La Chiesa che condanna le mafie

Di quale chiesa parliamo, quella che ha seppellito un boss criminale in una chiesa che per toglierlo da lì ci sono voluti vent’anni durante i quali è stato impossibile indagare sul perché un criminale avesse potuto trovare spazio in una basilica al pari di papi e santi?

E di quale stato parliamo, quello che fa fare le leggi per gli onesti ad un delinquente amico stretto della mafia criminale, quella che fa saltare autostrade e palazzi e scioglie bambini e donne nell’acido? 

 

CASELLI: “IL PAPA È IL NEMICO” 

Già procuratore capo di Palermo e numero uno del Dap il magistrato ritiene che sia “importante che la Chiesa non ceda, che non faccia passi indietro” rispetto al gesto dei mafiosi di non partecipare alla messa. “La coraggiosa denuncia del Papa non deve restare isolata, va sostenuta da tutta la Chiesa. Altrimenti rischia di essere occasionale e quindi sterile. Guai se l’inchino fosse accettato. E se il vescovo Francesco Milito ha già detto che prenderà provvedimenti, auspico che faccia la stessa cosa lo Stato”.

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Se dei carabinieri, forse per la prima volta nella storia di questo paese, compiono il gesto palese, evidente ma non sufficiente  perché TUTTI i cittadini onesti avrebbero dovuto girare le spalle al solito gesto di riverenza al padrino mafioso,  di abbandonare una processione religiosa dove si è ripetuto l’atto, che ormai, salvo rare eccezioni coraggiose, è diventato anch’esso parte del folklore di far fare l’inchino al mafioso ad una statua che può rappresentare un santo o una delle figure della sacra famiglia i provvedimenti seri non li deve prendere il vescovo ma lo stato.
Perché questa è una questione di stato, non religiosa.
E’ un’abitudine che si è incistata nella subcultura popolare dove tutto si mescola, anche la criminalità sanguinaria alla religione.
E alla criminalità mafiosa ci deve pensare lo stato non chi, anche dalla parte della chiesa, ha sempre guardato con indifferenza e ancorché riverenza, rendendolo qualcosa di normale, l’atto di fedeltà della religione alla criminalità mafiosa.

MA

In fin dei conti è giusto, ognuno si sceglie i suoi rappresentanti, e quello che si fa fare ad un pezzo di gesso è semplicemente quello che ha sempre fatto la maggior parte della gente: inchinarsi davanti alla delinquenza e alla criminalità. Per paura, convenienza, perché qualcuno lo ha fatto prima e qualcun altro ha pensato di dover portare avanti questa tradizione. Perché se la maggior parte della gente avesse alzato la testa invece di chinarla in segno di rispetto forse qualcosa di questo paese si potrebbe ancora salvare. E invece non si salva niente nel paese dove anche lo stato si è inchinato davanti alla mafia quando, per mezzo di certi suoi rappresentanti alti e altissimi, ha pensato che fosse più proficuo trattare con la criminalità mafiosa, piuttosto di combatterla sul serio. E non si salva niente dove ad un amico della mafia si chiede di collaborare alla stesura delle leggi, alla riforma di quella Costituzione dove nessuno aveva previsto che bisognasse stringere accordi, e la mano, ai referenti della mafia.

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Oppido, parroco: “Cacciate cronista del Fatto”
Solidarietà Cei – E la Dda apre un’inchiesta
Figlia boss: “Orgogliosa di mio padre” (video)

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LA FEDE CRIMINALE – Roberto Saviano

Gli affiliati alle ‘ndrine rinchiusi nel carcere di Larino hanno deciso di non partecipare più alla messa. Da settimane attuano una sorta di sciopero religioso.

