Illegalità made in Italy

 

Mauro Biani

Chi parla di regolamentare l’immigrazione per evitare che chi viene qui venga ridotto in condizioni di schiavitù passa per razzista. Da dove arrivano questi cinesi? Chi li fa entrare? Dei morti di Prato non si conoscono nemmeno i nomi. Questo di quale progetto di integrazione fa parte? La ministra Kyenge oltre a twittare la sua indignazione per “la dignità violata” che pensa di fare lei che per prima sponsorizza l’immigrazione tout court?  Integrazione non vuol dire che chi viene qui da paesi dove i diritti vengono ignorati e calpestati pensando ad un altro stile di vita possa continuare a vivere e ad agire nello stesso modo in cui lo faceva in quella realtà che ha abbandonato per disperazione. Dovrebbe significare altro che una politica, un governo e uno stato serio devono garantire per tutelare chi arriva ma anche chi c’era già. La quasi totalità dei cinesi che arrivano in Italia non sono nemmeno censiti, nessuno sa chi sono ma tutti sanno che arrivano qui per  contribuire alla concorrenza sleale, a svolgere attività senza la benché minima regola, in condizioni da quarto mondo ma soprattutto senza uno stato che quel rispetto delle regole dovrebbe pretendere così come fa con tutti gli altri.

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“Tutto quello che esiste passa di qui. Qui dal porto di Napoli. Non v’è manufatto, stoffa, pezzo di plastica, giocattolo, martello, scarpa, cacciavite, bullone, videogioco, giacca, pantalone, trapano, orologio che non passi per il porto. Il porto di Napoli è una ferita. Larga. Punto finale dei viaggi delle merci. Le navi arrivano, si immettono nel golfo, avvicinandosi alla darsena come cuccioli a mammelle, solo che loro non devono succhiare, ma al contrario essere munte. Il porto di Napoli è il buco nel mappamondo da dove esce quello che si produce in Cina”. [Gomorra, Roberto Saviano]

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Costituzione della Repubblica italiana. Art. 41: L’iniziativa economica privata è libera.
Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.
La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.
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Non compro robaccia fabbricata da gente che lavora in condizioni di schiavitù, realizzata con materiali scadenti, tossici, pericolosi per abbatterne i costi. Piuttosto faccio a meno, o aspetto un momento migliore per poter comprare cose di una qualità migliore. Questa mania di comprare, mangiare dal cinese perché si spende poco pensando che sia conveniente diventa complicità, se si pensa al sottobosco di orrori e illegalità che circonda il mercato cinese.

Nei capannoni industriali fuori legge viene fabbricato di tutto, non solo merce dozzinale  da vendere ai mercati ma anche capi di abbigliamento, pelletteria dei grandi stilisti che sfruttano la manodopera a basso costo, questo made in Italy che fa tanto orgoglio nazionale non esiste più da tempo. Quindi se non si può avere la sicurezza di non sovvenzionare berlusconi anche comprando carta igienica in virtù del conflitto di interessi si può evitare almeno in presenza dell’evidenza.  Se entro da Louis Vuitton non mi aspetto che la borsa da seicento euro l’abbia fabbricata il cinese di notte, ma se compro la cianfrusaglia da cinque euro sono sicura che è così. Ad esempio i giocattoli: quanta gente c’è che per risparmiare compra cose da poco di cui non sa la provenienza? il prezzo non sempre garantisce la qualità, ma nella maggior parte dei casi sì.


Ogni volta che succede qualcosa di grave o di gravissimo chissà perché qualcuno chiede delle leggi “speciali”. Stavolta lo fa l’assessore “alla sicurezza” [ma che roba è?] di Prato riguardo alla tragedia degli schiavi cinesi morti bruciati nel capannone adibito a fabbrica dormitorio clandestino come ce ne sono in ogni angolo d’Italia.

Dell’esistenza di questi obbrobri dove si sfrutta manodopera clandestina lo sanno tutti, anche quelli chiamati a far rispettare le leggi normali che, se applicate sarebbero bastate e dovrebbero bastare a prevenire e ad evitare tragedie come questa. Ma qui ovviamente no, non bastano le leggi normali, c’è sempre qualcuno a cui non bastano trecentomila leggi ma ne vuole ancora e ancora per ribadire l’ovvio già formulato in quelle che c’erano.

