Quel nonsocché di ridicolo

Sottotitolo: quando Sciascia ha scritto dei “professionisti dell’antimafia” si riferiva a chi come Borsellino, specialmente a lui era indirizzato il messaggio, per combattere la mafia è morto. C’è gente che ha costruito fior di carriere perché si è sempre dichiarata contro le mafie, ma l’antimafia non si dice: si fa.
Gli antimafiosi veri in questo paese di solito li ammazzano, non gli mettono in mano il potere.

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L’ultima intervista a Pippo Fava, ammazzato dalla mafia a Catania il 5 gennaio 1984

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Non c’è un modo per dare una notizia: c’è la notizia,  se c’è il giornale e i giornalisti la divulgano.

Anche basta con questa storia dell’opportunità di pubblicare o meno che ha avuto il suo apice con berlusconi e quelle che erano tutt’altro che faccende sue private.
Quello che emerge dalle intercettazioni in cui sono coinvolti i politici dovrebbe interessare sempre, non per voyeurismo ma perché quei politici sono scelti dalla gente che [forse] se fosse più informata su chi sono le persone che manda al comune e in parlamento le sceglierebbe con più attenzione.
Dover rispiegare ogni volta e ancora l’importanza di conoscere il politico in tutte le sue dimensioni, anche quelle private, anche quando sono “penalmente irrilevanti” ma che danno comunque la misura della moralità e dell’etica della persona che si occupa delle cose di tutti è diventato nauseante.

I cattivi maestri ci vogliono convincere che l’intercettazione deve rimanere segreta, non essere diffusa quando i suoi contenuti non hanno niente di penalmente rilevante: la solita stucchevole tiritera che viene ripetuta ogni volta che qualcuno svela cosa c’è nel backstage della politica, una cosa normalissima che succede in tutti i paesi più civili del nostro.
Quelli buoni, invece, pensano che i cittadini abbiano il diritto di sapere chi sono, cosa fanno, cosa dicono e come si comportano SEMPRE i “signori” della stanza dei bottoni visto che sono quelli a cui si affida non solo la gestione del paese ma anche quella delle nostre vite che possono stravolgere a immagine e somiglianza: le loro, il che è tutto dire.
Ad esempio io a Renzi non avrei affidato nemmeno la gabbia dei criceti se ne avessi avuta una, mentre il 40,8% della metà degli italiani ha pensato che lui fosse la persona più giusta e più adatta per mettersi alla consolle di questo sciagurato paese il cui destino non viene deciso da istituzioni responsabili, da una politica che ha a cuore il bene collettivo ma viene manipolato da qualche gruppetto di amichetti di sontuose merende i cui interessi sono sempre altrove dai nostri.

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Leggendo certi commenti sembra che la procura abbia smentito che esista la telefonata fra ‪Crocetta‬ e Tutino: nient’affatto, la procura ha solo detto che non è stata trascritta negli atti, che è ben diverso dal negarne l’esistenza come piacerebbe a qualcuno di quelli che “il direttore de L’Espresso si deve dimettere”.
Se in questo paese molti tendono a fidarsi più di qualche giornale e di alcuni giornalisti che di una procura qualche ragione ci sarà.

Le intercettazioni servono non solo a farci capire chi sono le persone che esercitano l’autorità politica ma anche da che tipo di gente si fanno frequentare; ‘sti cazzi del penalmente irrilevante, la balla dietro alla quale si vuole nascondere il letamaio in cui galleggia la politica che conta che raccontano e se la raccontano anche quelli che sono nella nostra stessa barca  ai quali evidentemente va bene questo andazzo. Consideriamo che ad una ventina di milioni di italiani questo sistema è andato benissimo e per mantenerlo sarebbero e sono disposti anche a votare degli irriducibili bugiardi e disonesti. Lo hanno fatto, lo continuano a fare.
Ma nel paese normale, civile e democratico davvero i cittadini hanno il diritto di sapere chi sono, chi frequentano, come si comportano in certe situazioni i politici che li governano [parlando con pardon].
Questo sarà un paese diverso il giorno in cui gli elettori potranno scegliere di non votare il politico solo perché si mette le dita nel naso, altroché le balle della Boschi. 

Ma per fortuna come diceva Ennio Flaiano la situazione politica in Italia “è grave ma non seria”. 

C’è sempre quel nonsocché di grottesco, ridicolo che aiuta a metabolizzare anche le schifezze più allucinanti.
Ad esempio il garantismo à la carte del pd secondo il quale “nessuno è colpevole fino al terzo grado” ma  nel caso di berlusconi si può anche sorvolare su una sentenza definitiva facendolo addirittura accomodare al tavolo della trattativa nazarena, però Crocetta si deve dimettere per una faccenda ancora tutta da chiarire.
Poi quel “metodo Boffo” stracitato ad cazzum ignorando che il metodo Boffo è quello orchestrato ai danni di qualcuno che viene screditato con la diffusione di menzogne come fu proprio per Dino Boffo o per delle idiozie di nessuna rilevanza non solo penale ma anche sociale come il colore dei calzini del giudice Mesiano, le foto di Vendola ragazzo nudo su una spiaggia nudisti, la Boccassini che in gioventù flirtava con un comunista, come se questi fossero dettagli determinanti a definire la serietà di persone che hanno avuto poi responsabilità pubbliche e politiche.
La facilità con la quale in questo paese tanta gente riesce ad introiettare il linguaggio usato dai politici quando devono difendersi da qualche accusa, fosse anche un’amicizia con persone discutibili è uno dei motivi per cui qui un “caso Watergate” non sarebbe mai potuto accadere e non potrebbe accadere.
La mentalità provinciale tipica di tanti italiani che di fronte a cose più grandi di loro anziché sforzarsi di comprenderle le temono, condannano chi le porta alla luce, avrebbe messo in croce anche Carl Bernstein e Bob Woodward, i due giganti del giornalismo d’inchiesta che inchiodarono Nixon – senza preoccuparsi di urtare la sensibilità di qualcuno – costringendolo alle dimissioni.

L’Italia civile è con Nino Di Matteo e i Magistrati antimafia

 C’è un magistrato, si chiama Nino Di Matteo, che sostiene l’accusa nel processo stato-mafia. Totò Riina dal carcere dove è detenuto in regime di 41bis gli ha fatto sapere che gli dà fastidio, che è “tutto pronto” come negli attentati in cui furono disintegrati Giovanni Falcone, sua moglie e la scorta, Paolo Borsellino e la scorta.
Nino Di Matteo  non può presenziare al processo, viaggia su un blindato e mentre qualcuno si chiede e si indigna anche, perché durante la protesta di questi giorni c’era chi inneggiava alla mafia, Di Matteo viene ignorato da tutti, a partire dallo stato che si costerna, s’indigna, s’impegna, poi more solito, getta la spugna. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino parlavano sempre della loro solitudine, e sono stati ammazzati quando lo stato li ha abbandonati. Lo scorso anno Napolitano alla commemorazione di Falcone disse che “vent’anni fa lo stato non si lasciò intimidire”: oggi lo stato, anche per bocca di Napolitano tace e non dice una parola a sostegno di un giudice minacciato di morte dalla mafia.
 Questo blog sostiene Nino Di Matteo, l’antimafia, i giudici, i magistrati che si impegnano e lottano contro la mafia e tutte le criminalità che strozzano il paese, i cittadini onesti, e la Società Civile sempre al loro fianco.

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Tra Stato e mafia: chi ha paura di Nino Di Matteo? Giuseppe Pipitone, Il Fatto Quotidiano

Un uomo non può fare il suo lavoro, perché rischia di essere ammazzato. Non siamo nel Medioevo, non siamo in guerra, non siamo in un Paese barbaro. E l’uomo in questione non fa il rapinatore di banche, il sicario professionista, il contractors addestrato ad uccidere, e quindi ad essere a sua volta assassinato. Siamo in Italia, un Paese civile, senza guerre e in democrazia. E l’uomo in questione fa ilmagistrato, è onesto, è un servitore dello Stato. Antonino Di Matteo è in magistratura dal 1993, l’epoca delle stragi, quando gli venne sputato in faccia il destino del mestiere che aveva scelto: la prima volta che indossò la toga non era formalmente un pm, ma solo un giovane uditore, catapultato a fare da picchetto alle bare delle vittime del botto di Capaci. Altri tempi, direbbe qualcuno. Altro Paese. Altra mafia.

E invece no. E non perché i tempi non siano cambiati: anzi, sono cambiati eccome. L’ala militare di Cosa Nostra non c’è più, i boss stragisti sono al carcere duro, in Sicilia c’è un governatore in aperto contrasto con Cosa Nostra e come seconda carica dello Stato è stato eletto un magistrato impegnato per quarant’anni in indagini antimafia. I tempi sono cambiati. Dicono.

Eppure a leggere la cronaca degli ultimi giorni si potrebbe dire che non solo non sono cambiati, ma forse sono perfino peggiorati. E d’altra parte quando si dice che sono cambiati, nessuno specifica mai se in peggio o in meglio.

Delle minacce di morte a Di Matteo è stato scritto tanto: una lettera anonima ha svelato nei mesi scorsi il progetto di assassinarlo, avallato direttamente da Totò Riina; le microspie nascoste nel carcere milanese di Opera hanno poi certificato che in effetti il capo dei capi desidera ardentemente la sua morte, arrivando addirittura a dire che è tutto pronto e che l’attentato sarà compiuto in maniera eclatante. Inquietante, senza dubbio.

Diversi inquirenti, commentatori, giornalisti (compreso chi scrive) si sono sforzati di trovare unalogica, un senso, una struttura, alle parole di Riina e non è qui opportuno entrare nel merito delle ricostruzioni. Quel che è certo è che le minacce sono fondate: così le considerano gli investigatori, così le ha bollate perfino il ministro degli Interni, non certo uno storico supporter della procura di Palermo. Il responsabile del Viminale è andato oltre: ha lanciato l’allarme stragi, assicurando al contempo che ogni mezzo sarà messo a disposizione per tutelare Di Matteo. Bene, bravo, bis.

