruguay” (Paolo Rossi, Corriere della Sera, 24-6).

   Italia proletaria e renzista, in piedi! “L’Italia ha un vantaggio sull’Uruguay e su un’altra decina di squadreediPaesi:neimomentidifficiliècapacedi reazioni impreviste. Non ha il passo lungo della costanza e del metodo… Ma talora ha avuto, non solo nel calcio, uno scatto che l’ha portata a superare ostacoli più impervi anche della coppia Suarez-Cavani… Pure nel calcio ci sono segni che qualcosa nella coscienza del Paese è cambiata (sic, ndr). Oggi l’inno lo cantano pure i calciatori di origine argentina come Paletta o brasiliana come Motta. Se i simboli sono importanti, oggi l’Italia ha più consapevolezza di se stessa anche nel calcio” (Aldo Cazzullo, “Orgoglio e giudizio”, Corriere della Sera, 24-6).

   Per aspera ad astra. “Solonelle asperità riusciamo a dare il meglio di noi. Mescolare sport e politica è talora fuorviante, ma questo non è un fatto solo calcistico, fa parte della mentalità nazionale… Il ‘particulare’ di cui parlava già Guicciardini prevale quasi sempre sul generale. Fino a quando non scatta una scintilla che si può chiamare orgoglio, senso del dovere, talento finalmente all’altezza di se stesso. Nel calcio è più facile… La maglia azzurra è una cosa seria, e la speranza non è l’ultimo dei mali” (Cazzullo, ibidem).

   Gli Insonni. “Nessun dorma”, “SuperMario sa già come si fa”, “La generazione X è più serena dei senatori” (Corriere della Sera, 24-6).

   Siam pronti alla morte/1. “L’Italia chiamò”, “Balo-Immobile, l’Italia tira fuori il coraggio” (Libero, 24-6).

   Siam pronti alla morte/2. “Si fa l’Italia o si muore” (Il Giornale, 24-6).

   L’uomo della Provvidenza. “Finalmente Immobile. Tocca all’uomo del destino. Re dei marcatori in A, è il più in forma” (La Stampa, 24-6).

   Tutti giù dal carro. “Di nuovo bella e di successo. Riecco l’Italia che sa stupire. Il fisico risponde, la preparazione ha funzionato. Il centrocampo fa la differenza. Candreva con Darmian: l’intesa che sorprende. Balotelli c’è, se osa può segnare di più” (La Stampa, 16-6). “Quanto vale l’Italia? Solo la Germania ha un altro passo. Brasile e Olanda si sono ridimensionati. Il borsino azzurro aspettando la Costa Rica. Brasile? Il divario si è ridotto. Argentina? Noi siamo una squadra, loro Messi più dieci. L’Olanda? Avremmo delle chance contro la difesa friabile. Francia? Benzema uomo chiave ma abbiamo l’antidoto” (La Stampa, 19-6). “Pessima prestazione, azzurri a pezzi”, “Il fallimento di Cesare”, “Crolla il nostro calcio”, “Italia azzerata. Si chiude un ciclo” (La Stampa, 25-6).

   Belli, no brutti. “La bella Italia si gode gli applausi. Tutti ci invidiano Balotelli e Pirlo”, “Nuovo stile Italia, addio catenaccio e contropiede” (Repubblica, 16-6). “La resa di Cesare, l’uomo che ha perso tradendo se stesso”, Un gruppo mediocre” (Repubblica, 25-6).

   Patrioti, anzi traditori. “Una partita per tutto il Paese. I nostri patrioti siete voi” (Il Giornale, 24-6). “Disastro mondiale”, “Fuori per giusta causa”, “Fallimento Italia, tradimento Balo”, “La solita mancanza di voglia e di coraggio” (il Giornale, 25-6).

   Ciak si gira, anzi no. “È una squadra che ‘gira’. Ecco perchè Cesare insiste con l’unica punta Ba-lo” (Libero, 18-6). “Prandelli fallisce e dà la colpa a Libero”, “Balo traditore azzurro scappa dalla sconfitta”, ”Addio al Ct senza coraggio e fantasia” (Libero, 25-6).

   I meglio, anzi i peggio. “Noi siamo più forti, favoriti da maggiori possibilità matematiche (due risultati su tre) e da una superiore completezza… Un pronostico: 3-1 Italia, si va agli ottavi come primi nel girone (l’Inghilterra batte la Costa Rica)” (l’Unità, 24-6. Finirà 0-1 con l’Italia fuori, mentre l’Inghilterra pareggerà 0-0 con la Costa Rica). “Traditi da Cesare”, “L’8 settembre del nostro calcio” (l’Unità, 25-6).

   Ci azzecca, no sbaglia tutto. “La lezione del calcio europeo”, “Marchio di fabbrica. Prandelli ha azzeccato gli uomini e il modulo. Ora guarda avanti: ‘Tutto bene, ma è solo l’inizio’”, “L’Italia trasformata in un diesel che resiste a ogni stress ambientale”, “Balotelli ambasciatore di una bella Nazionale che sa farsi voler bene” (Corriere della Sera, 16-6). “Fuori dai Mondiali, un caso nazionale”, “Stessa disfatta di 4 anni fa”, “Perché fallisce il nostro calcio”, “Il crollo del sistema-calcio”, “Basta alibi, è un calcio da cambiare” (Corriere della Sera, 25-6).