Santoro anni fa fece un’inchiesta proprio sui capannoni della zona di Prato, una realtà drammatica di gente costretta a lavorare giorno e notte senza nessun diritto che tutti conoscono ma che nessuno controlla perché fa comodo così, perché basta pagare per far girare da un’altra parte la testa ai controllori che però, di fronte ad altre situazioni sono sempre molto presenti e attivi per sanzionare commercianti, esercenti e piccoli imprenditori – quelli regolari – per qualsiasi tipo di violazione, fosse anche il tavolino del bar che occupa un centimetro in più di suolo pubblico. 

Ma stranamente di questi capannoni a cielo aperto fuori legge gestiti da criminali che fanno lavorare gente in condizioni di schiavitù ne viene chiuso uno ogni tanto e ci vuole sempre la tragedia per ricordarsi della loro esistenza. 

Nel caso dei lavoratori schiavi cinesi poi – chissà perché – scompare anche ogni tipo di solerzia da parte delle forze dell’ordine, della guardia di finanza che va a fare i blitz nelle località alla moda, quelli che rendono mediaticamente, terrorizza i venditori ambulanti pakistani, senegalesi, maghrebini sulle spiagge d’estate ma poi davanti all’illegalità con gli occhi a mandorla si distrae. 

Ecco perché non servono leggi speciali ma servirebbe solo gente seria che facesse rispettare quelle che ci sono e che c’erano, gente non corrotta né corruttibile che non lascia correre per non disturbare gli ottimi rapporti fra l’Italia e la Cina dove di diritti civili, ma anche di quelli umani, è vietato perfino parlare.

La modica quantità Massimo Rocca – Il Contropelo di Radio Capital

C’è davvero tutta la tragedia del nostro tempo in quella riga della lettera di Giorgio Napolitano, la tragedia che lega Prato all’Ilva, la Thyssen alla terra dei fuochi. “Far emergere le realtà produttive da una condizione di insostenibile illegalità e sfruttamento senza porle irrimediabilmente in crisi”. La legge e i diritti si, ma nella modica quantità necessarie perchè reggano alla competizione selvaggia, a qualsiasi livello, dalle onnipotenti multinazionali al più scalcinato laboratorio di clandestini. Perché è vero, come dice splendidamente Toni Servillo di fronte alle pesche puzzolenti di Gomorra, che scaricare i fanghi tossici nella terra di tutti serve alle aziende del nord per contenere i costi. Così come servono i loculi premortuari di Prato, o i parchi minerali di Taranto. Altrimenti si va fuori mercato, si va irrimediabilmente in crisi. Si perde quel lavoro indispensabile anche se assomiglia alla schiavitù o se ti mangia la salute. Ce la raccontano così. Una equazione in cui la variabile indipendente è il profitto di pochissimi, e il lavoro e l’’illegalità e lo sfruttamento di tutti devono trovare l’equilibrio residuo. E noi ci stiamo. La Cina è vicina.

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Prato, quei sette cinesi morti per soldi. I loro e i nostri – Mario Portanova, Il Fatto Quotidiano

I forzati del pronto moda producono capi che vengono acquistati da aziende italiane (o tedesche, o francesi..) che poi li rivendono non soltanto agli ambulanti dei mercati, ma anche alle catene della grande distribuzione che in questi giorni stanno agghindando le vetrine dei loro negozi per Natale. Una catena alla fine della quale ci siamo noi che ci portiamo a casa magliette e vestiti per pochi euro. 

Con la collega Lidia Casti siamo stati in un laboratorio tessile cinese a Milano e abbiamo girato in lungo e in largo per il Macrolotto di Prato, dove è successa la tragedia, per lavorare al libro Chi ha paura dei cinesi (Rizzoli-Bur 2008). Abbiamo parlato (in cinese, grazie a Lidia) con gli imprenditori e gli operai e molte delle cose che ci dicevano sono risultate spiazzanti rispetto alla retorica della schiavitù e dello sfruttamento emersa in seguito al fatto di cronaca. Nel laboratorio di Milano gli operai lavoravano a cottimo: ogni pantalone cucito fruttava 1,20 euro, che andavano per metà all’imprenditore e per metà al lavoratore (nel caso di Prato pare che agli operai andassero 0,40 euro a capo). Quando siamo arrivati, otto lavoratori stavano smaltendo un ordine di 600 pantaloni e 400 gonne da consegnare in due giorni. Tempi e compensi non erano stabiliti dall’imprenditore cinese cattivo stile Oliver Twist, ma da una importante catena della grande distribuzione italiana che fa la pubblicità in tv e ha punti vendita nelle vie centrali di molte città (non la nomino per non rompere il patto con chi ci ha concesso fiducia).