Solo che Di Matteo non può fare il suo lavoro. Non può farlo più, perché il rischio di attentato è talmente alto da obbligarlo a muoversi con un Lince, una specie di carro armato, per recarsi alle udienze del processo sulla Trattativa Stato – mafia, fascicolo complesso di cui è il più profondo conoscitore. Ora è vero che le minacce di Riina potrebbero cessare modificando il trattamento carcerario del boss, è vero che con un carro armato si limitano i rischi per Di Matteo, ma è vero anche che  – come si scriveva poco più sopra – i tempi sono cambiati. I boss stragisti dovrebbero essere tutti rinchiusi, e non ci dovrebbe essere alcun pezzo sostanzioso di associazione criminale in grado di farsi beffe della protezione dello Stato: così almeno ci è stato fatto credere. E allora dove sono i nostri servizi di sicurezza? Perché Di Matteo rischia ancora la morte? Nessuno si è occupato di capire cosa stia succedendo nel ventre molle di questo Paese?

Paolo Borsellino venne assassinato perché nessuno, dopo l’eliminazione di Giovanni Falcone, si occupava di capire cosa stesse succedendo dentro Cosa Nostra. E se qualcuno se ne occupava o ha fatto male il suo lavoro, avendo sulla coscienza la strage di via d’Amelio, oppure lo ha fatto fin troppo bene, agevolando e accelerando l’assassino di Borsellino a causa di giochetti, colloqui e negoziati bollati come sicurezza di Stato. Delle due, l’una.

Dicevamo, però, che i tempi sono cambiati. Oggi è lecito sperare che alcun pezzo o apparato di Stato collabori con la criminalità organizzata, o addirittura si sostituisca ad essa. A raccontare di casi simili sono proprio le inchieste che Nino Di Matteo non può oggi portare avanti: uomini di Stato assassinati da pezzi dello stesso Stato. Oggi, che come dicevamo i tempi sono cambiati, è lecito chiedersi quale fosse lo Stato più autentico. E da quale parte stia quello Stato. I silenzi delle più alte autorità, Quirinale in testa, sul caso Di Matteo sono in questo momento più rumorosi di un boato. Da cosa dobbiamo proteggere Di Matteo? E, soprattutto, da chi?

 

Peppino, l’Italia e la memoria violentata

Il casolare dove fu assassinato Peppino Impastato venga consegnato alla collettività: l’appello si può firmare su http://www.change.org/it

I tifosi del Torino durante il minuto di silenzio per la morte di Andreotti, alzano una foto di Falcone e Borsellino.

Scrivevo ieri sera nella mia bacheca di  facebook che a parte qualche sporadico flash nessun telegiornale di punta e nelle ore di punta ha ricordato ieri Peppino Impastato ammazzato dalla mafia trentacinque anni fa, il 9 maggio, lo stesso giorno del ritrovamento del cadavere di Aldo Moro, niente succede per caso, l’hanno ammazzato apposta il 9 maggio così tutti avrebbero parlato di Moro e non di lui. 

Anche questo fa parte del progetto Portella della Ginestra il cui marchio è stato depositato il 1 maggio del 1947.

Ecco come si uccide anche la memoria dopo le persone, in questo paese i morti di mafia e di stato si ricordano solo quando si vogliono insultare, per informazioni chiedere alle famiglie Giuliani, Cucchi e Aldrovandi, per non parlare di quanto sono stati e sono ancora insultati i Magistrati antimafia ammazzati dalla mafia dopo essere stati abbandonati da quello stato che avrebbe dovuto proteggerli, sostenerli, difenderli.
Ecco perché tocca a noi ricordare, senza nulla togliere alla statura morale e politica di Moro [i politici che non valgono niente non li ammazza nessuno: al massimo li nominano nelle commissioni, li fanno ministri, se poi valgono meno di niente possono addirittura aspirare alla presidenza del consiglio: il riferimento non è solo al noto delinquente ma anche ai suoi eredi, figliocci, o per meglio dire, nipoti]. 
Se questo fosse un paese normale, un ragazzo di trent’anni che ha speso tutta la sua giovane vita a combattere le ingiustizie, la criminalità, la mafia, e non lo faceva dalla tastiera di un computer ma in prima linea, mettendoci tutto se stesso e che per questo è stato ammazzato dovrebbe essere un punto di riferimento per le nuove generazioni, dovrebbe essere ricordato nelle scuole di ogni ordine e grado di tutta Italia, gli dovrebbero intitolare piazze e vie, mentre invece solo l’anno scorso il prete di una chiesa di Catania negò la commemorazione religiosa a Peppino con la motivazione che “i tempi non erano ancora maturi”, solo qualche giorno prima nella stessa chiesa lo stesso prete non negò la celebrazione di una messa dedicata a mussolini nell’anniversario della sua morte.
Ma per Napolitano il grande dramma di questo paese è la violenza verbale, questo sì, è veramente preoccupante.
Dire due parole nel merito di una sentenza che ha confermato la condanna al noto delinquente di cui sopra è invece disdicevole, anzi no, è divisivo.

“Napolitano è andato alla camera ardente di Andreotti e il presidente del Senato Grasso, fino all’altroieri procuratore anti-mafia, è andato al funerale. Il giorno prima era a quello di Agnese Borsellino, il giorno dopo a quello di Andreotti: prima il dovere poi il piacere. E ora qualcuno trattiene il fiato, perché Provenzano sta poco bene”.

 “I politici considerano Andreotti il loro santo protettore: ne ha combinate di tutti i colori, ma l’ha sempre fatta franca. Per loro è un portafortuna e un motivatore: se l’ha sfangata persino uno come lui, noi nanetti che -per quanto ci sforziamo- non riusciremo
mai a combinarne tante, siamo a cavallo. Perciò ripetono come un mantra che è stato assolto: la sua falsa assoluzione è anche la loro, per quel che han fatto e per quel che faranno. Ma, oltre alla statura dei politici, si dice che c’è anche un’altra differenza fra prima e seconda Repubblica: la perdita dell’ipocrisia…” [Marco Travaglio]

Gli interdetti
Marco Travaglio, 10 maggio

Mette sempre di buonumore leggere i giornali di B. all’indomani di una sentenza su B. Intanto perché denotano una preoccupante penuria lessicale, ai limiti dell’analfabetismo di ritorno (e anche di andata). Usano sempre le stesse 3 o 4 parole: persecuzione, politicizzazione, orologeria e — ultima new entry — pacificazione. Si domandano il perché di tanti processi a B., con la stessa impudenza con cui Riina si domanda il perché di tanti processi a Riina: l’idea che il numero dei processi di un imputato mai denunciato da nessuno derivi dalla sua capacità criminale non li sfiora proprio. E soprattutto abbandonano ogni barlume di logica: usano le sue presunte “assoluzioni” (quasi sempre prescrizioni del reato commesso o depenalizzazioni del delitto contestato) per dimostrare che B. è un perseguitato, senz’accorgersi che i perseguitati non vengono assolti; e che, dando credito alle sentenze che assolvono, si dà automaticamente credito anche a quelle che condannano. Un altro refrain è quello di inquadrare le sentenze nel clima politico del momento. Se B. viene condannato prima delle elezioni, è una manovra per fargliele perdere; se dopo aver vinto le elezioni, è una rappresaglia contro la vittoria; se dopo averle perse, è un complotto per fiaccare l’opposizione; se mentre va al governo col Pd, è un colpo mortale alla pacificazione del Paese. Qualunque sia la durata dal processo, è sempre troppo breve. Quello sui diritti Mediaset iniziò nel 2006: eppure il Giornale titola sulla “sentenza a tempo di record” e Libero sulla “sentenza lampo”: in effetti appena sette anni per due gradi di giudizio denotano una fretta sospetta. Ci vuole una riforma per rallentare un altro po’. Per Sallusti, “B. è l’unico capitano d’industria che per i giudici non poteva non sapere”. E il suo gemello con le mèches, su Libero , lamenta che in appello non siano stati risentiti tutti i testi e gli imputati (non sa, lo sventurato, che salvo casi eccezionali l’appello si fa sugli atti del primo grado) e che i giudici milanesi, dunque persecutori, hanno “scelto” di confermare i 5 anni di interdizione, ma “è lecito dubitare” che la “scelta” verrà confermata dalla Cassazione, che per fortuna “non è ancora a Milano”, dunque immune dal virus. Non sa, il poveretto, che per le condanne superiori ai 3 anni è obbligatoria e automatica l’interdizione di 5 anni, e per quelle sopra i 5 anni l’interdizione perpetua (art. 29 Cp). Lorsignori, poi, fingono di ignorare le carte del processo, da cui emerge che B. non è stato condannato perché non poteva non sapere, ma perché sapeva e faceva. Confalonieri “è fortemente plausibile che fosse a conoscenza della frode e, violando i suoi precisi doveri, nulla abbia fatto”, ma in mancanza di prove ulteriori è stato assolto. Su B. invece esistono — si legge nella prima sentenza, confermata l’altroieri — pesano “piene prove orali e documentali”. 
La testimonianza dell’ex Ad Fininvest Franco Tatò: “L’area dei diritti tv era assolutamente chiusa e impenetrabile, gestita da Bernasconi che dava conto direttamente a Berlusconi e non al Cda”. Quella dell’ex responsabile contratti Silvia Cavanna: “Bernasconi mi diceva ‘picchia giù con i prezzi’ solitamente dopo incontri ad Arcore con Berlusconi”. Una mail del contabile della Fox, Douglas Schwalbe: “Non si vuole che Reteitalia (Fininvest, ndr) faccia figurare utili… i profitti vengono trattenuti in Svizzera”, le reti tv “sono state ideate per perdere soldi… L’impero di Berlusconi funziona come un elaborato shell game con la finalità di evadere le tasse”. La lettera-confessione del produttore-prestanome Frank Agrama: “Ero loro rappresentante” (di Mediaset). Altre formidabili prove non sono disponibili solo perché — racconta la Cavanna — dopo le prime perquisizioni “furono fatti sparire 15 anni di carte in Lussemburgo, credo con camion”. 
In qualunque altro paese del mondo, uno così non farebbe le marce davanti ai tribunali. 
Ma al gabbio, nell’ora d’aria.

