Come può essere una vittoria delle istituzioni un presidente della repubblica che viene sollecitato più volte, dopo varie ritrosie giustificate dal fatto che non avesse niente da dire mentre non pare affatto, a testimoniare in un processo di mafia.
La vittoria dello stato sono le istituzioni che non vengono mischiate con la mafia manco per sbaglio.
L’unico settore dello stato che dovrebbe avere a che fare con la mafia è la magistratura, nel paese dove vincono le istituzioni. Grandi esempi di rettitudine e trasparenza delle nostre istituzioni, dei politici che usano il ruolo per proteggere se stessi e non per mettersi a disposizione dei cittadini che rappresentano. Tutti bravi ad usare gli scudi previsti da quella Costituzione dove però non c’è scritto che lo stato dovesse scendere a patti col sistema mafioso, farsi ricattare dalla mafia.
Le notti della repubblica possono presentarsi anche alle dieci di mattina, tanto sono pochi quelli che si accorgono di chi ha spento la luce in questo paese.
Napolitano: ci fu un aut aut della mafia
Al di là di ogni interpretazione corretta, fatta in punta di diritto e di Costituzione, di prerogative concesse al capo dello stato circa la testimonianza di Napolitano l’unica cosa certa, incontrovertibile, è che fino ad un certo punto della storia di questo paese la mafia ha fatto esplodere bombe ovunque su e giù per l’Italia, ha compiuto stragi dove sono morte centinaia di persone innocenti, gli stessi protagonisti della lotta alla mafia: quelli che non trattavano e che lo stato non ha protetto, ad un certo punto non lo ha fatto più.
Ma la mafia non ha smesso di essere né di esistere.
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UN PRECEDENTE ASSAI SPIACEVOLE (Michele Ainis)
“Ma che l’avvocato di Riina diventi per un giorno il portavoce del Quirinale, almeno questo è un paradosso che potevamo risparmiarci”.
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La parola “trattativa” non è mai stata pronunciata nel corso della testimonianza di Napolitano alla Corte di Palermo trasferita di sana pianta al Quirinale ma si è parlato di un aut aut da parte della mafia che si può tranquillamente tradurre almeno nell’alleggerimento del regime carcerario ai mafiosi del 41bis che Conso, allora ministro della giustizia, disse di aver deciso autonomamente.
Non c’è stata trattativa ma i due attentati alle chiese di Roma: San Giovanni [Spadolini] e san Giorgio al Velabro [Giorgio come Napolitano] presidenti del senato e della camera di allora furono dei segnali ben precisi come ha confermato in molte interviste anche la presidente dell’associazione delle vittime di via dei Georgofili.
Nessuna trattativa né patto ma appare piuttosto evidente che lo stato fu in qualche modo convinto o costretto a trovare un modo per salvare dalle vendette mafiose alcuni politici di allora.
Non c’è stato patto fra lo stato e la mafia ma subito dopo gli “attentatuni” di Capaci e Palermo dove morirono due galantuomini di questo paese e le loro scorte la cosiddetta seconda repubblica regalò all’Italia silvio berlusconi che continua ad essere ben presente nell’assetto della politica di oggi nonostante sia ormai ben conosciuta la sua più che vicinanza con l’ambiente mafioso nelle figure di dell’utri, che costruì materialmente forza Italia, il partito della discesa in campo e di quel vittorio mangano che b. fu obbligato ad assumere in qualità di stalliere ma che in realtà svolgeva tutt’altre funzioni in casa berlusconi.
Non c’è stato patto né trattativa ma sicuramente il ricatto sì, altrimenti le istituzioni e la politica non avrebbero riaccolto berlusconi a braccia aperte nonostante la sua reputazione corrotta, la condanna per frode. Uno stato serio, una politica seria mettono fuori gioco un delinquente conclamato e condannato in via definitiva per aver rubato a quello stato, non si aggrappano alla favoletta che “porta i voti”.
Le istituzioni di un paese serio lavorano e agiscono affinché i cittadini non debbano mai avere nemmeno l’ombra di un sospetto su chi si occupa della gestione dello stato, noi qui abbiamo non solo le ombre ma perfino e proprio le certezze.