DOPO la scomunica pronunciata da Papa Francesco per i detenuti è inutile — hanno detto al cappellano don Marco — andare a messa — È inutile quando si è stati esclusi dai sacramenti. L’anatema di Bergoglio è giunto potente e inaspettato nelle carceri che ospitano gli uomini di ‘ndrangheta. Gran parte del mondo ha interpretato la scomunica come una mossa teologica, un’operazione morale fatta più per principio che per reale contrasto alle organizzazioni criminali. Un gesto morale considerato importante per dare una nuova direzione alla Chiesa ma che difficilmente avrebbe potuto incidere nei comportamenti dei padrini, degli affiliati, dalla manovalanza mafiosa. Quale danno avrebbe mai recato ad un boss una condanna metafisica che non ha manette, non ha sequestri di beni, non ha ergastoli ma che semplicemente esclude spiritualmente dalla comunità cristiana e dai suoi sacramenti?
Da queste domande era nata la diffidenza di molti che temevano che la presa di posizione del Papa contro i clan fosse inutile. Un gesto bello, nobile, ma innocuo. Ma non è così e la “protesta” dei duecento detenuti affiliati lo dimostra. Intanto è una prima volta, un unico nella storia criminale e non è affatto quello che potrebbe sembrare ad una prima lettura: ossia una semplice conseguenza della scomunica. Quando si tratta di organizzazioni mafiose ogni azione, ogni parola, ogni gesto non può esser letto nel suo significato più semplice e elementare. Dev’essere inserito nella complessa grammatica simbolica che è la comunicazione dei clan.
Questo sciopero della messa non parla ai preti, non parla alla direttrice del carcere, non parla nemmeno al Papa. Questo sciopero non dice: «Il Papa ci ha tolto la patente di cristiani, non possiamo più battere le strade della messa e della comunione ». Perché questo è falso. Papa Francesco nel suo viaggio in Calabria ha fatto un gesto comunicativamente geniale, è andato a trovare i detenuti nel carcere di Castrovillari e ha detto loro «anche io sbaglio, anche io ho bisogno di perdono»: è in questa frase la vera forza della sua dichiarazione di scomunica. Non è contro l’uomo che in carcere appartiene all’organizzazione ma contro l’organizzazione. La scomunica non è all’assassino, all’estorsore, all’affiliato, al sindaco corrotto, al giudice compromesso, al boss, la scomunica è contro chi continua a sostenere l’organizzazione. La scomunica è all’assassinio, all’estorsione, alla tangente, alla corruzione quindi alla prassi mafiosa.
Quella degli affiliati non è quindi una sorta di protesta contro una Chiesa che ha abbandonato in contraddizione con il vangelo («ero carcerato e siete venuti a trovarmi») il conforto ai detenuti. È un manifesto. È una dichiarazione di obbedienza alla ‘ndrangheta, la riconferma del giuramento di fedeltà alla Santa. Questo sciopero è un gesto che deve arrivare all’organizzazione stessa. La scelta di andare a messa nonostante la scomunica avrebbe potuto far apparire gli affiliati sulla strada del tradimento, alla ricerca di quel nuovo percorso di pentimento che Francesco gli ha indicato.
Sottolineano: siamo scomunicati perché ‘ndranghetisti, e nessuna occasione simbolica è lasciata sfuggire dagli uomini dei clan per ribadire soprattutto dalle segrete di un carcere la loro fedeltà. Si sciopera contro la messa in questo caso per dichiararsi ancora uomini d’onore e non lasciare alcun sospetto di allontanamento dalle regole dell’Onorata Società. Quando ci si affilia la “santina” di San Michele Arcangelo viene fatta bruciare tra le mani unite e aperte a forma coppa e le parole pronunciate sono definitive: «In nome di nostro Signore Gesù Cristo giuro dinanzi a questa società di essere fedele con i miei compagni e di rinnegare padre, madre, sorelle e fratelli e se necessario, anche il mio stesso sangue».
La scomunica di Papa Francesco sta diventando un meccanismo in grado di alzare come un grimaldello le inaccessibili blindate che isolano i codici mafiosi dal resto della società civile. Bisogna insistere e agire, isolare quelle parti di chiesa saldate alla cultura mafiosa che ancora resistono, come dimostra quel che è accaduto sempre ieri a Oppido Mamertina, in Calabria, dove la processione ha reso l’omaggio alla casa di don Giuseppe Mazzagatti. Un “inchino” dovuto per non alterare un vecchio boss che ancora tiene (rispetto alle giovani generazioni) al vecchio rito e che — come in molti hanno lasciato trapelare — da decenni finanzia feste patronali e iniziative religiose nel suo territorio.
Nell’Italia della crisi i simboli contano come reale e spessa sostanza, non sono un orpello di facciata. Alla scomunica religiosa deve seguire una scomunica civile assoluta, che permetta l’esclusione del meccanismo mafioso dalle dinamiche quotidiane, economiche, sociali. Un’esclusione vera, radicale, definitiva.

Da La Repubblica del 07/07/2014.

 

 

Ladri più di ieri e meno di domani

RENZI CHIAMA IL PM ANTI CAMORRA A SORVEGLIARE GLI APPALTI EXPO

Il magistrato antimafia, chiamato dal premier Matteo Renzi a seguire i lavori della rassegna internazionale del 2015, in un’intervista al Mattino spiega: “I partiti sono ancora in preda del malcostume. E l’opinione pubblica è spesso distratta.