Giovanni Impastato, fratello di Peppino, denuncia: «Mi chiedo se sia un paese civile quello che ricopre con l’immondizia il sangue di mio fratello. È vergognoso, quel casolare è il luogo della memoria più importante della Sicilia che ha lottato contro la mafia. Mi chiedono di mettere almeno una targa, ma il tetto è rotto e il proprietario porta qui le mucche a pascolare. Qualche giorno fa mi sono recato sul posto insieme a una scolaresca di ragazzi del Nord, ma ho bloccato tutto perchè ho provato vergogna. Non dico di mettere il tappeto rosso, ma il sindaco potrebbe almeno vigilare sulla pulizia facendo leva sul proprietario».

«È una questione di dignità, noi qui abbiamo trovato il sangue di Peppino. Mi vado sempre più convincendo che la memoria di Peppino non interessa più a nessuno. Neanche a quelli che dicono di volerla difendere, fra le istituzioni e la cosiddetta società civile. La verità è che siamo stati abbandonati da tutti».

Firma questa petizione per aderire all’appello di Rete 100 passi.

http://www.change.org/it/petizioni/il-casolare-dove-fu-assassinato-peppino-impastato-venga-consegnato-alla-collettività-4?utm_campaign=autopublish&utm_medium=facebook&utm_source=share_petition

Commistioni

Sottotitolo: quando poche settimane fa è morta Margaret Thatcher nessun comitato sportivo ufficiale inglese  ha stabilito che si dovesse osservare il minuto di silenzio, è stato chiesto ai diretti interessati, ovvero ai tifosi, se fossero o meno d’accordo, alla loro risposta negativa il rifiuto è stato rispettato e non c’è stata nessuna commemorazione sui campi di calcio. 

Dunque hanno fatto benissimo all’Olimpico a fischiare il minuto di silenzio per Andreotti, visto che nessuno ha chiesto ai tifosi se fossero o meno d’accordo nell’osservarlo.
Inutile l’ipocrisia degli speakers che hanno parlato del momento di crisi della gente verso la politica. Quei fischi erano proprio e solo per il fu divo.

Se un ex procuratore antimafia promosso alla presidenza del senato va al funerale di un prescritto per mafia, in quale versione ci va: da ex procuratore antimafia, da presidente del senato, da conoscente dispiaciuto, da ipocrita così come c’è andata la maggior parte della gente che era presente ai funerali “in forma privata” di Andreotti o che altro?


E magari fra quindici giorni Grasso andrà anche a Palermo a fare il discorsetto di ordinanza a Capaci?
Ci sono cose che si devono fare e quelle che perfino un’istituzione può evitare di fare se vuole, se pensa che non siano opportune, la politica è fatta soprattutto di gesti simbolici, e malgrado l’avvocatessa Bongiorno ancora ieri parlava di un Andreotti “assoltissimo” così non è. 
E il presidente del senato, se ci teneva così tanto a non far mancare la sua presenza poteva benissimo limitarsi a mandare un telegramma di condoglianze suo personale, visto che non tutta l’Italia che adesso anche Grasso rappresenta è obbligata a commemorare Andreotti e a dispiacersi per la sua dipartita, invece di sedere in prima fila ai funerali del prescritto per mafia.

Andreotti non andò al funerale di mio padre. Preferiva i battesimi di Nando Dalla Chiesa – Il Fatto Quotidiano

Andreotti, Ambrosoli non commemora

Se l’è andata a cercare
Massimo Gramellini, La Stampa

Mentre il consiglio regionale della Lombardia rendeva omaggio al fantasma di Andreotti, il capo dell’opposizione Umberto Ambrosoli è uscito dall’aula. Suo padre, l’avvocato Giorgio, fu ammazzato sotto casa in una notte di luglio per ordine del banchiere andreottiano Sindona: aveva scoperto che costui era un riciclatore di denaro mafioso. Trent’anni dopo Andreotti commentò l’assassinio di Ambrosoli con queste parole: «Se l’è andata a cercare». 

Il perdono è una cosa seria. E’ fatto della stessa sostanza del dolore e si nutre di accettazione e di memoria, non di ipocrisie e rimozioni forzate. La morte livella, ma non cancella. Con buona pace del quotidiano dei vescovi che ieri titolava: «Ora Andreotti è solo luce». Per usare una parola alla moda, Andreotti era divisivo. Lo era da vivo e lo rimane da morto. Purtroppo anche Ambrosoli. Perché esistono due Italie, da sempre. E non è che una sia «buona» e l’altra «cattiva», una di destra e l’altra di sinistra (Giorgio Ambrosoli era un liberale monarchico). Semplicemente c’è un’Italia cinica e accomodante – più che immorale, amorale – che non vuole cambiare il mondo ma usarlo. E un’altra Italia giusta e severa – più che moralista, morale – che cerca di non lasciarsi cambiare e usare dal mondo. Due Italie destinate a non comprendersi mai. Un’esponente lombarda del partito di Berlusconi ha detto che il figlio di Ambrosoli ha mancato di rispetto al morto. Non ricorda, o forse non sa, che anche Andreotti aveva mancato di rispetto a un morto. Quell’uscita dall’aula se l’è andata a cercare.

QUANDO IL DIVO DISSE: “SE L’ANDAVA CERCANDO”

Il dottor Ambrosoli  ha fatto benissimo.  

Le cattive abitudini si correggono solo con azioni educative, con gesti esemplari, e quella di Ambrosoli lo è stata, così come è illuminante l’articolo di Nando Dalla Chiesa.

Oggi non sa solo chi non vuole sapere e nessuno è obbligato a dovere del rispetto ad una persona morta, se quel rispetto non ha saputo conquistarselo da viva.

Uno dei miei punti di riferimento  è una  donna nera che una sera, tornando dal lavoro, rifiutò di cedere il suo posto sull’autobus che a quei tempi era  riservato solo ai bianchi.

Con quel semplicissimo NO diede il via ad una rivoluzione  senza precedenti: il segno che bastano anche i piccoli gesti simbolici a cambiare le cose. 

Qui ci vorrebbero meno politici e più Rose Parks.

 E se sparissero finalmente tutti gl’ ipocriti, corrotti, conniventi con tutte le mafie, opportunisti, invece di essere infilati nelle commissioni preposte al controllo degli apparati dello stato sarebbe una grande conquista di civiltà per l’Italia.

“Ha una vaga idea la signora della storia di quegli anni? ci sono anche dei libri, s’informi, e si vergogni”.

Bravo Cacciari, quanno ce vo’ ce vo’.


Le lingue di Menelik
Marco Travaglio, 8 maggio

Nel 1889 l’ambasciatore italiano ad Addis Abeba siglò un trattato di amicizia con il negus Menelik, imperatore d’Etiopia, dopo la conquista dell’Eritrea. La firma avvenne nell’accampamento del Negus, a Uccialli. Ma ben presto i due paesi tornarono a litigare, perché il trattato diceva una cosa nella versione in lingua italiana e un’altra in quella in lingua amarica. Nella prima, l’Etiopia diventava un protettorato italiano e il Negus affidava la politica estera etiope al nostro governo. Nella seconda, il Negus poteva delegare la politica estera all’Italia quando voleva, e quando non gli conveniva poteva fare di testa sua. Una furbata all’italiana per consentire a entrambi i governi di presentarsi come vincitori agli occhi dei rispettivi popoli. Naturalmente la magliarata durò pochi mesi: poi Menelik, senz’avvertire Roma, strinse rapporti diplomatici con la Russia e la Francia. E riesplose la guerra. La storia ricorda quel che sta accadendo nel Pd: da quando, non bastandogli il suicidio sulla via del Colle, ha deciso di suicidarsi una seconda volta (impresa che può riuscire solo al Pd) sulla strada di Palazzo Chigi, non passa giorno senza che un dirigente del Pdl lo richiami ai “patti”: sui ministri, sui sottosegretari, sull’Imu, sulla giustizia, sui presidenti di commissione. E pare che quei patti ci siano, senza errori di traduzione. Nulla di strano: quando due partiti decidono di governare insieme, è normale che prendano accordi. Gli elettori del Pdl lo sanno e, se va bene a B., buona camicia a tutti. Viceversa gli elettori del Pd non devono saperlo: questa almeno è l’illusione dei dirigenti che da vent’anni li raggirano, estorcendogli i voti in nome dell’antiberlusconismo e poi usandoli per inciuciare con Berlusconi. Ora però, nel raggiro, c’è un salto di qualità. Due mesi fa la parola d’ordine era “mai con B.”. Un mese fa era “con B. solo per il Quirinale”. Due settimane fa era “con B. solo per un governo di scopo di pochi mesi: legge elettorale e si torna a votare”. Ora è “con B. per un governo di legislatura e la riforma della Costituzione”. Nel timore che domani si passi a “con B. per un partito unico guidato da B.”, la base si sta ribellando in tutt’Italia. Il che spiega perché il Pd resta senza segretario: così i dissidenti non sanno a chi tirare i pesci in faccia.
Ma quali siano i patti stipulati da Letta e B. nel famoso incontro clandestino con lo zio Gianni, l’hanno capito tutti. Il governo Letta — come l’Italia descritta da Corrado Guzzanti nei panni di Rutelli con la voce di Sordi — “non è né di destra né di sinistra: è di Berlusconi”. Lui l’ha voluto, lui ha scelto il Premier Nipote e i ministri che contano, lui decide il programma (anche perché il Pd ne ha diversi, cioè nessuno), lui detta i tempi, lui staccherà la spina quando gli farà comodo. Intanto le questioni che gli stanno a cuore, cioè la giustizia, la tv, le autorizzazioni a procedere e le ineleggibilità sono cosa sua. Dunque il sottosegretario alle Comunicazioni è Catricalà e il presidente della relativa commissione è Matteoli. Il presidente della giunta delle immunità è La Russa. Il presidente della commissione Giustizia sarà Nitto Palma o, se non passa, Ghedini. Il presidente della giunta delle elezioni sarà un leghista. Il tutto, beninteso, coi voti determinanti del Pd. Ora B. vorrebbe anche la Convenzione (“come da accordi”, dice lui), che comunque spetta di diritto al Pdl, visto che il centrosinistra col 29% dei voti ha occupato le prime quattro cariche dello Stato. Ma il Pd si oppone, come se tra B. e qualche suo servo ci fosse qualche differenza. Ragazzi, giù le maschere e via le lingue di Menelik: l’han capito tutti che vi siete messi d’accordo con B. Dategli pure ‘sta Convenzione e non se ne parli più. Dopo la faccia, evitate almeno di perdere tempo.