   W Immobile, anzi abbasso. “Hai un centravanti sopravvalutato, che ha segnato poco e parlato troppo ovunque sia stato… Come tutti i sopravvalutati, il pacco azzurro è un asso nel vendersi e nell’incantare gli innamorati dei luoghi comuni. Diventa il simbolo della squadra e segna un gol all’esordio contro una difesa di paracarri. Tutti sanno che a ogni suo rarissimo acuto seguono mesi di catalessi, eppure tanto basta per farne un titolare inamovibile. Hai un altro centravanti che ha segnato 22 gol negli ultimi sei mesi ed è circonfuso di grazia celeste: corre come un satanasso dietro a qualsiasi cosa si muova e ogni palla che lo sfiora si trasforma in una carambola imprendibile. È un bravo ragazzo del Sud, serio e lavoratore, si diceva una volta. Giovane e dalle prospettive illimitate, però forte e perbene, quindi poco spendibile sul mercato della panna montata… Hai questi due centravanti e, poiché sei italiano, preferisci il bluff patinato al benedetto dal destino. Ti meriti di perdere: la partita e Immobile. E di tenerti Balotelli” (Massimo Gramellini, La Stampa, 21-6). “Persino il mio Immobile, che in Italia si era aggirato per le aree di rigore come un lupo mannaro, sembrava un barboncino al guinzaglio della difesa uruguagia” (Massimo Gramellini, La Stampa, 25-6).

   Cesare imperatore, anzi pippa. “A Cesare Prandelli sta accadendo quel che accade in Italia alle persone perbene, che non alzano la voce, non insultano, rispettano il prossimo. La loro correttezza viene scambiata per accondiscendenza. E alla prima difficoltà viene ritorta contro di loro. Il processo che si è aperto anzitempo contro il ct, più che ingeneroso, è grottesco. Quando mai si è visto un allenatore della Nazionale costretto a giustificarsi per non aver convocato un calciatore? Prandelli ha preso in mano una Nazionale umiliata in Sudafrica e fischiata in qualsiasi stadio si presentasse. L’ha avvicinata all’Italia profonda, portandola sui campi di provincia, sulle terre sequestrate alla mafia, nelle città provate dal terremoto… Ha riconciliato il Paese con la sua squadra di calcio… In un calcio che spesso premia la furbizia e l’italica arte di arrangiarsi, quando non la tracotanza e la violenza, Prandelli ha ripristinato le regole e la responsabilità… L’operazione è riuscita, perché i valori che Prandelli ha appreso sono quelli degli ambienti in cui è cresciuto… Che Prandelli abbia spessore tecnico e sostanza etica, questo è difficile da negare. Gli scaramantici ricordano che quando tutto va bene i Mondiali riescono malissimo, e quando si parte tra le polemiche si finisce alla grande. Ma questa non è una ragione valida per cominciare il tiro al bersaglio contro un italiano perbene” (Aldo Cazzullo, Corriere, 5-6). “Alla fine l’esito e la sostanza del nostro Mondiale confermano la mediocrità del nostro calcio… che non esprime una propria cultura calcistica e un proprio modulo tattico come in passato. E finisce inevitabilmente per rispecchiare il momento difficile di un Paese che sembra aver perso la fiducia in se stesso fino all’autodenigrazione. Prandelli paga per tutti. Ma non è un capro espiatorio. Ha le sue responsabilità, ovviamente. Anche il ct esce ridimensionato dal disastro complessivo” (Aldo Cazzullo, Corriere della Sera, 25-6).

   Riottocrazia. “È l’era del demerito. All’italiana non si vince più. Dai salvataggi aziendali allo sviluppo in Europa. Per il successo servono genio e lavoro, non furbizia” (Gianni Riotta, La Stampa, 25-6). Basta con questi scrittori allergici alla meritocrazia che si fanno finanziare i romanzi dal Consorzio del Mose.

   Partito e partente. “Prima di Renzi ho votato a destra, al centro e a sinistra. Ho sempre guardato l’uomo. Da ragazzo mi piaceva Zaccagnini. All’inizio ho creduto in Berlusconi. Poi ho guardato con interesse a Fini. In Veltroni ho trovato passione sportiva e spessore morale” (Cesare Prandelli intervistato da Aldo Cazzullo, Sette, 6-6). “Dopo il rinnovo del contratto ci hanno trattati come un partito” (Cesare Prandelli dopo l’eliminazione, 24-6).

   Prendelli. “Non ho mai rubato soldi dei contribuenti” (Cesare Prandelli, Agenzia Esticazzi, 24-6).

   Agenzia delle Uscite “Ho sempre pagato le tasse” (Cesare Prandelli, Agenzia Esticazzi, 24-6).