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A margine di questa vicenda penso questo: una persona che non ha niente da nascondere, che ricopre un ruolo che è anche di esempio, di guida, di forte responsabilità verso il paese si mette a disposizione, non si chiude in prima istanza dietro il “non ho niente da dire”. Soprattutto ad un’età in cui non te ne dovrebbe fregare nulla di come sarà domani per te, ogni giorno è un furto alla morte.
Invece Napolitano ha dedicato tutta questa sua ultima parte di vita a fare in modo che la gente perdesse ogni giorno di più la fiducia in questo paese e nello stato che lui rappresenta anche in virtù di certe sue azioni, comportamenti, decisioni eccetera.
Chi ha memoria e onestà sufficiente ricorda, chi non sa è colpevole.
Quindi lui se ne andrà, naturalmente per questioni anagrafiche molto prima di chi invece aveva bisogno di ritrovare un po’ di fiducia perché ha qualche domani da vivere più di un novantenne a cui la vita ha dato onori e gloria anche senza nessun merito particolare: per cosa verrà ricordato Napolitano nei libri di scuola e di storia? Non c’è nulla di significativo che si possa associare alla sua figura politica.
Nulla.
Quello che è accaduto ieri è la conferma che l’Italia è un paese che rimarrà meschino, pieno di gente piccola che ha svenduto la sua dignità in funzione del peggioramento del futuro di tanta gente. Nessuno parlerebbe a proposito della testimonianza di Napolitano come di vittoria delle istituzioni né di un evento di importanza storica. E qui mi riferisco ancora e di nuovo agli organi preposti al controllo del potere, una cosa importantissima e fondamentale per la tenuta del paese, dello stato e della democrazia che qui non si fa: non lo ha fatto chi si doveva opporre a politiche sbagliate perché manifestamente non in grado di condurre il paese nel verso giusto e non lo ha fatto la quasi totalità dell’informazione sempre prona al potente prepotente di turno, perché se ci fosse stato un vero controllo rigoroso e puntuale invece dell’adeguamento progressivo al potere per vari interessi e opportunismi oggi la situazione sarebbe senz’altro migliore di questa.
Imputare tutto alla gente è disonestà, è non aver capito come giorno dopo giorno questo paese sia stato volutamente trascinato in questa condizione di non ritorno di una democrazia nata fragile, che non si reggeva in piedi, e invece di difenderla chi poteva e doveva le ha dato il colpo di grazia.
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Fortuna che era inutile – Marco Travaglio
Chissà che cosa scriverà, ora, chi aveva teorizzato che la testimonianza di Napolitano era inutile, superflua, un pretestuoso accanimento dei pm di Palermo a caccia di vendette per il conflitto di attribuzioni, un pretesto per “mascariare” il presidente della Repubblica agli occhi degli italiani e del mondo intero, per trascinarlo nel fango della trattativa Stato-mafia, per spettacolarizzare mediaticamente un processo già morto in partenza sul piano del diritto, naturalmente per violare le sue prerogative autoimmunitarie, e altre scemenze. Quel che è accaduto ieri nella vecchia Sala Oscura del Quirinale è la smentita più plateale e, per certi versi, sorprendente di tutti gli inutili (quelli sì) fiumi d’inchiostro versati per un anno e mezzo da corazzieri, paggi e palafrenieri di complemento che, con l’aria di difendere Giorgio Napolitano, hanno guastato forse irrimediabilmente la sua immagine pubblica, spingendolo a trincerarsi dietro segreti immotivati, privilegi inesistenti, regole riscritte ad (suam) personam e spandendo tutt’intorno a lui una spessa e buia cortina fumogena che ha indotto molti cittadini a sospettare.