Ps. Complimenti all’ex procuratore nazionale antimafia Piero Grasso. L’altroieri era ai funerali di Agnese Borsellino, ieri a quelli di Giulio Andreotti.

Maledetta primavera [che non ne vuole sapere di arrivare]

Un rapporto rivela: “L’opposizione ha salvato 5098 volte la maggioranza”

I dati vengono dall’analisi dell’associazione Openpolis. Tra i deputati della Camera, quello che ha favorito più volte il governo Berlusconi non presentandosi in aula, è il segretario del Partito democratico Pierluigi Bersani.

La cosa grottesca è che fare certe considerazioni venga considerata dietrologia. Nella politica non esistono dietrologie, perché tutte le azioni sono il frutto di altre, come in un effetto domino il caos di oggi non si può non imputare all’incapacità di altri, di scelte fatte in precedenza. E in questo periodo storico così disastroso sotto molti punti di vista in Italia, mi piace sempre ricordare che, Costituzione alla mano, non quella che ha letto d’alema [forse], berlusconi, l’artefice principale del disastro attuale ma che non sarebbe mai riuscito nell’impresa se non avesse trovato sponda nella politica in modo rigorosamente trasversale e anche nel presidente della repubblica che non gli ha negato mai una firma né la difesa [specialmente nella sua eterna partita con la Magistratura] nascondendola dietro quella per l’istituzione, non avrebbe mai potuto accedere alla carriera politica.

Questo è sempre il punto da cui partire, per non dimenticare che tutti gli orrori si possono ripetere.

 

 

Siccome sono già in tanti a farlo ho deciso che non mi unirò alla guerra totale a Grillo. 

Vedo gente che non fa praticamente nient’altro dalla mattina alla sera, ma a me non è mai piaciuto far parte di nessun esercito né club, figuriamoci di un clan, anzi più di uno che notte e giorno sono impegnati a fare ricerche, a portare in evidenza “…quella volta che Grillo ha fatto, o ha detto” come se fosse il più sensazionale degli scoop.

Le maggioranze non sono sempre affidabili: vent’anni di mussolini e diciotto di berlusconi dovrebbero avercelo insegnato molto bene.

Ma gl’italiani sono specialisti nel fare danni e poi dimenticarsene.

Capisco che ci sono persone che devono farlo per mestiere, anche se scoprire cose che nulla c’entrano con l’azione politica del MoVimento equivale a far passare un Magistrato per uno con problemi psichici solo perché indossa un paio di calzini blu, o un altro inaffidabile perché in gioventù ha avuto un flirt con un comunista e l’ha perfino baciato.
Insomma, la macchina del fango ha diversi modelli e cilindrate, c’è quella potente supportata da mezzi  altrettanto potenti – per esempio i giornali e le tv di berlusconi – ma può trasformarsi in un’utilitaria piuttosto malconcia peraltro quando a guidarla sono persone che non dovrebbero avere nessun interesse a concentrare tutte le loro attenzioni su un unico argomento, in modo quasi compulsivo, per cosa poi? per una comparsata in tivvù delle loro pagine sui social network…no, non è roba per me.

Tutti sfruttiamo il web, anche per meri motivi di narcisismo, che, finché è buono non c’è nulla di male, triste è quando si trasforma in voglia di esibizionismo.
Io, preferisco di no, preferisco spaziare, guardarmi intorno, occuparmi di tante cose ed, eventualmente anche di Grillo e dei 5s quando fanno o dicono cose su cui non si può proprio sorvolare.
Ad esempio di un Magistrato antimafia minacciato dalla mafia e verso il quale nessuna isituzione ha speso una parola di sostegno, di solidarietà, nemmeno un minimonito di Napolitano ha interrotto per un attimo la consuetudine degli argomenti tutti uguali e noiosissimi di questi giorni. 
Penso che libertà significhi anche questo, non unirsi a nessun coro, valutare quando è il caso di preoccuparsi, agitarsi e quando no, e di farlo in piena autonomia di pensiero, come ho sempre fatto, qui e fuori di qui.

La ministra che dice bugie
Marco Travaglio, 4 aprile

Qualche ingenuo si aspettava forse una parola di solidarietà del governo al pm Nino Di Matteo finito nel mirino di Cosa Nostra. Chissà, magari, se non è chiedere troppo, anche un mezzo monito di Napolitano. O un paio di monosillabi del Csm e dell’Anm. Invece niente, silenzio di tomba. Anzi, peggio. La ministra della Giustizia Paola Severino ha parlato, ma per elogiare il Pg della Cassazione Gianfranco Ciani che ha appena promosso l’azione disciplinare contro Di Matteo. L’elogio, reso noto dallo stesso Ciani dinanzi al Csm che l’ha molto applaudito, è contenuto nella risposta scritta della Guardasigilli a una vecchia interrogazione della fu-Idv sulle pressioni esercitate un anno fa da Ciani sull’allora Pna Piero Grasso, affinché intervenisse sulle indagini della Procura di Palermo sulla trattativa Stato-mafia, come gli avevano chiesto l’indagato Mancino e il presidente Napolitano. Il 19 aprile 2012 il Pg convocò Grasso in Cassazione e gli chiese di avocare le indagini oppure di “coordinarle” con quelle della Procura di Caltanissetta (che indaga su tutt’altro). Grasso, correttamente, respinse le due proposte indecenti, spiegando di non avere poteri di avocazione né di indirizzo e, quanto al coordinamento, esso era già assicurato dal Csm con un protocollo del 28 aprile 2011 sempre rispettato dalle due Procure. L’Idv chiedeva se non fosse il caso di promuovere l’azione disciplinare contro il Pg, ma la Severino ha risposto picche sperticandosi in peana a Ciani. Purtroppo, nell’empito elogiativo, è incorsa in alcune bugie davvero gravi per un ministro, per giunta della Giustizia. Forse perché si è bevuta la versione dell’alto magistrato, purtroppo contraddetta dalle carte. Ciani assicura di non aver mai chiesto a Grasso né di avocare né di indirizzare l’indagine di Palermo, limitandosi a svolgere la sua normale funzione di sorveglianza. Il che, scrive la Severino, risulterebbe “dal tenore della relazione redatta da Grasso su richiesta esplicita del Pg”. Prima bugia: fu Grasso, come ha raccontato lui stesso in varie interviste, a pretendere che il Pg gli mettesse per iscritto le sue richieste, così da potergli rispondere a sua volta nero su bianco e lasciare traccia dell’accaduto. Seconda bugia: nel verbale della riunione si legge che il Pna Grasso “precisa di non avere registrato violazioni del protocollo del 28.4.2011 tali da poter fondare un intervento di avocazione a norma dell’art. 371-bis Cpp. Il Pna rimetterà al Pg un’informativa scritta”. L’esatto contrario di quel che affermano Ciani e Severino. Del resto, se il Pg non avesse chiesto a Grasso di avocare l’indagine, perché mai Grasso avrebbe risposto di non poterla avocare? Terza bugia: Grasso ha ricostruito i fatti in un’intervista del 22 giugno 2012 alla nostra Sandra Amurri. E ha raccontato di avere respinto le richieste del Pg non solo di avocare, ma anche di indirizzare e influenzare i pm di Palermo: “Mi è stata richiesta (da Ciani, ndr) una relazione sul coordinamento tra le procure. Ho espresso la volontà che mi venisse messo per iscritto. Mi è stato fatto presente che era nei suoi poteri chiederlo verbalmente. Il 22 maggio ho risposto per iscritto specificando che nessun potere di coordinamento può consentire al Pna di dare indirizzi investigativi e ancor meno di influire sulla valutazione degli elementi di accusa acquisiti dai singoli uffici giudiziari”. Peccato che Ciani e Severino dicano l’opposto. Si spera che Grasso, divenuto nel frattempo presidente del Senato, li smentisca (non foss’altro che per non dover smentire se stesso). E soprattutto che, risolta la questione, qualcuno si decida a dire due parole su Di Matteo che rischia la pelle a Palermo proprio per quelle indagini così popolari nel Palazzo. Ma forse l’elogio del ministro al Pg che ha trascinato Di Matteo dinanzi al Csm basta e avanza a farci capire da che parte sta lo Stato: dalla solita.

Meno male che Marco c’è

Preambolo: SENTENZA STORICA Mediaset  perde contro Travaglio  

Quest’anno le vacanze a Travaglio le paga silvio: non è meraviglioso?

Sottotitolo: se a centrosinistra vinceranno le elezioni hanno detto di voler fare una legge per evitare la commistione fra la Magistratura e la politica [per quella con la mafia invece no, ci vorrà ancora un po’ di tempo: il paese non è pronto e la gggente non capirebbe].

I Magistrati, untori del terzo millennio, alla politica non si devono avvicinare né per fare il loro mestiere, ché mandare in galera i politici delinquenti non è bello e non si fa per le ragioni di cui sopra frapparentesi, e nemmeno per occuparsene da cittadinanza attiva come società civile.
Gli avvocati, gli imprenditori, i banchieri, gli stessi magistrati che già c’erano, Nitto Palma e tutta la lista che cita stamattina Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano che sono entrati in parlamento hanno forse dato le dimissioni? c’è gente che svolge dieci professioni, tutte regolarmente strapagate, e non si sogna minimamente di lasciare quello che faceva per andare a fare il sottosegretario, il ministro, il presidente del consiglio.