Un pasito pa’ delante, un pasito para atras

Preambolo:  poi magari un giorno qualcuno, bravo possibilmente, ci spiegherà perché la presentazione dei libri di un mediocre, del giornalista più servo di tutti perché  non ha problemi a piegarsi davanti ai politici di destra, sinistra e centro a differenza di quelli che almeno un orientamento ce l’hanno, deve diventare un evento al quale tutta la cosiddetta intellighenzia fa a gara per presenziare.

Sottotitolo:  in Italia è diventato il capo del governo.
Ed è difficile trovare un più completo esempio italiano.
Ammiratore della forza, venale, corruttibile e corrotto, cattolico senza credere in Dio, presuntuoso, vanitoso, fintamente bonario, buon padre di famiglia ma con numerose amanti, si serve di coloro che disprezza, si circonda di disonesti, di bugiardi, di inetti, di profittatori; mimo abile, e tale da fare effetto su un pubblico volgare, ma, come ogni mimo, senza un proprio carattere, si immagina sempre di essere il personaggio che vuole rappresentare.

[ELSA MORANTE 1945 – Lettera su Benito Mussolini]

” Io ho fatto del mio meglio, tutto ciò che ho creduto possibile. Ho cercato di aiutare mio marito, ho implorato coloro che gli stanno accanto di fare altrettanto, come si farebbe con una persona che non sta bene. È stato tutto inutile. Credevo avessero capito, mi sono sbagliata. Adesso dico basta”. [Miriam Raffaella Bartolini, in arte Veronica Lario – 3 maggio 2009]

Anche Hitler, con i Russi che avanzavano nelle strade di Berlino, delirava nel suo bunker di inesistenti divisioni da opporre ad essi.

“Regina, reginella, quanti passi devo
fare per arrivare al tuo castello
con la fede e con l’anello
con la punta del coltello?”.

luanaBerlusconi: “Mi candido, anzi no”. E fornisce cinque  versioni diverse in un’ora. [Il Fatto Quotidiano]

Ormai le apparizioni pubbliche di Berlusconi incuriosiscono solo per le stupefacenti metamorfosi del suo aspetto fisico [Gad Lerner]

Il Caimummia
Marco Travaglio, 13 dicembre

Per essere una mummia, il Cainano è piuttosto vispo, e soprattutto mobile. Ieri è riuscito a candidare a premier, nell’ordine: se stesso, Mario Monti e Angelino Alfano (quest’ultimo addirittura “in pole position”). Con qualche minuto in più a disposizione, avrebbe anche aggiunto Flavio Briatore, Giovanni Rana, l’avvocato Marra e Sara Tommasi, ma purtroppo non c’è stato il tempo: lo farà, con calma, nei prossimi giorni. La cornice della memorabile performance era la cosiddetta presentazione del libro di Vespa, ormai un vero e proprio format a se stante, un monumento al servilismo che fa apparire Porta a Porta un programma sbarazzino: l’insetto, nel ruolo di spalla, coadiuvato dai noti anestesisti Massimo Franco e Marcello Sorgi, porgeva timide e tumide domande all’anziano capocomico, tutto pittato, levigato e tirato a lucido dai maestri ebanisti di Arcore, che lo fanno ormai somigliare all’ultimo Michael Jackson, con due occhietti a mandorla da cinese in coma e un nuovo nasino con la punta all’insù davvero civettuolo. Il Sorgi veniva aspramente redarguito da Vespa per essersi permesso un sommesso dissenso sul concetto di magistratura uguale cancro: “Siamo qui per fare domande, non per dissentire dalle risposte”. A quelle parole il Cainano batteva una pacca sulla spalla della spalla e gli strizzava l’occhio, come a dire: “Ben scavato, vecchia talpa”. Anche perché l’insetto aveva appena elogiato il Cainano come un sincero “liberaldemocratico” di scuola einaudiana, mica come quel duce di Grillo che fa scegliere i suoi candidati dagli iscritti sul web. Rintracciare un filo di logica nelle risposte della mummia sarebbe impresa ardua. Non si è ben capito nemmeno come si chiamerà il suo partito, visto che a un certo punto ha ipotizzato di ribattezzarlo Forza Italia, ma di lasciare sulle schede elettorali la scritta “Popolo della Libertà”, tanto per rassicurare gli elettori che si tratta sempre di chi ha rovinato il Paese. Quanto a lui, che pure sarebbe il premier ideale come dimostrano le tre precedenti esperienze, è disposto a fare un passo indietro se si candida Monti. Che lui, non a caso, ha appena sfiduciato e accusato di aver mandato in malora l’Italia, dunque lo stima molto e “ho con lui un eccellente rapporto”, anche se “è stato influenzato dalla sinistra” e dunque gli sta diventando un po’ comunista: infatti non ha abolito le intercettazioni, che sono “incostituzionali”. Per rendergli più facile l’impresa di guidare il “rassemblement dei moderati” alla vittoria, ha anche aggiunto che Monti dovrà avere con sé tutti, dal Pdl o come cazzo si chiama a Montezemolo – Casini-Fini alla Lega Nord (incertezza, per ora, solo sui moderati di Forza Nuova). C’è, è vero, il piccolo dettaglio che la Lega ha sempre votato contro il governo Monti e lo considera un vampiro assetato di sangue, tant’è che B. — lo dice lui stesso — s’è appena accordato con Maroni per Alfano premier. Praticamente, con chiunque parli fa un accordo per un premier diverso. Ma queste sono quisquilie, dai, l’importante è divertirsi un altro po’. A questo punto, i casi sono soltanto due: o B. è fuori come un balcone, oppure si diverte a prendere tutti in giro. Più probabile la seconda ipotesi, vista l’ampia e consolidata disponibilità di politici e giornalisti a farsi prendere in giro. Nelle prossime ore vedremo se si è divertito anche Marcello Dell’Utri, che ieri, a metà pomeriggio, aveva annunciato la sua ricandidatura in quanto perseguitato politico, e nel tardo pomeriggio ha appreso dall’amica mummia che “mi spiace, non possiamo permetterci di ricandidarlo” anche se, beninteso, è un perseguitato politico. Si attende ad horas una dichiarazione di Dell’Utri per spiegare che gli spiace, ma il Caimummia non può permettersi di non ricandidarlo.