Quando ieri, finalmente, il capo dello Stato s’è trovato di fronte ai giudici e ai giurati della Corte d’Assise, ai quattro pm e ai legali degli imputati (mafiosi, carabinieri e politici) e delle parti civili, è stato lui stesso a dissipare – per quanto possibile – tutto quel fumo. Facendo la cosa più normale: rispondere alle domande dicendo la verità, come ogni testimone che si rispetti. E, finalmente libero dai cattivi consiglieri, ha preso atto che la ricerca della verità è il solo movente che anima i giudici e i pm di questo processo: nessuno vuole incastrare o screditare nessuno, tutti vogliono sapere cos’accadde fra il 1992 e il 1993, mentre Cosa Nostra attaccava il cuore dello Stato e pezzi dello Stato la aiutavano a ricattarlo, scendendo a patti e firmando cambiali in bianco. Insomma, ha detto la verità. E così, consapevolmente o meno, ha fornito un assist insperato alla Procura di Palermo. L’aut aut. Ripercorrendo i suoi ricordi e anche i suoi appunti di ex presidente della Camera, Napolitano ha fornito un contributo che forse nemmeno i magistrati si aspettavano così nitido e prezioso, confermando in pieno l’ipotesi accusatoria alla base del processo: che, cioè, i vertici dello Stato sapessero benissimo chi e perché metteva le bombe. Per porre le istituzioni dinanzi a quello che Napolitano ha definito un “aut aut”: o lo Stato allentava la pressione e la repressione antimafia, cominciando dall’alleggerimento del 41-bis, oppure si consegnava alla strategia destabilizzante di Cosa Nostra, che avrebbe seguitato ad alzare il tiro dello stragismo per rovesciare l’ordine costituzionale. I fatti – all’epoca sconosciuti a Napolitano, ma persino al premier Carlo Azeglio Ciampi – ci dicono che fra il giugno e il novembre del 1993 quell’allentamento ci fu: prima – all’indomani della bomba in via Fauro a Roma e della strage in via dei Georgofili a Firenze – con la rimozione al vertice delle carceri del “duro” Nicolò Amato, rimpiazzato con il “molle” Adalberto Capriotti e col suo vice operativo Francesco Di Maggio; poi – in seguito all’eccidio di via Palestro a Milano e alle bombe alle basiliche romane di San Giorgio al Velabro e San Giovanni in Laterano (Giorgio come il presidente della Camera Napolitano, Giovanni come Spadolini presidente del Senato) – con la revoca del 41-bis a centinaia di mafiosi. Il risultato, in simultanea con gli ultimi preparativi per la nascita di Forza Italia (da un’idea di Marcello Dell’Utri) e la discesa in campo di Silvio Berlusconi, fu la fine delle stragi. O meglio, la loro sospensione sine die, per dare a chi aveva chiuso la trattativa il tempo e il modo di pagare le cambiali. “Violenza o minaccia a corpo politico dello Stato”, cioè al governo, anzi ai governi italiani: questa è l’accusa formulata dalla Procura (e confermata dal Gup) agli imputati di mafia e di Stato. Un’accusa che la lunga testimonianza di Napolitano sull’“aut aut” mafioso – tutt’altro che inutile, anzi fra le più utili fin qui raccolte – ha clamorosamente rafforzato.
La lettera. Il contributo meno interessante Napolitano l’ha fornito a proposito di un passo della lettera di dimissioni che gli inviò il 18 giugno 2012 il suo consigliere giuridico Loris D’Ambrosio, nel pieno delle polemiche per le sue telefonate con Nicola Mancino: “Lei sa di ciò che ho scritto anche di recente su richiesta di Maria Falcone. E sa che, in quelle poche pagine, non ho esitato a fare cenno a episodi del periodo 1989-1993 che mi preoccupano e fanno riflettere…”. Napolitano sostiene che D’Ambrosio non gli disse nulla, anche se riconosce che poi nel libro della Falcone quegli episodi non li raccontò. Ha trovato anche la lettera dattiloscritta che il consigliere inviò alla Falcone, ma assicura ai pm che il testo è identico a quello poi pubblicato. “… (episodi) che mi hanno portato a enucleare ipotesi – solo ipotesi – di cui ho detto anche ad altri…”. Quell’“anche ad altri” fa pensare, per la seconda volta, che ne abbia parlato anche con Napolitano. Il quale però nega. “…quasi preso anche dal vivo timore di essere stato allora considerato solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi”. Il