Ingroia però sì, si deve dimettere perché sennò non è credibile.

Un uomo onesto e perbene  che dice di voler fare politica per un paio d’anni deve essere messo in condizioni di scegliere, cosa che non è stata pretesa per NESSUNO.

Nel paese che galleggia nel conflitto di interessi fa paura un Magistrato che decide di voler andare a vedere coi suoi occhi quello che succede nella stanza dei bottoni.
La politica ha una grande responsabilità non avendo fatto quelle leggi per tutelare il paese ed evitare che gente che faceva un altro mestiere fosse in qualche modo costretta a doversi occupare della politica.
Con una legge sul conflitto di interessi non saremmo mai arrivati fino a qui.
Per non parlare dell’idiozia che per cacciare dal parlamento i delinquenti si debba aspettare una sentenza e che, addirittura, vengano rimandati i processi che riguardano berlusconi per non disturbargli la campagna elettorale.
Queste cose le diceva anche Borsellino ma chissà perché quando si evocano Falcone e Borsellino lo si fa sempre per tutt’altre argomentazioni.
Non è colpa di Ingroia se fare il magistrato antimafia in Italia significa doversi poi occupare inevitabilmente anche di politica visto che entrambe sembrano non poter fare a meno l’una dell’altra.

Dico da sempre che in un paese normale ognuno farebbe il suo mestiere, ma se la politica non è in grado di badare a se stessa e pretende che dei politici disonesti, collusi e conniventi con la mafia non se ne occupi la Magistratura quando è il caso – cioè quasi sempre, basta pensare alla vicenda Ilva –  mi sembra altrettanto inevitabile che qualcuno, estraneo alla politica,  un bel giorno decida di  rimboccarsi le maniche per dare il suo contributo e cercare  di porre rimedio ad una situazione/condizione diventata insostenibile.La politica non deve più essere una sorta di privilegio riservato alla solita élite dei soliti noti, dei loro amici, parenti e conoscenti: prima lo capiamo tutti meglio è.

Ingroia ha già detto che non tornerà a fare il Magistrato in Sicilia,  e non si capisce perché  chi  oggi pretende tutto da Grillo e da Ingroia non lo abbia fatto anche coi politici di professione dai quali, invece, ha accettato il tutto e l’oltre. 

Che paese timoroso è diventato l’Italia, è bastato un Renzi per mandarlo in confusione…

Boccassini vs Ingroia, sarà colpa della politica?

 
Leggo che anche Daria Bignardi e quell’eminenza giornalistica di Beppe Severgnini hanno cazzeggiato su Ingroia ieri sera alle Invasioni barbariche su la7.
Quindi dopo Sallusti, Santanché, D’Alema, Boccassini, Casini, Romano [ideatore lista Monti], Berlusconi, Granata, Carfagna, Finocchiaro,  varie testate giornalistiche considerate financo di sinistra perché sostengono il piddì  chi sarà il prossimo o la prossima? staremo a vedere, l’elenco è in aggiornamento.
Meno male che Travaglio c’è: il suo fondo di oggi è un vero faro nella nebbia.
E mi rasserena il fatto che molti dei concetti che ha espresso sono gli stessi che scrivo anch’io da ieri un po’ ovunque.
Idealizzazioni a parte, che non mi riguardano, io non sono una fan del giornalista come chi lo considera una specie di rock star, penso che sia un professionista molto al di sopra della media di quel che passa il convento Italia e che meriti non dico la stima, quella è una questione personale di ognuno, ma il rispetto sì, quindi sono molto più felice di essere in sintonia con lui che con i tanti detrattori che stanno spalmando fango e altro materiale organico e meno nobile da ieri sulla persona di Antonio Ingroia.
Fra questi ci sono anche giornalisti e professionisti che dovrebbero scrivere e parlare per smorzare una polemica inutilmente assurda ma ai quali invece piace tanto buttare altra benzina sul fuoco.
E non credo che lo stiano facendo per mero piacere personale.

Falconi e avvoltoi – Marco Travaglio, 31 gennaio

Conosco Antonio Ingroia da 15 anni e non l’ho mai sentito paragonarsi a Falcone o a Borsellino. Semplicemente gli ho sentito ricordare due dati storici: nel 1988, neomagistrato, fu “uditore” di Falcone; poi nell’89 andò a lavorare alla Procura di Marsala guidata da Borsellino, di cui fu uno degli allievi prediletti. Nemmeno l’altro giorno Ingroia s’è paragonato a Falcone. S’è limitato a ricordare un altro fatto storico: appena Falcone si avvicinò alla politica (e di parecchio), andando a lavorare al ministero della Giustizia retto da Martelli nel governo Andreotti, fu bersagliato da feroci attacchi, anche da parte di colleghi, molto simili a quelli che hanno investito l’Ingroia politico. Dunque non si comprende (se non con l’emozione di un lutto mai rimarginato per la scomparsa di una persona molto cara) l’uscita di Ilda Boccassini che intima addirittura a Ingroia di “vergognarsi” perché avrebbe “paragonato la sua piccola figura di magistrato a quella di Falcone” distante da lui “milioni di anni luce”. Siccome Ingroia non s’è mai paragonato a Falcone, la Boccassini dovrebbe scusarsi con lui per gl’insulti che, oltre a interferire pesantemente nella campagna elettorale, si fondano su un dato falso. Ciascuno è libero di ritenere un magistrato migliore o peggiore di un altro, ma non di raccontare bugie. Specie se indossa la toga. E soprattutto se si rivolge a uno dei tre o quattro magistrati che in questi 20 anni più si sono battuti per scoprire chi uccise Falcone e Borsellino. Roberto Saviano tiene a ricordare che “Falcone non fece mai politica”: ma neppure questo è vero. Roberto è troppo giovane per sapere ciò che, in un’intervista per MicroMega , Maria Falcone mi confermò qualche anno fa: nel ’91 suo fratello decise di usare il dissidio fra Craxi e Martelli per imprimere una svolta alla lotta alla mafia dall’interno del governo Andreotti, pur sapendo benissimo di quale sistema facevano o avevano fatto parte quei politici. Difficile immaginare una scelta più politica di quella. Ora però sarebbe il caso che tutti — politici, magistrati e giornalisti — siglassero una moratoria su Falcone e Borsellino, per evitare di tirarli ancora in ballo in campagna elettorale. Tutti, però: non solo qualcuno. Anche chi, l’estate scorsa, usò i due giudici morti per contrapporli ai vivi: cioè a Ingroia e Di Matteo, rei di avere partecipato alla festa del Fatto , mentre “Falcone e Borsellino parlavano solo con le sentenze”. Plateale menzogna, visto che entrambi furono protagonisti di centinaia di dibattiti pubblici, feste del Msi e dell’Unità, programmi tv, libri, articoli. Queste assurde polemiche dividono e disorientano il fronte della legalità, regalando munizioni a chi non chiede di meglio per sporchi interessi di bottega. Ma vien da domandarsi perché né la Boccassini né la Falcone aprirono bocca due anni fa, quando Alfano, ministro della Giustizia di Berlusconi, si appropriò di Falcone per attribuirgli financo la paternità della controriforma della giustizia. Né mai fiatarono ogni volta che politici collusi o ignavi sfilarono in passerella a Palermo negli anniversari delle stragi, salvo poi tradire la memoria dei due martiri trattando con la mafia, o tacendo sulle trattative, o depistando le indagini sulle trattative. Chissà poi dov’erano le alte e basse toghe che ora si stracciano le vesti per la candidatura di Ingroia quando entrarono in politica Violante, Ayala, Casson, Maritati, Mantovano, Nitto Palma, Cirami, Carrara, Finocchiaro, Carofiglio, Della Monica, Tenaglia, Ferranti, Caliendo, Centaro, Papa, Lo Moro, su su fino a Scalfaro. E dove spariscono quando si tratta di dedicare a Grasso le critiche riservate a Ingroia. Se poi Ingroia deve espiare la colpa di aver indagato su mafia e politica, di aver fatto condannare Contrada, Dell’Utri, Inzerillo, Gorgone e di aver mandato alla sbarra chi trattò con i boss che avevano appena assassinato Falcone e Borsellino, lo dicano.

Così almeno è tutto più chiaro.

Liste pulite, ma solo un po’

Sottotitolo: MANNINO VS INGROIA: “LEI È UN MASCALZONE”

Mannino ebbe già occasione di dire che Ingroia non è affidabile perché in ufficio ha la foto del Che anziché quella del presidente della repubblica [grande Antonio, io il quadro del Che ce l’ho al posto della Madonna a capo a letto!]. Ieri sera a Servizio Pubblico  ha alzato il tiro dicendo che Ingroia è un mascalzone.

In questo paese l’unico Magistrato buono è quello morto, quello che non parla più e non può nemmeno dire che gli fa schifo quando ad ogni anniversario e commemorazione ci sono le consuete processioni delle cosiddette istituzioni che fanno finta di dispiacersi mentre in realtà non gliene fotte niente dell’antimafia, altrimenti tratterebbero meglio quei Magistrati quando sono vivi, sarebbero al loro fianco, non invece vicini a chi pensa che ci siano cose da non dire, che non è carino far sapere, non si limiterebbero a cianciare che la mafia va combattuta ma farebbero di tutto per eliminarla.

“I capi di governo ‘cessati dalle funzioni’ hanno diritto a conservare la scorta su tutto il territorio nazionale nel massimo dispiegamento.”

Se proteggere un condannato a quattro anni di carcere  costa agli italiani 7000 euro al giorno, cosa fa lo stato italiano per le persone oneste, la solita beata minchia?

Con 7000 euro al giorno quanti malati si possono curare? E quanti bambini – di quelli che solerti sindaci lasciano a digiuno perché i loro genitori non possono pagare la mensa scolastica  si possono sfamare? Ma certo, chissá dov’era l’opposizione mentre in parlamento si confezionava  l’ennesima legge ad personam,  forse all’ ikea con la scorta?