Capaci di tutto

Sottotitolo: I politici su cui gravano accuse di vicinanze strette, collusioni e connivenze con mafia e criminalità devono dimettersi, tornare ad essere cittadini comuni e aspettare che la giustizia faccia il suo corso.
Il parlamento non è la succursale delle patrie galere, la suite dove trascorrere serviti e riveriti, con la pretesa di essere pure rispettati in virtù del ruolo il decorso di un processo.
Pensare di potersi continuare a nascondere dietro l’immunità, proteggersi con leggi e leggine fatte in fretta e furia per fare in modo di difendersi non NEI processi ma DAI processi e aspettare, da parlamentari regolarmente stipendiati dai contribuenti i tre gradi di giudizio che potrebbero significare quindici, vent’anni durante i quali scatta quasi sempre l’opportuna prescrizione è disonestà fraudolenta.
Un’ammissione di colpevolezza.
Solo così è possibile evitare quella che molti definiscono ‘guerra’ fra poteri, conflitto fra Magistratura e politica ma che in realtà non è niente di tutto questo.

La vera riforma della Giustizia non consiste nel processo breve o morto [nel senso che non si farà mai] che interessa berlusconi, nell’allungamento e nell’accorciamento dei tempi di prescrizione a seconda delle sue esigenze, che anzi dovrebbe essere proprio abolita affinché un processo che inizia possa anche finire con una regolare sentenza, ma significa fare in modo di  non dover aspettare anche  venti, venticinque anni per la conclusione dei processi.

 “La politica antimafia siciliana è stata soprattutto una politica di contenimento della mafia. Anzi, è stata una politica di salvaguardia della classe dirigente, che ha paura di finire come Lima. Così, spaventata, la classe dirigente delega, e manda avanti Falcone e Borsellino. Che però diventano più pericolosi dei mafiosi, per loro. Ecco perché non sono arrivati fino in fondo”.

“Il rapporto tra mafia e Stato non è mai stato una guerra tra guardia e ladri: è una mafia che ha avuto dei rapporti permanenti con la classe dirigente e in questa ricontrattazione ogni tanto la mafia batte i pugni sul tavolo e quando succede lo fa a colpi di bombe”.

[Antonio Ingroia]

‎”Bisogna trarre le dovute conseguenze dalle vicinanze tra politici e mafiosi, che non costituiscono reato, ma li rendevano inaffidabili nella gestione della cosa pubblica. Questo giudizio non è mai stato tratto perché ci si è nascosti dietro lo schermo della sentenza. Il solito giustizialista grillino? No, Paolo Borsellino.

Il 19 luglio, i politici rimangano a casa a meditare”.

[Marco Travaglio]

“Vent ‘anni fa non ci lasciammo intimidire”.

[Giorgio Napolitano]