presidente riconosce che si tratta di frasi “drammatiche”. Perché allora non ne chiese conto al suo collaboratore dopo averle lette? La risposta è evasiva: quando, l’indomani, parlò con D’Ambrosio, lo fece soltanto per convincerlo a ritirare le dimissioni e non affrontò con lui il tema degli “indicibili accordi”. Ora, visto che D’Ambrosio è morto e gli “altri” destinatari delle sue confidenze sono ignoti, il giallo rimane insoluto. Il 1992. Anche sul 1992 – quando inizia l’attacco ricattatorio di Cosa Nostra allo Stato dopo la sentenza della Cassazione sul maxiprocesso, con il delitto Lima, la strage di Capaci, l’inizio della trattativa del Ros con Vito Ciancimino (intermediario prima con Riina poi con Provenzano), la mattanza di via D’Amelio, l’accantonamento di Ciancimino e le trame di Provenzano per consegnare Riina ai carabinieri – Napolitano ha poco da dire. Se non che ricorda bene come, alla Camera da lui presieduta, il decreto Scotti-Martelli sul 41-bis, varato il 6 giugno subito dopo Capaci, si arenò e occorse l’omicidio di Borsellino perché il Parlamento lo convertisse in legge il 1° agosto. E che, stranamente, il neopresidente dell’Antimafia Luciano Violante, suo compagno di partito, rivelò anche a lui che Ciancimino voleva esser convocato e sentito in commissione (cosa che Violante promise di fare, e poi misteriosamente non fece mai). Per la verità, a raccomandare don Vito per un incontro a tu per tu con Violante, era stato proprio il colonnello Mario Mori, ma questo il compagno Luciano non lo disse al compagno Giorgio. Perché il presidente dell’Antimafia avvertì proprio il presidente della Camera di quella richiesta di Ciancimino? Napolitano non sa spiegarselo. Il 1993. Dopo la cattura pilotata di Riina, Cosa Nostra si rifà sotto a suon di bombe per costringere lo Stato a piegarsi. Roma e Firenze a maggio. Poi Milano e di nuovo Roma nella notte fra il 27 e il 28 luglio. Il presidente ricorda che subito, fin dal 29 luglio, “la Triade” Scalfaro-Spadolini-Napolitano, cioè i massimi vertici dello Stato che condividevano tutte le conoscenze (mutuate dall’intelligence e dalle forze investigative) su quel che stava accadendo, erano certi che anche quelle stragi avevano una matrice mafiosa (“corleonese”, specifica il presidente) e un movente ricattatorio, estorsivo. Napolitano ricorda di averne parlato col presidente Scalfaro e forse, ma non lo ricorda con precisione, col premier Ciampi. Il quale, dopo il black out dei centralini di Palazzo Chigi nella notte delle bombe, dirà di aver temuto un colpo di Stato e tirerà in ballo la P2. Non solo Cosa Nostra voleva ricattare lo Stato: ma i massimi esponenti dello Stato si sentivano sotto ricatto di Cosa Nostra. Napolitano ricorda una imprecisata “pubblicistica” che già all’epoca avrebbe riferito di due correnti divergenti fra i corleonesi: l’ala guerrafondaia e un’ala più morbida (quella di Provenzano). In realtà nessuno allora scrisse mai nulla del genere: lo disse il ministro dell’Interno Mancino, nel dicembre ’92, poco prima della cattura di Riina, in un’incredibile intervista al Giornale di Sicilia. Poi si giustificò con i pm sostenendo di averlo saputo da Pino Arlacchi, consulente della Dia. Ma l’allora capo della Dia, Gianni De Gennaro, ha smentito: in quei mesi riiniani e provenzaniani risultavano una cosa sola, anzi si pensava che Provenzano fosse addirittura morto. Solo chi trattava con Ciancimino, e dunque con Provenzano, sapeva che quest’ultimo era vivo e si era smarcato dall’ala stragista. Ma su questi fatti Napolitano non ha nulla di utile da riferire. Tutti sapevano. In una nota del Sismi appena scoperta e depositata dai pm, datata 29 luglio ’93 (il giorno dopo le stragi di Milano e Roma), si legge: “Tra il 16 ed il 20 agosto ci sarà un attentato che non sarà portato a monumenti o a teatri, ma a persone. A livello grosso. Una strage. Poi si faranno ad uno grosso (inteso in senso di personalità politica). Spadolini e Napolitano, uno vale l’altro. Gli autori sono sempre i soliti: quelli là (riferito ai corleonesi?) d’accordo coi grossi (riferito ai politici) e coi massoni”. Parole che fanno scopa con quelle pronunciate ieri da Napolitano, che fra l’altro ha ricordato il rafforzamento delle misure di sicurezza sulla sua persona proprio in quei giorni. Perché è così importante, per la pubblica accusa, la testimonianza del presidente sulla matrice corleonese e sulla finalità ricattatoria delle stragi dell’estate ’93 come consapevolezza comune e unitaria fin da subito presso i massimi vertici dello Stato? 