Cantone neo-commissario a Expo 2015
“Tangentopoli non ha insegnato nulla”

Il magistrato anti-mafia collega i casi Berlusconi, Scajola Dell’Utri e mazzette a Milano: “Politica
non ha fatto passi avanti. I partiti hanno responsabilità, non si sono dotati di regole trasparenti”.

Ecco.
Bisogna avvertire Scalfari, Ezio Mauro e tutto l’esercito dei meravigliati del mainstream de noantri, quelli che “ma com’è possibile che i criminali di oggi sono gli stessi di vent’anni fa”. E domandare che hanno fatto di bello e di utile in questi vent’anni per evitarlo.

 

Certo che può parlare di esilio anche Matacena e Dell’Utri può dire di essere un perseguitato da vent’anni se ancora oggi si parla del Craxi esule costretto a chiedere asilo politico come chi fugge dai regimi. Gli esempi contano, e forse conterebbero meno se il presidente della repubblica evitasse di partecipare alle varie commemorazioni in onore di un corrotto, un pregiudicato latitante, un vigliacco che si è sottratto a una giusta condanna. 
E se si evitasse di citare Craxi infilandolo nel pantheon di sinistra come ha fatto Fassino senza ripercorrere la fase che lo ha trasformato da statista a cittadino indegno. 
Tutti martiri dell’onestà in questo paese.

Se berlusconi, dell’utri, matacena, forse pure scajola a sua insaputa sono prigionieri politici, perseguitati dalla giustizia noi che siamo? 

Perché qua mi pare che i veri prigionieri politici, gli unici ad avere il diritto alla definizione siamo proprio e solo noi, veri ostaggi di una politica, di un governo, di istituzioni che nessuno ha scelto e che ci tocca subire. Questa gentaccia andrebbe incriminata, oltre che per i suoi reati anche per terrorismo semantico. Per abuso indiscriminato di parole che hanno un significato preciso, che vengono buttate nel frullatore mediatico senza che ci sia nessuno poi che spiega perché berlusconi, Dell’Utri e Matacena sono tutt’altro che vittime. 
Le vittime siamo noi, questo non va dimenticato.

L’assenza dello Stato e il sentimento di vendetta – Furio Colombo, Il Fatto Quotidiano

La stampa e l’informazione che oggi cadono dal pero, si meravigliano, si scandalizzano come Scalfari nell’editoriale di ieri ed Ezio Mauro in quello di oggi che i criminali di oggi sono gli stessi di vent’anni fa dovrebbero dare il giusto risalto a queste cose, così come lo fanno rispetto a qualsiasi scemenza, falsità, menzogna, diffamazione che esce dalle bocche di questi criminali. Quello che avrebbero dovuto fare in questi vent’anni, quelli di berlusconi impostore, abusivo della politica, delle leggi ad personam, della cancellazione dei reati per agevolare la collusione fra la politica e la criminalità. Se ad un condannato per una frode fiscale da 300 milioni di euro invece di una condanna gli si dà un premio, si annulla di fatto la sentenza che lo ha reso un cittadino non avente più diritto ai diritti di tutti, di chi non ruba allo stato e non si mette fuori dallo stato e dalla legge  è inutile poi lagnarsi, indignarsi che i protagonisti dei ladrocini siano sempre gli stessi, la stessa cricca ispirata anche dalle teorie del più ladro di tutti, ovvero l’abuso dello stato per l’interesse e l’arricchimento personali. Come fa notare anche Gherardo Colombo la politica anziché attivarsi per contrastare la delinquenza dentro la politica ha contribuito all’esaltazione del crimine, non ha modificato di una virgola quello che berlusconi e un parlamento complice hanno stravolto. Non ha lavorato né si è impegnata per ridare a questo paese una parvenza di decenza salvo poi gridare al lupo al lupo tutti insieme, informazione e politica, quando è arrivato il buffone a rovesciare il tavolo dell’immoralità.
Col risultato che noi cittadini oggi  non abbiamo più nessuna tutela né un punto di riferimento sano in un momento drammatico in cui ce n’è un estremo bisogno.