Spiacente, caro presidente, perché a noi quaggiù risulta altro. Ci risulta che lo stato si fece intimidire eccome, invece, e che è stato fatto parecchio per rendere la vita facile a chi con la mafia, le mafie ha avuto molto a che fare.
Non si può stare “umanamente” vicini ai mafiosi (come casini per esempio) e “fisicamente” dentro il parlamento (come casini, per esempio).
E come ho scritto ricordando Falcone se il ricordo non viene accompagnato con le azioni non serve a niente, è stato perfettamente inutile riempirsi la bocca ogni anno da vent’anni ricordando gli Eroi mentre nel frattempo nulla si faceva per non rendere vane quelle morti, semmai ci possa essere una qualche utilità nella morte orribile di uomini e donne perbene.
E proprio lei, presidente Napolitano, ha nominato ministri Saverio Romano accusato di concorso esterno in associazione mafiosa e Aldo Brancher che era stato appena condannato a due anni per ricettazione e appropriazione indebita. E non ha mai rimesso la penna nel taschino, neanche di fronte a leggi che definire oscene e antidemocratiche è dire poco e che poi la Corte ha dovuto respingere perché manifestamente incostituzionali.
Nicola Cosentino è stato salvato dalla galera grazie al voto compatto di chi davanti agli altari dice di voler combattere le mafie ma poi per mandare in galera un delinquente ci vuole un parlamento “libero di coscienza” che decida se un mafioso, un camorrista, ci deve andare o no.
Questo è potuto accadere perché lo stato, quello che non si lascia intimidire, non è mai stato in grado di opporsi con fermezza alle richieste dell’impostore della politica. E, nel frattempo che il delinquente abusivo, l’amico dei mafiosi  faceva scempio di leggi e regole democratiche pro domo sua e dei suoi amici di merende e bunga bunga qualcuno voleva convincerci, e lo fa ancora, che l’unico modo per sconfiggere il malaffare nella politica è il voto democratico, ma ci hanno impedito pure quello grazie a una legge che ha ridotto la politica ad un affare privato fra segreterie di partito e amici, parenti e conoscenti.
Le cosiddette regole democratiche che permettono a dei condannati anche con sentenza passata in giudicato di restare in parlamento le hanno confezionate su misura i molto onorevoli parlamentari.
Forse perché si conoscono molto bene fra loro?
In nessuna democrazia infatti sarebbe stato consentito a una persona con svariati capi di imputazione pesantissimi di diventare presidente del consiglio perché l’altra opzione per lui sarebbe stata San Vittore.
E, a cascata, non sarebbero mai dovute accadere anche un mucchio di altre porcherie fra cui “ruby è la nipote di mubarak”: il primo caso di alto tradimento da parte dello stato e archiviato come una burletta su cui farci anche delle battute di spirito; i 314 traditori dello stato sono ancora tutti in parlamento.
Ed è troppo facile oggi, per calmare le acque e tentare di arginare il malcontento che, unito alla crisi può trasformarsi davvero in un mix micidiale, ventilare ipotesi di nuovi terrorismi, instillare nuove paure ma poi all’atto pratico non fare nulla per mettere al riparo e al sicuro  lo stato da nuove “tentazioni eversive”.
Perché a nessuno piace farsi intimidire: neanche a noi.

Chi portò Cuffaro in Parlamento? Casini, che disse, dopo la condanna, “rispettiamo la sentenza, ma non rinneghiamo l’amicizia”.

Marco Travaglio prova a delineare il perimetro d’azione dei mafiosi nelle loro relazioni parlamentari. Passando dal leader Udc a Berlusconi, fino ad arrivare all’immancabile Giulio Andreotti.

E intanto Alfano parla del Partito dell’onestà.

Schifani a Rosy Mauro: “te ne devi andare, ne va del decoro del senato”.
Ecco: questo decoro del senato spiegato da Schifani, Rosy Mauro   non lo capisce.
(Marco Travaglio)

Capaci di tutto
 Marco Travaglio, 25 maggio

Tre anni fa, alla notizia delle indagini di Palermo, Caltanissetta e Milano sulla trattativa Stato-mafia e sui mandanti occulti delle stragi del 1992-’93, l’allora premier S.B. strillò terrorizzato: “So che ci sono fermenti nelle Procure di Palermo e Milano che ricominciano a guardare a fatti del ’92, ’93 e ’94. È follia pura e quel che mi fa male è che facciano queste cose coi soldi di tutti, cospirando contro di noi che lavoriamo per il bene del Paese”. La prima gallina che canta è quella che ha fatto l’uovo. Ora, per fortuna, nel ventennale di Capaci e via d’Amelio, c’è un altro premier, Monti, che dice esattamente l’opposto: “Non esiste nessuna ragion di Stato che possa giustificare ritardi nella ricerca della verità: i pezzi mancanti vanno cercati fino in fondo”. Dunque, se le parole hanno un senso, il governo non aggredirà i pm quando depositeranno gli esiti delle loro indagini sulle responsabilità istituzionali nelle trattative che, anziché fermare le stragi, le moltiplicarono e incoraggiarono. Vedremo se i partiti che sostengono il governo faranno altrettanto, o replicheranno gli ennesimi attacchi e insulti ai magistrati antimafia (quelli vivi che, a differenza di quelli morti, non vanno mai bene a nessuno). L’altro giorno a Palermo c’era anche il presidente Napolitano che, insieme a parole di circostanza e di buonsenso sul rischio di un nuovo stragismo a partire da Brindisi, ha dichiarato: “Non ci facemmo intimidire vent’anni fa, tantomeno cederemo ora”. Eh no, presidente: se il livello di intransigenza che ha in mente lo Stato è lo stesso del 1992-’93, stiamo freschi. Non è affatto vero che “non ci facemmo intimidire vent’anni fa”: i politici e le istituzioni si fecero intimidire eccome. Com’è ormai noto a chiunque non abbia gli occhi foderati di prosciutto, dopo la sentenza della Cassazione (30 gennaio 1992) che confermò le condanne ai boss nel maxiprocesso, Riina decise di vendicarsi coi politici che non avevano mantenuto l’impegno di farli assolvere o comunque avevano tradito le aspettative. E stilò una lista nera, che comprendeva Lima, Andreotti, Mannino, Martelli, Vizzini, Andò e Purpura. Lima fu ammazzato il 12 marzo. Il 16 il capo della Polizia Parisi avvertì riservatamente della minaccia i politici in lista. Quel che accadde subito dopo non è dato sapere, ma immaginare sì. Sta di fatto che Riina risparmiò i politici, cestinò la lista e virò su Falcone (alla vigilia della prevista elezione al Quirinale di Andreotti, che si fece da parte). Facile ipotizzare che la trattativa sia partita prima di Capaci per risparmiare i politici dalla mattanza. Sicuro che entrò nel vivo subito dopo, con le prime avances dei vertici del Ros con Vito Ciancimino, trait d’union con Riina e Provenzano. Martelli lo seppe e fece avvertire Borsellino, che si oppose a ogni cedimento e fu tolto di mezzo. Sempre per salvare i politici. Molti fra questi si lasciarono intimidire e ancor oggi balbettano, si contraddicono, mentono e tremano. Pochi altri, Martelli e Scotti, tennero duro. Ma Scotti, al cambio di governo in giugno, fu impallinato dalla Dc e rimpiazzato con Mancino. Intanto Riina consegnava il papello con le richieste allo Stato per metter fine alle stragi. Nel dicembre ’92 Ciancimino fu arrestato e uscì di scena.
Nel gennaio ’93 fu arrestato anche Riina, forse consegnato da Provenzano, che inaugurò la linea del dialogo, mentre Bagarella e i Graviano preparavano nuove stragi per lubrificarlo. E lo Stato si calò le brache. A febbraio saltò anche Martelli, indagato a Milano. E il neo-guardasigilli Conso, mentre nuove stragi insanguinavano Roma, Firenze e Milano, tolse il 41-bis a ben 480 mafiosi in pochi mesi, come da papello. Le stragi s’interruppero, mentre i nuovi referenti politici della mafia marciavano su Roma, pronti a esaudire il resto del papello.