1) Perché, della “triade”, Napolitano è l’unico superstite: Scalfaro e Spadolini sono morti, e così l’allora capo della Polizia Vincenzo Parisi, uomo-chiave di quella stagione, anche per il suo filo diretto con Scalfaro. 2) Perché nessun altro uomo delle istituzioni di allora è mai stato così chiaro ed esplicito sul livello di consapevolezza dei rappresentanti dello Stato sul significato dell’offensiva stragista di Cosa Nostra: una lunga sfilza di politici smemorati e/o reticenti. 3) Perché, se già il 29 luglio ’93 si sapeva che le bombe in via Palestro e contro le basiliche erano roba di mafia per piegare lo Stato, non si comprende quel che accadde subito dopo. Piste e depistaggi. Il 6 agosto ’93, attorno a un tavolo del Cesis (il comitato che coordinava i servizi segreti militare e civile), si riunirono i capi dell’intelligence, ma anche il capo della Polizia Parisi, il capo della Dia De Gennaro, il vicecomandante del Ros Mori e il vicecapo e uomo forte del Dap Francesco Di Maggio. E se ne uscirono con una fumosa relazione, sulle bombe della settimana precedente, piena di piste fasulle al limite del depistaggio: oltre all’eventuale matrice mafiosa, ipotizzarono quella del terrorismo serbo, o palestinese, o del narcotraffico internazionale. Del resto, se gli apparati e i servizi avessero davvero avuto dubbi sulla pista mafiosa per strappare allo Stato un cedimento sul 41-bis, cioè sul trattamento dei boss detenuti, perché mai invitare a quel tavolo un estraneo come il vicecapo delle carceri Di Maggio? Fin da giugno, il suo superiore Capriotti aveva scritto al ministro Conso sollecitando un taglio lineare dei 41-bis per “dare un segnale di distensione nelle carceri”. E proprio per accelerarlo Cosa Nostra aveva seminato morte e terrore in quella primavera-estate. Infatti appena quattro giorno dopo il vertice al Cesis, il 10 agosto, De Gennaro firmò un rapporto della Dia, destinato a Mancino e a Violante, che metteva nero su bianco la pista mafioso-trattativista delle bombe e invitava il governo a non cedere sul 41-bis: “È chiaro che l’eventuale revoca anche solo parziale… del 41-bis potrebbe rappresentare il primo concreto cedimento dello Stato intimidito dalla stagione delle bombe”. Un modo per smarcarsi dal fumoso e depistante rapporto del Cesis, che pure lo stesso De Gennaro aveva siglato? Un mese dopo, 11 settembre, lo Sco della Polizia, guidato da Antonio Manganelli, fu ancora più esplicito, usando per la prima volta il termine “trattativa” in una nota inviata all’Antimafia di Violante: “Obiettivo della strategia delle bombe sarebbe quello di giungere a una sorta di trattativa con loStato per la soluzione dei principali problemi che affliggono l’organizzazione: il ‘carcerario’ e il ‘pentitismo’… Creare panico, intimidire, destabilizzare, indebolire lo Stato, per creare i presupposti di una ‘trattativa’, per la cui conduzione potrebbero essere utilizzati da Cosa Nostra anche canali istituzionali”. Più chiaro di così… Lo sbraco. Anche questo allarme, come i precedenti, viene ignorato sia da Mancino sia da Violante. E il 5 novembre il ministro Conso non rinnova il 41-bis in scadenza a 334 mafiosi detenuti, contro il parere negativo della Procura di Palermo. Ma in ossequio alla sollecitazione che gli veniva dal nuovo capo del Dap fin da giugno. Per negare l’evidente cedimento al ricatto mafioso, Conso s’è trincerato dietro il rapporto del Cesis che ipotizzava matrici diverse da quella di Cosa Nostra per le stragi dell’estate. Ma, oltre ai rapporti Dia e Sco, a smentirlo ora c’è anche la parola di Napolitano: i vertici dello Stato sapevano fin da subito che era stata Cosa Nostra per ricattarlo. E lo Stato sbracò.