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“Come ai tempi di Mani Pulite colpa delle leggi ad personam”  Liana Milella – La Repubblica

Tutto «come vent’anni fa». I magistrati hanno raccolto «una serie quasi infinita di prove», ma le leggi ad personam e la prescrizione hanno falcidiato i processi. L’ex pm di Milano Gherardo Colombo è convinto che la svolta «non arriverà in tempi brevi». Un primo passo è sicuramente quello di «allontanare dal suo ufficio chi sbaglia la prima volta». Quanto alla politica, anche della sinistra, il giudizio è netto: «Non vedo da tempo interventi utili a prevenire la corruzione ».
Tangentopoli Due, Dell’Utri condannato, Scajola arrestato. Che succede in Italia?
«Tenuta ferma la presunzione di innocenza fino al giudizio definitivo, non c’è bisogno di queste notizie per avere la forte impressione che non sia cambiato molto dai tempi di Mani pulite. Forse sono diverse le modalità e, al momento, pare che non si riscontri quel coinvolgimento dei partiti politici che si era verificato allora. Ma l’impressione è che esista comunque una corruzione particolarmente diffusa nel nostro Paese».
Il sottosegretario Del Rio dice che bisogna cambiare l’etica pubblica. Come se fosse facile, visto che in Italia pare che il Dna dell’onestà sia carente.
Siamo condannati a veder riprodotti all’infinito questi comportamenti?
«È una questione che non riguarda solo l’etica pubblica, ma anche quella privata, perché quando si verifica un fatto di corruzione, oltre a una parte pubblica, è sempre coinvolto un soggetto privato, impresa o persona fisica che sia. A livello di vertice, la corruzione può essere un fenomeno costante solo se esiste una pratica diffusa in qualsiasi altro livello della società. Se non si promuovono cambiamenti che riguardano il rispetto delle regole per tutti, è difficile, se non impossibile, marginalizzare la corruzione anche ai livelli più alti».
Nella famosa intervista che dette a D’Avanzo 20 anni fa lei indicava nella politica e nel patto della Bicamerale una responsabilità determinante. Oggi la colpa su chi ricade?
«Non credo sia importante stabilire di chi sia la colpa, quanto cercare le cause. E allora mi chiedo: quali modelli di comportamento sono stati promossi in questi anni? Quali punti di riferimento sono stati indicati? Considero un equivoco pensare che un problema così generalizzato si possa risolvere a livello giudiziario, attraverso le inchieste, i processi e le sentenze. Proprio l’esito delle indagini degli anni Novanta costituisce un riscontro inconfutabile. La raccolta di una serie quasi infinita di prove, attraverso le quali venivano individuate le responsabilità di un gran numero di persone, non ha quasi avuto seguito a livello giudiziario ».
Non è troppo pessimista?
«I processi spesso si sono conclusi per prescrizione o per assoluzioni dipendenti da incisive modifiche della legislazione processuale e sostanziale, che hanno ridotto l’efficacia probatoria di alcune emergenze, hanno accorciato i termini di prescrizione e hanno ridimensionato reati come il falso in bilancio. Tutto ciò non ha impedito che la corruzione continuasse a mantenere livelli molto elevati. Da tempo sono convinto che incidere sulla corruzione sia necessario intervenire soprattutto a livello educativo e preventivo».
Non le viene il dubbio che così, tra 50 anni, ci troveremo con gli stessi fatti criminali?
«Se consideriamo che il fenomeno è così esteso, di certo la soluzione non potrà intervenire in tempi particolarmente brevi. Essa potrà essere tanto più rapida, quanto più l’educazione e la prevenzione saranno agite in modo tempestivo, organico e profondo».
Com’è possibile che nel mercato degli appalti trattino e facciano mediazioni personaggi come Frigerio e Greganti?
«In tanti casi persone ritenute responsabili di corruzione o che avevano patteggiato per questi reati sono state lasciate a svolgere le stesse funzioni. La questione coinvolge la responsabilità di chi ha il compito di applicare la legge e di fare scelte di gestione, e cioè scelte politiche».
Governo Prodi nel 2006, governo Renzi nel 2014. Le leggi di Berlusconi sono sempre in vigore. Non c’è una responsabilità della sinistra nell’ostacolare la riconquista della legalità?
«Da tempo, non ho visto interventi legislativi che cercassero di incrementare effettivamente, al di là delle parole, una maggiore capacità di intervento sia a livello educativo che a livello preventivo».
Cantone, un ex pm, è il nuovo commissario anti-corruzione e Renzi l’ha appena coinvolto da Renzi per Expo. I suoi consigli?
«Non credo di potergliene dare su come gestire il suo ufficio, ma è necessario che gli vengano dati gli strumenti e i mezzi per poter svolgere un’efficace attività di controllo in posizione assolutamente indipendente».