I colpevoli della vergognosa resa dello Stato a Cosa Nostra saranno presto, si spera, alla sbarra.

La mafia non esiste (sarà uno stato della mente, come la felicità, chissà)

                              Sottotitolo:  Il reato di concorso esterno in associazione mafiosa? “E’ ormai diventato un reato indefinito al quale, ormai, non ci crede più nessuno”. Parola del procuratore generale Francesco Iacoviello che ieri nella sua requisitoria davanti alla Cassazione ha chiesto che per il senatore Marcello Dell’Utri (condannato a sette anni in appello) venga rifatto il processo di secondo grado oppure che la sua posizione sia giudicata dalle sezioni unite.
Iacoviello è quello delle cene ad Arcore, quello che ha nascosto le testimonianze dei contatti tra Bontade e Andreotti e una serie di ribaltamenti di processi verso soggetti del tipo di  Cesare Previti, Attilio Pacifico, Renato Squillante, Vittorio Metta, Calogero Mannino, Gianni De Gennaro, Spartaco Mortola (quello del G8 e della TAV), Francesco Colucci and so on.
I mafiosi hanno buoni avvocati ma è più importante avere giudici amici. Cosa che non hanno i migranti, i consumatori di marijuana, chi dissente dal sistema come i No Tav, gente che viene trattata da delinquente anche se non lo è.
I giudici si possono criticare eccome, anche senza essere come chi li definisce “cancro, metastasi, pazzi, antropologicamente diversi dalla razza umana.”

I mafiosi sono molto religiosi, ne sanno qualcosa quelle povere statue di Cristi, Madonne e Santi costrette ad essere trasportate alle sagre di paese dalla peggior feccia criminale col beneplacito di parroci e sindaci fra gli applausi e gli inchini  dei cittadini che ancora guardano con rispetto ai cosiddetti uomini d’onore, quelli che risolvono i problemi al posto di uno stato che non c’è.
Ora, non per generalizzare né tanto meno per creare una similitudine impropria o un paragone azzardato, ma c’è stato un periodo, un lunghissimo periodo durato qualche secolo in cui non convertirsi al cristianesimo si pagava con le torture e con la vita.  Oggi quel periodo è finito; la chiesa usa altri sistemi di suggestione ma di roghi in piazza non se ne accendono più.
Ora che ci penso,  nemmeno la mafia ammazza più.
Gli ultimi veri attentati di mafia, i cosiddetti ‘attentantuni’, risalgono a una ventina d’anni fa ormai, segno evidente che anche la mafia ha trovato altri sistemi di suggestione, più moderni, meno evidenti e meno rumorosi di un’autostrada e un palazzo che saltano in aria.

 Trattativa, “fuorionda” di Mannino
“Mettiamoci d’accordo o ci fregano”
 

Una cronista del “Fatto” ascolta un colloquio riservato tra l’ex ministro e l’Udc Gargani: “Ciancimino jr su di noi ha detto la verità”. Il riferimento è alle le pressioni della sinistra Dc per limitare il 41 bis
DELL’UTRI E LA MAFIA: LA CASSAZIONE ANNULLA LA CONDANNA PER CONCORSO ESTERNO

SALVATO DELL’UTRI. BOCCIATO FALCONE

La Cassazione annulla la condanna a 7 anni del braccio destro di B. e amico del boss Mangano. Processo da rifare, ma a rischio prescrizione. La Procura generale contro il reato di concorso esterno voluto dal magistrato ucciso dalla mafia: “Non ci crede più nessuno”.
Prima la prescrizione per Mills, ora il salvataggio dell’amico siciliano. E’ questo il salvacondotto di cui parlavano? (Il Fatto Quotidiano)