Preambolo: mi fa sinceramente ridere leggere un po’ ovunque il terrore per il ritorno dello zombie.
Tutti a preoccuparsi di lui e non delle condizioni che gli sono state offerte un po’ da tutti, da chi lo ha legittimato, da chi lo considera ancora oggi l’interlocutore con cui confrontarsi e che lo hanno fatto arrivare fino a qui, ad oggi.
E pensare che in un paese normale non ci sarebbe stata nemmeno una prima volta per lui, figuriamoci una quinta.
Nei paesi dove non servono leggi per stabilire chi è adeguato o meno – per onestà – al ruolo politico e nei paesi dove se la legge dice che il proprietario di mezzi di comunicazione non può fare politica, quel proprietario non fa politica, e se la vuol fare deve rinunciare alle sue proprietà senza nemmeno l’apposita legge per regolare i conflitti di interesse [per informazioni citofonare Bloomberg].

LISTE PULITE, OK A DECRETO: ORA CHI VIENE CONDANNATO DECADE DALL’INCARICO

Fuori lista i condannati a oltre 2 anni
Quasi tutti salvi. Anche Dell’Utri

Liste pulite, ma solo un po’.

Una legge che non ce la fa, che è stata pensata per non  estromettere dell’utri dal parlamento, un condannato per mafia che si può ancora fregiare del titolo di senatore,  è una legge che non serve a niente.

Incandidabilità sopra ai due anni, ci va di lusso.

Si salverebbe solo un’eventuale candidatura di sallusti;  una cosa ridicola,  assurdo stabilire per legge che chi ha violato la legge non può far parte di chi poi è chiamato a fare le leggi.
Prendiamo appunto – ad esempio –  il caso di sallusti, un recidivo condannato ad una non pena ridicola per aver diffamato e per aver permesso che si diffamasse per conto suo e quello di chi gli paga lo stipendio.
Sarebbe così giusto che in un ipotetico futuro gli venisse concessa l’opportunità di diventare parlamentare? per me no.
Per me ci sono tanti mestieri e professioni che si possono fare o continuare a fare una volta reinseriti nella società, la politica però no: quella va lasciata a chi ha ben chiaro in mente il confine fra onestà e disonestà, non c’è una misura, non serve pensare che la diffamazione in fin dei conti non è un omicidio.

Questa legge ci dice che una brava persona in Italia, una che può andare in parlamento a fare le leggi per tutti, è anche chi ha avuto una condanna a due anni di carcere,  una a cui verrebbe impedito di partecipare ad un concorso pubblico ma che può invece candidarsi per andare a gestire la cosa pubblica, al pari di chi una condanna non l’ha avuta.  
In Germania, Svezia, Inghilterra, Stati Uniti ministri e presidenti si dimettono per questioni che confrontate ai reati odiosi di cui si macchiano i nostri politici anche prima delle “discese in campo” che spesso è l’extrema ratio per non finire in galera [per informazioni citofonare silvio]  sono veniali marachelle  e qui ci dobbiamo porre il problema di fare addirittura  una legge ridicola, offensiva per le persone oneste, che non c’è da nessun’altra parte del mondo civile e che non impedisce affatto  la candidatura  ma si limita ad attenuare l’entità del reato commesso – pregiudicati sì ma solo un po’ – sia o meno necessaria e  opportuna.
Se sia opportuno o meno che un condannato, uno con precedenti penali  possa o no entrare in parlamento a legiferare per chi condannato non è.
Un delirio, come al solito, tutto e solo italiano.  

Come facciamo poi a stare nelle classifiche internazionali al pari di paesi che almeno non hanno l’ardire di definirsi repubblica democratica? negli altri paesi – quelli normali – nemmeno si pone il problema del “se”, è subito NO, senza bisogno di una legge.

E’ vero che ci sono condanne e condanne, ma l’Italia non è nelle condizioni di poter decidere se una condanna è meno peggio di un’altra. Non ce lo possiamo permettere ‘sto lusso, dopo quello che è stato concesso fino ad ora. E finché non ci metteranno in condizione di scegliere chi mandare a rappresentarci in parlamento ci vogliono le porte sbarrate per i lusi, i fiorito, per chi ruba, per chi corrompe, per chi ha vicinanze strette con le mafie, altro che accuse di  “forcaiolismo”.
Nei paesi normali, civili e seri una legge così non c’è, nell’Italia asilo Mariuccia sì.

Bisogna specificare – PER LEGGE – non che per fare politica si debba essere onesti e basta, incensurati e basta, avere la fedina penale pulita e basta ma che per fare politica la  modica quantità di delinquenza non è un legittimo impedimento.
Essere incensurati è una nota di demerito per fare politica in Italia, diventa istituzionalmente  qualcosa di eticamente scorretto.

Non spetta di omettere 
Marco Travaglio, 7 dicembre

Da quando la Consulta ha stabilito che “non spetta alla Procura di Palermo di valutare” le intercettazioni Mancino-Napolitano né “di omettere di chiederne l’immediata distruzione”, nelle Procure e nelle polizie giudiziarie di tutt’Italia regna il terrore: oddio, e se intercettiamo un rapinatore, pedofilo, narcotrafficante, assassino che chiama il Presidente, che si fa? Breve prontuario delle cose da non omettere di fare, o da omettere di non fare. 

1.Tizio chiama il Presidente per dirgli che i pm lo perseguitano e chiedergli di fermarli. Siccome c’è il rischio che il Presidente gli dia retta e si attivi per far insabbiare o avocare l’inchiesta, e che di ciò resti traccia in successive telefonate intercettate, non spetta all’intercettatore omettere di interrompere subito la registrazione e di ingoiare i nastri già registrati.

2.Tizio chiama il Presidente per confidargli di aver rapinato una banca. Siccome è una notizia e una prova di reato, c’è il rischio che un giudice la ritenga interessante per processare Tizio e condannarlo per rapina e il Presidente per omessa denuncia e favoreggiamento, rammentare l’art. 271 del Codice di procedura che impone l’immediata distruzione delle intercettazioni che svelano colloqui fra medico e paziente, confessore e penitente, avvocato e cliente in barba al segreto professionale. All’ovvia obiezione che l’art. 271 non fa alcun cenno al Presidente, non omettere di sostenere che è chiaro dal tenore della conversazione che il Presidente è un medico che sta curando Tizio, anzi un prete che sta confessando Tizio, anzi un avvocato che sta difendendo Tizio. Si potrebbe anche non omettere di sostenere che il Presidente, o anche Tizio, è il nipote di Mubarak, ma la giustificazione difetterebbe di originalità.

3.Tizio chiama il Presidente e gli rivela: “Lo sa che mia moglie l’ho ammazzata io, ma stanno processando un innocente al posto mio?”. Siccome è una prova a discarico di un imputato che sta per essere condannato ingiustamente, c’è il rischio che il giudice che processa l’innocente sia tentato di usare la telefonata per scagionare l’imputato e imputare il marito al suo posto. Dunque non spetta all’intercettatore omettere di gettare nella stufa la bobina, altrimenti il Presidente s’incazza e la Consulta pure.

4.Tizio chiama il Presidente per due chiacchiere e il Presidente gli confessa che sta preparando un colpo di Stato, invitandolo a dargli una mano. Siccome anche questa è una notizia di reato, l’attentato alla Costituzione, cioè uno dei due reati per cui il Presidente è imputabile nell’esercizio delle sue funzioni (l’altro è l’alto tradimento), c’è il rischio che il giudice sia tentato di usare il nastro per chiedere al Parlamento di metterlo in stato d’accusa. Dunque non spetta all’intercettatore valutare l’intercettazione e di omettere di chiederne l’immediata distruzione. Perchè è vero che la Costituzione prevede la messa in stato d’accusa del Presidente per alto tradimento e attentato alla Costituzione, ma basta distruggere le prove e nessun Presidente verrà mai messo in stato d’accusa per alto tradimento e attentato alla Costituzione.

5.Tizio chiama il Presidente, i due si dicono una a caso delle cose sopra citate, l’intercettatore non omette di distruggere il relativo nastro, ma resta un problema irrisolto: oltre a Tizio e al Presidente, che non riveleranno mai quello che si son detti, c’è un terzo soggetto a conoscenza della conversazione: l’intercettatore. Il quale, sebbene assicuri che non spetta a lui omettere di non dire nulla a nessuno, anzi che ha perso la memoria, anzi non ricorda nemmeno le sue generalità, potrebbe sempre omettere di non parlarne con qualcuno.

A questo punto è pronto un killer di Stato, al quale non spetta di omettere di sciogliere l’intercettatore nell’acido.

Capaci di tutto

Sottotitolo: I politici su cui gravano accuse di vicinanze strette, collusioni e connivenze con mafia e criminalità devono dimettersi, tornare ad essere cittadini comuni e aspettare che la giustizia faccia il suo corso.
Il parlamento non è la succursale delle patrie galere, la suite dove trascorrere serviti e riveriti, con la pretesa di essere pure rispettati in virtù del ruolo il decorso di un processo.
Pensare di potersi continuare a nascondere dietro l’immunità, proteggersi con leggi e leggine fatte in fretta e furia per fare in modo di difendersi non NEI processi ma DAI processi e aspettare, da parlamentari regolarmente stipendiati dai contribuenti i tre gradi di giudizio che potrebbero significare quindici, vent’anni durante i quali scatta quasi sempre l’opportuna prescrizione è disonestà fraudolenta.
Un’ammissione di colpevolezza.
Solo così è possibile evitare quella che molti definiscono ‘guerra’ fra poteri, conflitto fra Magistratura e politica ma che in realtà non è niente di tutto questo.

La vera riforma della Giustizia non consiste nel processo breve o morto [nel senso che non si farà mai] che interessa berlusconi, nell’allungamento e nell’accorciamento dei tempi di prescrizione a seconda delle sue esigenze, che anzi dovrebbe essere proprio abolita affinché un processo che inizia possa anche finire con una regolare sentenza, ma significa fare in modo di  non dover aspettare anche  venti, venticinque anni per la conclusione dei processi.

