Il quinto grado

I quattro assassini di Federico Aldrovandi, poliziotti, tutori della legge sono stati condannati a tre anni e mezzo grazie all’indulto, non hanno scontato la pena, non sono mai stati spogliati della divisa e sono tornati regolarmente in servizio a marzo dello scorso anno. Ve lo ha detto Bruno Vespa?
Nell’omicidio di Federico di colposo non c’era proprio niente: scagliarsi su una persona e colpirla a calci e botte fino a sfondargli il torace e spaccargli il cuore non è uno sbaglio né un eccesso di legittima difesa. Per Federico si sono praticamente inventati un reato proprio per ridurre la responsabilità di chi l’ha ucciso: “eccesso colposo nell’uso legittimo delle armi”, cioè a dire che quattro persone attrezzate per fermare una persona senza violenza sono stati costretti ad usarla. Della tragedia di Federico si è molto parlato e si parla ma le coscienze dei suoi assassini non si sono turbate al punto di far rinunciare loro alla divisa che indegnamente ancora indossano. Indegnamente perché a parte il diritto che ha riabilitato anche loro nel delitto di Federico c’è il tradimento allo stato: la polizia dovrebbe tutelare e proteggere i cittadini, non ammazzarli di botte per “legittima difesa”, specie se sono inermi e disarmati. La sentenza ci ha raccontato come sempre la verità processuale, ognuno poi interpreta quei fatti secondo il suo sentire.
Per me la vita di persone giovani, due ragazzini come erano Federico e Marta Russo non vale certamente una manciata di mesi, pochi anni di condanna, ma mi vengono i brividi se penso a cosa sarebbe di questa Italia se il giudizio si dovesse basare su quello che chiede la pubblica opinione. In Italia abbiamo già quattro gradi di giudizio, compreso quello dei media che assolvono e condannano al talk show, non mi pare il caso di pretenderne un quinto da stabilire a furor di popolo: quello si faceva al Colosseo, non nei tribunali di una repubblica dove i giudici per fortuna non usano gli stessi parametri degli utenti dei social media. Se si impedisce ad una persona che ha commesso un reato e scontato la sua pena di potersi guadagnare da vivere onestamente come è nel suo diritto si rischia di rimandarla a commettere altri reati solo per sopravvivere.

La vicenda di ‪#‎Scattone‬ ci insegna ancora una volta quanto possono diventare pericolosi i processi che passano per i media e le televisioni.
Io ho una mia opinione sul caso ma è appunto un’opinione che non c’entra niente col diritto.
Per me fra una persona che si arma per uccidere, non per difendersi o in preda al raptus ma per sperimentare un’emozione nuova e una che non lo fa qualche differenza c’è.
Ma il sentire comune non può diventare la regola né tanto meno la legge come piacerebbe a quelli che rivendicano i diritti solo quando riguardano le loro esigenze e bisogni ma poi sono pronti a rinnegarli quando si applicano sugli altri.
E non vale nemmeno il sentire di una madre a cui hanno tolto in modo violento il bene più prezioso: non siamo la talebania che fa giudicare i colpevoli alle vittime.
Io non voglio entrare nel merito del processo che ha condannato Scattone, non voglio sapere se è davvero colpevole o no, so che c’è stata una sentenza che come ci insegnano quelli bravi “si rispetta”.
So che Scattone ha scontato la sua condanna in un carcere, non lo hanno mandato a passeggio ai giardinetti di Cesano Boscone né da Don Mazzi.
So che il diritto lo riabilita e gli consente di ricominciare a vivere, so che esistono questioni di opportunità ma che anche queste come il sentire comune non c’entrano niente col diritto che restituisce a Scattone una dignità sociale che gli viene negata nel momento in cui la sua vita, la sua storia diventano materia da talk show e social media e alla quale lui ha dovuto rinunciare per le pressioni mediatiche successive alla notizia del suo passaggio a ruolo in una scuola.
So anche che Scattone ha fatto supplenze per dieci anni ma nessuno ha gridato allo scandalo, probabilmente perché non tutti lo sapevano.
Ecco perché sono sempre più convinta che il ruolo della cosiddetta informazione abbia delle grosse responsabilità non solo per quanto riguarda la politica ma anche nella nostra vita privata e sociale, nel momento in cui la nostra vita diventa materia di dibattito pubblico e viene data in pasto ai giustizieri da tastiera.

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