Iacoviello ha fortemente criticato i motivi con cui la procura generale del capoluogo siciliano aveva chiesto di annullare per Dell’Utri la condanna a sette anni di reclusione inflittagli dalla Corte d’appello di Palermo, per ottenere una pena più severa e il riconoscimento della sua colpevolezza per gli anni successivi al 1992. Se la condanna fosse stata confermata, per il senatore del Pdl , storico braccio destro di Silvio Berlusconi ed ex presidente di Publitalia, si aprirebbero le porte del carcere. Dell’Utri, che ha già alle spalle una condanna definitiva per false fatturazioni, è nato nel 1941, dunque sarebbe escluso dai benefici che la legge riconosce agli ultrasettantacinquenni rispetto alla detenzione in carcere. Il più importante processo su mafia e politica della seconda repubblica è arrivato dunque a un passo dal traguardo, accompagnato dalla polemica sul presidente della collegio che giudicherà Dell’Utri, Aldo Grassi, legato in passato al collega Corrado Carnevale, che negli anni Novanta si guadagnò la fama di “ammazzasentenze” dopo aver mandato assolti diversi mafiosi condannati nei primi due gradi di giudizio (qui gli articoli di Marco Lillo e di Marco Travaglio sui rapporti fra Grassi e Carnevale). (FQ)


La mafia non esiste
Marco Travaglio – Il Fatto Quotidiano, 10 marzo
La Cassazione che annulla una condanna con rinvio ad altro processo d’appello rientra nella fisiologia del sistema giudiziario italiano. Non comporta affatto una bocciatura delle accuse, ma solo della sentenza d’appello, che qui presentava
più di un’incongruenza. Del resto, chiunque lo conosca un po’ sa bene che il processo Dell’Utri è il più solido fra tutti quelli celebrati per concorso esterno in associazione mafiosa. Il meno dipendente dai mafiosi pentiti. Il più ricco di prove autonome,
documentali e testimoniali, di intercettazioni, addirittura di ammissioni dell’imputato: insomma il meno legato alle parole e il più ancorato ai fatti.
Se nel nuovo appello Dell’Utri fosse assolto, significherebbe
che non si potrà mai più condannare nessuno per aver servito la mafia dall’esterno, cioè senza farne parte. Una jattura dalle proporzioni incalcolabili, in un paese infestato dalle mafie proprio grazie ai loro rapporti esterni con politici, pubblici funzionari, finanzieri, professionisti, magistrati, avvocati. Eppure ieri il Pg della Cassazione Francesco Iacoviello, ex pm a Ravenna, già celebre per aver chiesto e ottenuto l’annullamento delle condanne di Squillante per Imi-Sir e di De Gennaro per il G8, e la conferma dell’assoluzione di Mannino e della prescrizione per Berlusconi nel caso Mondadori, non si è limitato a criticare la criticabilissima sentenza d’appello che
condannava Dell’Utri fino al 1993 e lo assolveva per il periodo politico.
Ha preso in contropiede persino i difensori e ha liquidato 15 anni di lavoro di investigatori, pm, periti e giudici come cosa da niente, lanciandosi in una sprezzante lezione di diritto ai pm
che hanno indagato Dell’Utri, al gup che l’ha rinviato a giudizio, ai tre giudici del tribunale che l’han condannato a 9 anni e ai tre giudici d’appello che l’han condannato a 7 anni. Già che c’era, ha aggiunto che il concorso esterno non esiste, “è un reato a cui non crede più nessuno”. In realtà al concorso esterno non credono i mafiosi e i loro amici. Ci credono le sezioni unite della Cassazione (9 giudici), che nelle sentenze
Carnevale e Mannino hanno confermato che il concorso esterno esiste eccome, delimitandone i confini.
Ci credono decine di giudici della Suprema Corte, che hanno confermato condanne per concorso esterno di politici (Gorgone e Cito), imprenditori (Cavallari) e funzionari infedeli (Contrada e D’Antone). Devono averci creduto anche quelli del processo
Dell’Utri, altrimenti ieri avrebbero annullato senza rinvio. Ma soprattutto ci credevano Falcone e Borsellino che, non avendo avuto la fortuna di lavorare a Ravenna, configurarono per primi quel reato nella sentenza-ordinanza del processo maxi-ter a Cosa Nostra e poi la mafia li ammazzò anche perché al concorso esterno ci credevano. Il processo Dell’Utri non si basa su “frequentazioni e conoscenze con mafiosi “, come sostiene Iacoviello paragonandolo al caso Mannino.
Di Mannino i giudici ritennero provate le conoscenze e le frequentazioni mafiose, ma non i favori alla mafia. Su Dell’Utri, invece, ci sono montagne di prove sui favori alla e dalla mafia. Anche limitandosi alla carriera pre-politica di manager berlusconiano, è stranoto che B. fosse succube dei mafiosi (al punto di pagarli o di dirsi pronto a pagarli) proprio perché Dell’Utri gli aveva infilato Mangano in casa e mediò per riportare la pace dopo ogni minaccia e attentato. Dire che questo non è concorso esterno e soprattutto che il concorso non esiste è un salto indietro, culturale prima che giuridico, agli anni bui in cui per certi giudici Cosa Nostra era solo un coacervo di bande disomogenee e disorganizzate.
Insomma la Cupola era un’invenzione di Falcone, il “teorema Falcone” che “non capisce niente” e vuole solo “fregare qualche mafioso”, come diceva nel 1994 Corrado Carnevale al collega Aldo Grassi, che non faceva una piega e ieri presiedeva il collegio che ha annullato la condanna di Dell’Utri.
Anni fa Dell’Utri disse che “la mafia non esiste” e un’altra volta concesse: “Se esiste l’antimafia, esisterà anche la mafia”. Non immaginava che un giorno, in Cassazione, avrebbe dovuto chiedere il copyright.