 “La politica antimafia siciliana è stata soprattutto una politica di contenimento della mafia. Anzi, è stata una politica di salvaguardia della classe dirigente, che ha paura di finire come Lima. Così, spaventata, la classe dirigente delega, e manda avanti Falcone e Borsellino. Che però diventano più pericolosi dei mafiosi, per loro. Ecco perché non sono arrivati fino in fondo”.

“Il rapporto tra mafia e Stato non è mai stato una guerra tra guardia e ladri: è una mafia che ha avuto dei rapporti permanenti con la classe dirigente e in questa ricontrattazione ogni tanto la mafia batte i pugni sul tavolo e quando succede lo fa a colpi di bombe”.

[Antonio Ingroia]

‎”Bisogna trarre le dovute conseguenze dalle vicinanze tra politici e mafiosi, che non costituiscono reato, ma li rendevano inaffidabili nella gestione della cosa pubblica. Questo giudizio non è mai stato tratto perché ci si è nascosti dietro lo schermo della sentenza. Il solito giustizialista grillino? No, Paolo Borsellino.

Il 19 luglio, i politici rimangano a casa a meditare”.

[Marco Travaglio]

“Vent ‘anni fa non ci lasciammo intimidire”.

[Giorgio Napolitano]

Spiacente, caro presidente, perché a noi quaggiù risulta altro. Ci risulta che lo stato si fece intimidire eccome, invece, e che è stato fatto parecchio per rendere la vita facile a chi con la mafia, le mafie ha avuto molto a che fare.
Non si può stare “umanamente” vicini ai mafiosi (come casini per esempio) e “fisicamente” dentro il parlamento (come casini, per esempio).
E come ho scritto ricordando Falcone se il ricordo non viene accompagnato con le azioni non serve a niente, è stato perfettamente inutile riempirsi la bocca ogni anno da vent’anni ricordando gli Eroi mentre nel frattempo nulla si faceva per non rendere vane quelle morti, semmai ci possa essere una qualche utilità nella morte orribile di uomini e donne perbene.
E proprio lei, presidente Napolitano, ha nominato ministri Saverio Romano accusato di concorso esterno in associazione mafiosa e Aldo Brancher che era stato appena condannato a due anni per ricettazione e appropriazione indebita. E non ha mai rimesso la penna nel taschino, neanche di fronte a leggi che definire oscene e antidemocratiche è dire poco e che poi la Corte ha dovuto respingere perché manifestamente incostituzionali.
Nicola Cosentino è stato salvato dalla galera grazie al voto compatto di chi davanti agli altari dice di voler combattere le mafie ma poi per mandare in galera un delinquente ci vuole un parlamento “libero di coscienza” che decida se un mafioso, un camorrista, ci deve andare o no.
Questo è potuto accadere perché lo stato, quello che non si lascia intimidire, non è mai stato in grado di opporsi con fermezza alle richieste dell’impostore della politica. E, nel frattempo che il delinquente abusivo, l’amico dei mafiosi  faceva scempio di leggi e regole democratiche pro domo sua e dei suoi amici di merende e bunga bunga qualcuno voleva convincerci, e lo fa ancora, che l’unico modo per sconfiggere il malaffare nella politica è il voto democratico, ma ci hanno impedito pure quello grazie a una legge che ha ridotto la politica ad un affare privato fra segreterie di partito e amici, parenti e conoscenti.
Le cosiddette regole democratiche che permettono a dei condannati anche con sentenza passata in giudicato di restare in parlamento le hanno confezionate su misura i molto onorevoli parlamentari.
Forse perché si conoscono molto bene fra loro?
In nessuna democrazia infatti sarebbe stato consentito a una persona con svariati capi di imputazione pesantissimi di diventare presidente del consiglio perché l’altra opzione per lui sarebbe stata San Vittore.
E, a cascata, non sarebbero mai dovute accadere anche un mucchio di altre porcherie fra cui “ruby è la nipote di mubarak”: il primo caso di alto tradimento da parte dello stato e archiviato come una burletta su cui farci anche delle battute di spirito; i 314 traditori dello stato sono ancora tutti in parlamento.
Ed è troppo facile oggi, per calmare le acque e tentare di arginare il malcontento che, unito alla crisi può trasformarsi davvero in un mix micidiale, ventilare ipotesi di nuovi terrorismi, instillare nuove paure ma poi all’atto pratico non fare nulla per mettere al riparo e al sicuro  lo stato da nuove “tentazioni eversive”.
Perché a nessuno piace farsi intimidire: neanche a noi.

Chi portò Cuffaro in Parlamento? Casini, che disse, dopo la condanna, “rispettiamo la sentenza, ma non rinneghiamo l’amicizia”.

Marco Travaglio prova a delineare il perimetro d’azione dei mafiosi nelle loro relazioni parlamentari. Passando dal leader Udc a Berlusconi, fino ad arrivare all’immancabile Giulio Andreotti.

E intanto Alfano parla del Partito dell’onestà.

Schifani a Rosy Mauro: “te ne devi andare, ne va del decoro del senato”.
Ecco: questo decoro del senato spiegato da Schifani, Rosy Mauro   non lo capisce.
(Marco Travaglio)

Capaci di tutto
 Marco Travaglio, 25 maggio

Tre anni fa, alla notizia delle indagini di Palermo, Caltanissetta e Milano sulla trattativa Stato-mafia e sui mandanti occulti delle stragi del 1992-’93, l’allora premier S.B. strillò terrorizzato: “So che ci sono fermenti nelle Procure di Palermo e Milano che ricominciano a guardare a fatti del ’92, ’93 e ’94. È follia pura e quel che mi fa male è che facciano queste cose coi soldi di tutti, cospirando contro di noi che lavoriamo per il bene del Paese”. La prima gallina che canta è quella che ha fatto l’uovo. Ora, per fortuna, nel ventennale di Capaci e via d’Amelio, c’è un altro premier, Monti, che dice esattamente l’opposto: “Non esiste nessuna ragion di Stato che possa giustificare ritardi nella ricerca della verità: i pezzi mancanti vanno cercati fino in fondo”. Dunque, se le parole hanno un senso, il governo non aggredirà i pm quando depositeranno gli esiti delle loro indagini sulle responsabilità istituzionali nelle trattative che, anziché fermare le stragi, le moltiplicarono e incoraggiarono. Vedremo se i partiti che sostengono il governo faranno altrettanto, o replicheranno gli ennesimi attacchi e insulti ai magistrati antimafia (quelli vivi che, a differenza di quelli morti, non vanno mai bene a nessuno). L’altro giorno a Palermo c’era anche il presidente Napolitano che, insieme a parole di circostanza e di buonsenso sul rischio di un nuovo stragismo a partire da Brindisi, ha dichiarato: “Non ci facemmo intimidire vent’anni fa, tantomeno cederemo ora”. Eh no, presidente: se il livello di intransigenza che ha in mente lo Stato è lo stesso del 1992-’93, stiamo freschi. Non è affatto vero che “non ci facemmo intimidire vent’anni fa”: i politici e le istituzioni si fecero intimidire eccome. Com’è ormai noto a chiunque non abbia gli occhi foderati di prosciutto, dopo la sentenza della Cassazione (30 gennaio 1992) che confermò le condanne ai boss nel maxiprocesso, Riina decise di vendicarsi coi politici che non avevano mantenuto l’impegno di farli assolvere o comunque avevano tradito le aspettative. E stilò una lista nera, che comprendeva Lima, Andreotti, Mannino, Martelli, Vizzini, Andò e Purpura. Lima fu ammazzato il 12 marzo. Il 16 il capo della Polizia Parisi avvertì riservatamente della minaccia i politici in lista. Quel che accadde subito dopo non è dato sapere, ma immaginare sì. Sta di fatto che Riina risparmiò i politici, cestinò la lista e virò su Falcone (alla vigilia della prevista elezione al Quirinale di Andreotti, che si fece da parte). Facile ipotizzare che la trattativa sia partita prima di Capaci per risparmiare i politici dalla mattanza. Sicuro che entrò nel vivo subito dopo, con le prime avances dei vertici del Ros con Vito Ciancimino, trait d’union con Riina e Provenzano. Martelli lo seppe e fece avvertire Borsellino, che si oppose a ogni cedimento e fu tolto di mezzo. Sempre per salvare i politici. Molti fra questi si lasciarono intimidire e ancor oggi balbettano, si contraddicono, mentono e tremano. Pochi altri, Martelli e Scotti, tennero duro. Ma Scotti, al cambio di governo in giugno, fu impallinato dalla Dc e rimpiazzato con Mancino. Intanto Riina consegnava il papello con le richieste allo Stato per metter fine alle stragi. Nel dicembre ’92 Ciancimino fu arrestato e uscì di scena.
Nel gennaio ’93 fu arrestato anche Riina, forse consegnato da Provenzano, che inaugurò la linea del dialogo, mentre Bagarella e i Graviano preparavano nuove stragi per lubrificarlo. E lo Stato si calò le brache. A febbraio saltò anche Martelli, indagato a Milano. E il neo-guardasigilli Conso, mentre nuove stragi insanguinavano Roma, Firenze e Milano, tolse il 41-bis a ben 480 mafiosi in pochi mesi, come da papello. Le stragi s’interruppero, mentre i nuovi referenti politici della mafia marciavano su Roma, pronti a esaudire il resto del papello.

I colpevoli della vergognosa resa dello Stato a Cosa Nostra saranno presto, si spera, alla sbarra.

Combattenti antimafia

Sottotitolo: Falcone? Un comico, un guitto, che può gareggiare coi comici del sabato sera. Uno che sciorina sentenze in tivù ma fa parte del carrozzone televisivo.
[Sandro Viola, Repubblica, 9 gennaio 1992]
Lo stesso quotidiano oggi mette in edicola un commosso tributo in DVD al prezzo di 12,90 Euro.