DA ANDREOTTI ALLA DIAZ: IACOVIELLO, IL PG SMONTA-PROVE
Antonio Massari

Nel 2006 riuscì a derubricare la corruzione di Renato SQUILLANTE a “intermediazione tra privati”. Ed è solo un esempio. “È estroso ”, possiede “grande fantasia e preparazione”, è un magistrato che “non ha timore d’assumere posizioni personali”: a sentire i suoi colleghi, soprattutto i più navigati, sono queste le definizioni più utilizzate per Francesco Iacoviello. Ha militato a lungo nel Movimento per la Giustizia, l’“estroso” sostituto procuratore della Suprema Corte che ieri ha provato a smontare l’accusa di concorso esterno alla mafia per Marcello Dell’Utri. Non ha avuto alcun timore, nel bollare il “concorso esterno” come “un reato indefinito al quale, ormai, non crede più nessuno”. Gli apparve difficile da provare – soltanto quattro mesi fa – anche l’accusa d’istigazione alla falsa testimonianza, legata all’inchiesta sui pestaggi nella scuola Diaz di Genova, per il capo della Polizia Gianni De Gennaro, condannato in appello. Iacoviello chiese – e ottenne – l’assoluzione .

Una richiesta che l’avvocato di parte civile, Laura Tartarini, definì “surreale ”. DE GENNARO era accusato di pressioni su Francesco Colucci, all’epoca questore di Genova, affinché ritrattasse la sua testimonianza su Roberto Sgalla, capo ufficio stampa della Polizia, arrivato alla Diaz. Per i pm che avevano svolto le indagini, comprendere se Sgalla era davvero arrivato su ordine di De Gennaro e perché, aveva un’importanza investigativa nella ricostruzione dell’evento. Iacoviello invece fu di parere opposto: “A Genova –disse, secondo un resoconto Ansa – stava succedendo il finimondo, c’erano stati pestaggi, la morte di Carlo Giuliani, mentre noi ci stiamo occupando solo di capire chi ha chiamato l’addetto stampa Sgalla”.

Nel 2004, occupandosi dei rapporti di GIULIO ANDREOTTI con Cosa Nostra – assoluzione con prescrizione per fatti precedenti al 1980 – Iacoviello era convinto che non ci fossero prove sulle relazioni tra il “divo Giulio” e la mafia. Sui fatti precedenti al 1980, invece, invitò la Suprema corte “a rigettare il ricorso della difesa, confermare la prescrizione, ma dando una motivazione diversa da quella della sentenza di appello. In un sistema come il nostro, a verdetto motivato”, disse Iacoviello, “questo ha la sua importanza”. Poi valutò il lavoro della Corte d’appello come una “indagine sociologica”, più che una sentenza “scritta in base alle norme di diritto”, dedita a valutare, più che le prove, gli “stati d’animo” di Andreotti.

Per quanto riguarda l’entourage di SILVIO BERLUSCONI, poi, quella di ieri non è stata una “prima volta”. Già nel 2001 Iacoviello bocciò il ricorso dei magistrati di Milano che impugnarono il proscioglimento di Berlusconi nell’inchiesta sul LODO MONDADORI. Il sostituto pg della Cassazione commentò così: “Il parametro deve essere l’utilità di un dibattimento: il processo ha un costo umano e sociale, che può essere pagato solo se originato dal giudizio di un giudice, non dalle previsioni di un aruspice su un futuribile probatorio”.

Cinque anni dopo si occupa del processo IMI-SIR e, quindi, della condanna a sette anni per CESARE PREVITI e l’avvocato ATTILIO PACIFICO, accusati di aver corrotto Renato Squillante, ex capo dell’ufficio gip a Roma, e l’ex giudice VITTORIO METTA, autore della sentenza sul maxi risarcimento da 1.000 miliardi di lire che lo Stato – l’Imi – avrebbe dovuto pagare alla Sir del petroliere Nino Rovelli. Secondo i pm Ilda Boccassini e Gherardo Colombo, Squillante non era corrotto perché aveva “venduto” le sue sentenze, ma perché aveva offerto i propri servigi ad alcuni imputati. Iacoviello derubricò il tutto a una “intermediazione tra privati”, poi chiese la condanna di Previti e l’assoluzione di Squillante. E la ottenne.