Sandro Viola, autore dell’articolo, non è mai stato rimosso dal suo incarico di editorialista di Repubblica. Ad essere rimosso, invece, incredibile coincidenza, è l’articolo. Se cercate sul sito de la Repubblica potete facilmente notare che è recuperabile ogni articolo tranne quello del 9 gennaio. Fortunatamente ci pensa il Popolo della Rete e se su google inserite le parole “Falcone 9 gennaio 1992 la Repubblica” troverete facilmente che molti siti e associazioni contro la mafia, riportano quell’articolo.
(Grazie ad Aldo Vincent)

Monti: “Verità è unica ragione di

Stato”

Vent’anni fa la strage di Capaci. Da tempo dicevano di Falcone che fosse un “morto che cammina”. Aveva portato un vento nuovo dopo gli assassini di Terranova, Costa e Chinnici. Istruì il più grande processo alla mafia che si ricordi. Obbligò il mondo a decidere da che parte stare. Poi arrivarono i morti e le stragi (leggi l’articolo di Nando Dalla Chiesa). Oggi come allora, le inchieste sulla mafia sono una questione di metodo. Il metodo di Falcone, l’idea del famoso “pool”, invenzione che attinge direttamente dalla lotta alle Br (leggi l’articolo di Marco Travaglio).

Oggi Palermo ricorda Falcone e il suo sacrificio. E il premier pronuncia parole che, nel pieno delle indagini sulla trattativa tra Stato e mafia, sembrano non essere casuali: “Non c’è ragione di Stato che possa impedire la ricerca della verità”.

Oggi Google lo avremmo preferito così. Visto che i solerti e solitamente fantasiosi e creativi grafici del motore di ricerca non ci hanno pensato, ce lo siamo fatto da soli.

                                     Vogliono combattere la mafia, le mafie,  e non riescono a mettersi d’accordo su una fottutissima legge anticorruzione; una legge che esiste e viene fatta rispettare in ogni democrazia degna di questo nome. E che fra l’altro l’Europa ci sta chiedendo da oltre dieci anni: è stato più facile ridurre i tre quarti degli italiani sul lastrico in due settimane  che fare una legge civile e necessaria, nel paese più corrotto del mondo, evidentemente.

I combattenti antimafia sono quelli che poi quando devono decidere se un mafioso prestato alla politica deve andare in carcere votano compattamente per il no. Quelli che commemorano Falcone, Borsellino e tutti i morti di stato ma salvano Cosentino.
Quelli che parlano di berlusconi e andreotti definendoli statisti. Quelli che festeggiano le prescrizioni come fossero assoluzioni, solo in questo paese è possibile essere mafiosi da un certo periodo a un altro, né un attimo prima né uno dopo.
Sono anni che lo dico: quando fra due secoli o tre  qualcuno tornerà per sbaglio a leggere la storia di questa Italia sciagurata non  so che penserà, se si chiederà come è stato possibile che certe cose siano esistite davvero, che siano accadute sul serio.

Dalla maggioranza della gente di questo paese so di non potermi aspettare niente.

Gente che si è fatta infatuare dalle chiacchiere di un venditore di pelli di serpente disonesto e cialtrone non la vorrei nemmeno per vicina di casa.
Dalla politica però sì, mi sarei aspettata anche dei gesti simbolici che avessero messo un punto fermo su una prescrizione per mafia, sulle condanne, per mafia, dell’utri è ancora senatore, andreotti è senatore a vita, berlusconi è ancora cavaliere.
Per dire.
O ci mettiamo in testa tutti quanti che la politica deve essere migliore dei cittadini che governa o non ne usciamo.

A me questo fatto che ce li meritiamo, che rispecchiano il paese non va giù, perché anche se ci fossero dieci, cento mille cittadini migliori di certi politici – ma sono molti di più –  hanno il diritto di non essere paragonati e accomunati a gentaglia che sta in parlamento non si sa bene per quali meriti.

Ed ecco spiegato tutto il veleno per il movimento dei cinque stelle, perché queste persone stanno entrando in parlamento senza chiedere permesso.
Un ‘permesso’ per fare politica che spesso si traduce in tutto quello che sappiamo, e anche, anzi soprattutto e specialmente in certe zone,  nelle collusioni e connivenze con le mafie.

L’esercizio del male non necessita di gente dotata di particolari qualità: durante il nazismo ad esempio bastarono dei semplici burocrati, funzionari, medici di famiglia, come fu per la strage di Ausmerzen, che si resero complici dello sterminio dei disabili nell’indifferenza pressoché totale della gente.
Gli esecutori del male sono e sono stati dunque sempre persone normali, insospettabili, con buona pace della teoria lombrosiana che li voleva brutti, storti e fatti male.
L’olocausto è stato un orrore dell’uomo moderno che è potuto accadere anche grazie all’indifferenza, alla noncuranza, all’individualismo e all’egoismo.
Allo stesso modo la mafia è potuta proliferare soprattutto grazie all’indifferenza, alla noncuranza, all’individualismo e all’egoismo.
Se Falcone,  Borsellino, e tutti gli altri morti di mafia fossero stati meno soli, appoggiati, sostenuti, PROTETTI da chi aveva il dovere di farlo forse oggi parleremmo di un 23 maggio che sembra novembre e non avremmo nulla da ricordare e commemorare.

Vent’anni, e sembra ieri. Anzi, oggi.

 Sottotitolo: La mafia, lo ripeto ancora una volta, non è un cancro proliferato per caso su un tessuto sano. Vive in perfetta simbiosi con la miriade di protettori, complici, informatori, debitori di ogni tipo, grandi e piccoli maestri cantori, gente intimidita o ricattata che appartiene a tutti gli strati della società. Questo è il terreno di coltura di cosa nostra con tutto quello che comporta di implicazioni dirette o indirette, consapevoli o no, volontarie o obbligate, che spesso godono del consenso della popolazione.
[Giovanni Falcone]

Non c’è stato uomo in Italia che ha accumulato nella sua vita più sconfitte di Falcone: bocciato come consigliere istruttore, bocciato come procuratore di Palermo, bocciato come candidato al CSM e sarebbe stato bocciato anche come procuratore nazionale antimafia se non fosse stato ucciso. Eppure ogni anno si celebra l’esistenza di Giovanni come fosse stata premiata da pubblici riconoscimenti o apprezzata nella sua eccellenza. Un altro paradosso.

Non c’è stato uomo la cui fiducia e amicizia è stata tradita con più determinazione e malignità.
[Ilda Boccassini]

Se il ricordo non viene accompagnato con l’azione, quel ricordo non serve a niente. Il fratello di Francesca Morvillo dice che le cose non sono cambiate poi tanto, rispetto a vent’anni fa, e io sono d’accordo con lui. Mi permetto di aggiungere solo che secondo me, sono perfino peggiorate. In questi vent’anni trascorsi dalle stragi di Capaci e via D’Amelio è stato permesso ad un uomo solo, ad un delinquente amico della mafia supportato dai suoi servi idioti e criminali di fare carta straccia di regole, leggi, della Costituzione, di insultare i guardiani della Legge e della legalità praticamente tutti i giorni: “pazzi, antropologicamente diversi dalla razza umana, se fossero persone normali farebbero un altro mestiere, cancro, metastasi”. Insulti pesantissimi per i quali stranamente non si è levato nessun “conato di monito” di un presidente della repubblica che, al contrario in più di qualche occasione ha bacchettato giudici e magistrati accusandoli di protagonismo.
E, mentre succedeva tutto questo sono state confezionate leggi a protezione di delinquenti, corruttori e mafiosi che sono state l’ennesimo schiaffo all’onestà e ai cadaveri di tutti coloro che hanno pagato con la vita il loro tentativo di opporsi alla logica mafiosa.
La cosa che più di tutte faceva male a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino era che lo  stato, le istituzioni che avrebbero dovuto proteggerli  e tutelare il loro operato li avessero invece abbandonati.
Oggi accade ancora, succede che Antonio Ingroia che la mafia la combatte con la stessa energia di Falcone e Borsellino venga invece considerato uno “sbagliato”  che fa politica solo perché si è permesso di dire che è un Partigiano della Costituzione: di questi tempi praticamente un eversore, dunque uno che va abbandonato al suo destino e alle sue utopie.
Come scrivevo qualche post più sotto la storia di questi ultimi anni ci ha insegnato che è stato definito eversore chi vuole uno stato serio, un governo senza la presenza di politici corrotti, imputati, condannati, un’impresa ripulita da dirigenti disonesti, delinquenti che fanno affari con le mafie e con la politica disonesta.
E’ stata una parola pronunciata spesso anche nei confronti di giornalisti che denunciano i crimini dei quali certa politica e certi uomini delle istituzioni e dell’impresa  si sono macchiati.
E tutto questo è potuto accadere grazie a gente che ha lavorato incessantemente con la collaborazione di altra gente, anche molta di quella che avrebbe dovuto impedirlo, per fare in modo che parole come “legalità, giustizia e verità” in questo paese diventassero inascoltabili e  illeggibili senza provare un moto di rassegnato disgusto.
La dichiarazione di Grasso di cui si è parlato tanto in questi giorni circa il premio per quella lotta antimafia che avrebbero fatto berlusconi e il suo governo dice tutto.

 Ci torno ancora e ancora su questo episodio,  e ci tornerò perché ritengo inaccettabile che il procuratore nazionale antimafia parli di premi da dare ad un amico dei mafiosi, uno che ha fatto affari con la mafia [e non lo dico io ma l’ha stabilito un Tribunale], uno che pagava un killer condannato a tre ergastoli, un assassino per accompagnare i suoi figli a scuola.

Uno che si è fatto fare un partito da un condannato per mafia che ancora si può ammantare del titolo di senatore della repubblica italiana e che oggi qualcuno vedrebbe bene al quirinale, degno rappresentante di un paese come il nostro.

Un po’ di storia sull’ “eroe” mangano.

Questo è quello che casini va a trovare in carcere una volta alla settimana perché “la sua coscienza glielo impone”.